[Traduzione a cura di Benedetta Monti dall’articolo originale di Paul Rogers, pubblicato sul sito openDemocracy.]
Agli inizi del 2014, in Occidente il movimento allora conosciuto come Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS o ISIL) e oggi semplicemente come Stato Islamico (IS), non destava particolari preoccupazioni. La cosa è cambiata radicalmente insieme all’avanzamento veloce di questo gruppo attraverso zone dell’Iraq, inclusa la cattura della città di Mosul, durante la prima metà del mese di giugno. Ora, le orribili uccisioni – messe in scena a scopo di propaganda – dei due giornalisti in ostaggio, James Foley e Steven Sotloff, destano una preoccupazione ancora maggiore.
Una risposta militare immediata agli omicidi è trattata con cautela, riconoscendo anche che potrebbe essere proprio questo ciò che vuole lo Stato Islamico. Infatti, gli omicidi potrebbero essere un’istigazione diretta ad un’azione militare (vedi “Second execution video shows that Islamic State has a grim strategic plan” – “Il secondo video dell’esecuzione mostra che lo Stato Isamico ha un piano strategico spietato”, The Conversation, 3 settembre 2014).
È chiaro che il dibattito riguardo al modo in cui i Paesi occidentali dovrebbero rispondere deve essere basato sulla comprensione dello stato attuale e della motivazione di questo movimento. Ci sono almeno cinque elementi importanti da considerare. Primo: l’IS è ben organizzato e coerente nella gestione del territorio che controlla attualmente – un’area grande circa come il Regno Unito e con più di 4 milioni di persone sotto gradi diversi di controllo.
Secondo: il movimento opera con altri gruppi in un modo che potrebbe essere adatto ai suoi scopi nel breve termine. Questi gruppi includono i clan ba’athisti e sunniti in Iraq che erano contrari al governo di Nouri al-Maliki a Baghdad, che favoriva la maggioranza sciita dell’Iraq. Questo adesso potrebbe cambiare dato che al-Maliki è stato sostituito, come primo ministro, da Haider al-Abadi, ma forse non per un lungo periodo.
Terzo: l’abilità paramilitare dell’IS è stata migliorata da anni di combattimenti in Siria e da un periodo ancor più lungo in Iraq. In quest’ultimo caso, inoltre, la sua battaglia era contro le truppe americane che erano sia ben armate sia altamente motivate dalla necessità di rispondere a ciò che consideravano un’insurrezione di terroristi direttamente connessi agli attacchi dell’11 settembre. Una caratteristica dell’occupazione americana in Iraq era rappresentata dalla detenzione di decine di migliaia di iracheni senza un processo, spesso per anni e anni. Le prigioni americane squallide e sovraffollate erano punti caldi per la radicalizzazione e molti giovani erano più che disposti ad unirsi al movimento dopo il loro rilascio.
Quarto: il sofisticato utilizzo della propaganda per rivolgersi ai sostenitori e potenziali adepti. Un esempio è dato dalla presenza dell’IS sui moderni social media e dal trattenere ostaggi in replica all’azione militare occidentale.
Quinto, e forse il più importante degli elementi: l’idea di base dell’IS – la creazione di un nuovo califfato – che è stata capace di toccare le corde più sensibili nelle menti dei musulmani ribelli scontenti, soprattutto giovani e maschi, e includere anche quelli che non hanno un’esperienza diretta nell’area dove si sta cercando di realizzare questo obiettivo.
Questa ambizione deriva dal desiderio di stabilire un’entità religiosa e politica unitaria del tipo conosciuto al mondo islamico in passato durante gli ultimi 1.400 anni. L’ultimo califfato è stato abolito a causa della caduta dell’impero ottomano nei primi anni del 1920, anche se il punto di riferimento classico spesso è il califfato degli Abbasidi che aveva sede a Baghdad dal 750 dC e ha avuto il suo apice nel X secolo.
Quel califfato era potente: si estendeva in gran parte dell’odierno Medio Oriente, era il centro della civiltà più importante al mondo (con grandi conquiste nell’astronomia, nell’arte, nell’architettura, nella medicina e in tanti altri campi), ed era relativamente benevolo nei termini della politica (con la presenza di comunità importanti di ebrei e cristiani nelle grandi città).
Tale esempio è abbastanza diverso dalle idee dell’estremo e puritano IS. Il successo di questo movimento nel promuovere l’idea di un nuovo califfato, però, sfrutta la percezione profonda innata che il mondo musulmano sia stato in regresso per centinaia di anni davanti all’espansionismo occidentale, e che questo processo debba essere invertito. Una visione del mondo da non sottovalutare. Dall’altro lato c’è la paura tipica occidentale: quella nei confronti di un’entità islamica incontrollata che sfida l’Occidente ad ogni occasione. Pare che ci sia poca possibilità di trovare un punto di incontro.
Il momento di regolare i conti
Questo rende ancora più consigliabile analizzare un po’ di più il modo in cui questo racconto si diffonde, specialmente tra alcuni giovani uomini disillusi ed emarginati. Ci sono due aspetti nel procedimento. Il primo riguarda l’affermazione ripetuta che gli Stati Uniti e i loro alleati sono determinati a controllare l’intero mondo islamico. Questo “nemico lontano”, secondo il modo di pensare di chi sostiene l’IS, si è comportato in modo barbaro nella repressione di Stati indipendenti e ha anche aiutato uno Stato, Israele, a perseguire questo obbiettivo anche nel cuore del mondo islamico (controllando il terzo luogo sacro dell’Islam, Haram al-Sharif). Quello che si sta affermando è che un complotto sionista minaccia l’integrità dell’Islam, e che questo complotto deve essere combattuto e sconfitto, non importa il tempo che ci vorrà.
Il secondo aspetto riguarda il fatto che la maggior parte delle azioni dal 2001 possono essere considerate come aggressioni, includendo la fine dei regimi in Afghanistan, in Iraq e in Libia oltre a molti casi di comportamento barbaro come la rappresaglia dei marines con il raid aereo su Fallujah nel 2004 (vedi l’articolo “Between Falluja and Palestine”, del 22 aprile 2004). Inoltre, la crociata sionista ha ricevuto un incoraggiamento dalla morte e distruzione avvenute a Gaza nel luglio-agosto del 2014, che sono state rese possibili dai miliardi di dollari dell’aiuto militare americano a Israele – frutto di un rapporto intimo che dura da decenni tra queste due nazioni (vedi l’articolo “After Saddam, no respite” del 19 dicembre 2003).
Questo movimento quindi ha una dimensione escatologica ma include anche la tradizionale acquisizione del potere, profondamente pervasa dal controllo maschile. Anche se gran parte di questa visione del mondo è un’esagerazione grossolana, contiene una parte di verità che potrebbe fornire un’autenticità pericolosa e attirare un ampio supporto.
Su queste basi, dunque, lo Stato Islamico cerca di istituire un califfato solido in risposta alla minaccia occidentale. Se l’Occidente volesse accogliere la sua sfida, dovrebbe confrontarsi con alcuni dei propri errori più gravi e comportamenti anche peggiori. Sarebbe molto difficile, ma essenziale se non c’è nessun altro modo di andare avanti.