La storia di Zak, figlio di terrorista che ha scelto la pace

Ci sono storie che bisogna conoscere. Bisogna conoscerle così che la percezione della realtà smette di andare in un sola direzione. E si scopre così che non esiste solo il fanatismo, non esiste solo l’odio, non esiste solo la voglia di far guerra e di distruggersi gli uni con gli altri.

Approfittiamo di un evento per parlarne. Un intervento su Ted, piattaforma che consente di diffondere idee a livello globale. L’intervento è quello di Zak Ebrahim – nome adottato anche come segno di un distacco dal passato. Zak era un bambino piccolissimo quando, nel 1990, il padre El-Sayyid Nosair uccise il leader della Jewish Defense League. Finì in carcere e da lì collaborò al piano per bombardare il World Trade Center nel 1993.

Cresciuto tra odio, fughe da una casa all’altra, lezioni per imparare a sparare e il disagio di non accettare quella vita, Zak ha poi fatto una scelta. Perchè – dice – “l’odio è sempre una scelta e così pure lo è la tolleranza“. La sua storia l’ha raccontata in The terrorist’s son, sottotitolo Storia di una scelta.

In questo suo intervento – appena pubblicato su Ted – Zak racconta il percorso che lo ha portato a decidere un futuro diverso per se stesso. Condividerlo è anche un modo per dire a molti altri: si può fare.

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Si può fare anche a cercare altri sistemi di risposta all’aggressione, al desiderio di guerra. Come reagire alla prepotenza senza diventare delinquenti? Esitono altre armi oltre la risposta dura e il pugno di ferro? Esistono secondo chi ha dedicato la vita ai meccanismi di pacificazione e al dialogo per la risoluzione dei conflitti. Scilla Elworthy lo spiega: non sono gli uomini che bisogna combattere, sono uomini come noi che la pensano in un modo diverso. È l’idea che porta ai conflitti e a scelte dannose per l’umanità, che va cambiata.

Scilla guarda alle cose con ottimismo, a rischio di sembrare naif. Ma tanto meglio l’utopia della pace e la rincorsa al dialogo, che la certezza dei danni dei conflitti. Armati o anche solo verbali.

Lottare sì, ma con la non violenza.

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Una via d’uscita, insomma c’è sempre. E non è quella della guerra. Anzi ce ne sono addirittura 81. Ottantuno metodi per la resistenza non violenta. Perché il percorso per risolvere i conflitti è lungo, meditato, accurato e richiede precise strategie. Ad indicare queste strategie è stato Gene Sharp – fondatore nel 1983 dell’Albert Einstein Institute per “lo studio e l’utilizzo della nonviolenza nei conflitti di tutto il mondo”.

Soprannominato per il suo impegno per la pace “il Clausewitz della guerra nonviolenta” Sharp ha scritto tempo fa un saggio, poi tradotto in 26 lingue ma – sembra – vietato in molti Paesi, che ha tra l’altro ispirato alcune rivoluzioni non violente, compresa la Primavera Araba. Il testo in questione – che qualcuno ha definito una “guida essenziale  alla resistenza pacifica” è “From dictatorship to Democracy“, disponibile online, da stampare gratuitamente.

Dovremmo leggerlo tutti. Non solo chi semina conflitti. Perché il conflitto è nella mente ed è là che bisogna cominciare a agire.

 

Antonella Sinopoli

Giornalista professionista. Per anni redattore e responsabile di sede all'AdnKronos. Scrive di Africa anche su Nigrizia, Valigia Blu, Ghanaway, e all'occasione su altre riviste specializzate. Si interessa e scrive di questioni che riguardano il continente africano, di diritti umani, questioni sociali, letteratura e poesia africana. Ha viaggiato molto prima di fermarsi in Ghana e decidere di ripartire da lì. Ma continua ad esplorare, in uno stato di celata, perenne inquietudine. Direttore responsabile di Voci Globali. Fondatrice del progetto AfroWomenPoetry. Co-fondatrice e coordinatrice del progetto OneGlobalVoice, Uniti e Unici nel valore della diversità.

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