4 Novembre 2024

“Io sto con la sposa”, per non dire: non sapevo

“L’utopia di un Europa meno ‘fortificata’” è ciò che ha spinto il regista Antonio Augugliaro, il poeta siriano palestinese Khaled Soliman Al Nassiry e il giornalista e fondatore di Fortress EuropeGabriele del Grande, a realizzare il documentario “Io sto con la sposa”, attualmente in cerca di finanziatori attraverso il crowdfunding.

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Un viaggio clandestino di cinque palestinesi e siriani che da Lampedusa puntano ad arrivare in Svezia accogliendo l’idea dei tre ideatori del film: inscenare un finto corteo nuziale per avere più chance di passare le frontiere europee. Perché: chi bloccherebbe una sposa per controllarne i documenti? Un film con protagonista “un gruppo transnazionale in cui ognuno è legato all’altro dal rischio di favoreggiamento di immigrazione clandestina per l’italiano, e quello di non poter arrivare in Svezia per i siriani-palestinesi” dice Augugliaro a Voci Globali. 

Antonio, per dirla con le parole dello scrittore Robert Anson Heinlein, “tutti sono capaci di farsi notare, ma per passare inosservati serve del talento vero”. E passare inosservati facendosi notare è ancora più difficile. È così?

Non direi. Per noi è stato sufficiente un semplice travestimento. Pensandoci bene è una questione di estetica. Quando si parla di migrazione i media ci propongono immagini di barconi stracolmi accostate a statistiche e percentuali. Ne deriva una percezione spersonalizzante del migrante, che viene dipinto come l’invasore o il delinquente. La nostra maschera invece, allontanandosi radicalmente da quell’immaginario, ci ha permesso di restituire umanità e dignità a delle persone che, in fondo, fuggono da una guerra terribile e vorrebbero trovare accoglienza in un Paese che ha aperto loro le frontiere: la Svezia. Penso ad esempio ad una delle prime scene del film ambientata all’interno di un parrucchiere, in cui i 5 palestinesi-siriani si rifanno il look. Per me è stata come una vera e propria performance artistica. È bastato infatti allontanarsi leggermente dall’immaginario cliché del migrante, per far accettare l’idea che i nostri personaggi fossero delle vere star cinematografiche, mettendo i parrucchieri nella condizione di essere artefici e destinatari al tempo stesso del loro cambiamento. Oppure penso ad uno dei momenti finali del viaggio dove a Copenaghen un poliziotto ha fatto le congratulazioni per il matrimonio agli sposi…

Un documentario che è anche un’azione politica. Per dire basta a ciò che succede alle nostre frontiere con 20.000 morti in mare negli ultimi 20 anni. In questa vostra azione politica e cinematografica c’è dentro tanta rabbia e una buona componente di rischio. Quanto il rischio corso è legato alla fiducia in un’altra Europa percorribile?

Alla fine del documentario, prima dei titoli di coda, abbiamo deciso di mettere una dedica ai nostri figli “affinché sappiano che i loro padri non si voltarono dall’altra parte“. Questo per noi è la cosa più importante di questo film. Perché se abbiamo fatto tutto questo è per loro. Uno sguardo positivo al futuro quindi è inevitabile in un film come questo. È l’utopia di un’Europa meno “fortificata” che ci ha spinto a realizzarlo. Ed è anche la convinzione che cambiando linguaggio, cambiando l’estetica con la quale si affrontano di solito questi temi, si possa essere più efficaci nella comunicazione. Perché questo in fondo è un film che emoziona, che commuove, che diverte. Mai c’è uno sguardo pietistico nei confronti del migrante. Piuttosto c’è un gruppo transnazionale in cui ognuno è legato all’altro dal rischio. Quello di favoreggiamento di immigrazione clandestina per l’italiano, e quello di non poter arrivare in Svezia per i siriani-palestinesi. E alla fine del viaggio, mentre scorrono i titoli di coda, vorresti passare ancora un po’ di tempo con i personaggi del film. E te li porti nel cuore per qualche giorno con il desiderio di incontrarli per davvero. E quando aprendo il giornale il giorno dopo, ti ritrovi davanti all’ennesima foto di un barcone di migranti, t’immagini che ogni persona che sta su quella barca potrebbe essere uno dei personaggi del film. Con una storia che ti ha colpito, con una dignità che è difficile da dimenticare, con una simpatia che vorresti ritrovare.

Non avete neppure preso in considerazione un film di fiction che prendesse le mosse dallo stesso spunto, ma senza il rischio di favoreggiamento per immigrazione clandestina?  

Inizialmente l’idea del matrimonio era un modo per aiutare alcune persone palestinesi-siriane in fuga dalla guerra, a raggiungere la Svezia. Sono stato poi io che ho insistito affinché se ne realizzasse un film. Perché sentivo che questa era una storia che andava raccontata. E perché parlare di diritto al viaggio con dei personaggi che per il diritto internazionale sono considerati apolidi era per me molto interessante. C’è una scena molto bella all’inizio del film quando il corteo nuziale parte da Milano. Dopo pochi chilometri Khaled riceve una telefonata in cui la moglie gli comunica che ha ricevuto la cittadinanza italiana. È molto commovente. Ed è in quel momento che si capisce quanto può essere importante sentirsi parte di uno Stato, avere la possibilità di viaggiare senza problemi, sognare per i propri figli un futuro libero da leggi repressive.

Il vostro corteo nuziale ha percorso un tragitto da Milano a Stoccolma fra il 14 e il 18 novembre 2013. Avete lavorato a ritmi estenuanti e con lo stress di essere fermati. Come si riesce a lavorare creativamente con tanta adrenalina e tanta fatica addosso?

Il viaggio è stato estenuante, è vero. Ma è anche vero che si è creato un bellissimo clima nel gruppo. Ad un certo punto eravamo come una cosa sola. Tanto che a Copenaghen, per esempio, è stato difficile decidere di dividerci in case diverse, per passare la notte. Questa è stata l’unica ragione per cui siamo riusciti ad avere del buon materiale per il film. Il secondo giorno di viaggio, ricordo che eravamo fermi in un autogrill per una sosta. Un operatore e il fonico mi hanno preso in disparte e mi hanno detto chiaramente che se non fosse stato per il clima che si era creato, se ne sarebbero tornati a casa il primo giorno!

La protagonista che avete scelto come sposa è una giovane palestinese. Quali le sue aspettative rispetto al documentario? Come ha preso la scelta di adottare un registro “farsesco” per individuare una modalità inedita di raccontare la tragedia delle nostre frontiere?

Riguardo alle sue aspettative non saprei. So che appena le abbiamo spiegato l’idea del film ne era entusiasta. Innanzitutto perché poteva aiutare dei palestinesi-siriani a raggiungere la Svezia evitando i contrabbandieri. E poi perché aveva (e forse ha ancora) una gran voglia di raccontare questa tragedia al più grande numero possibile di persone. Perché la gente sappia. Perché nessuno possa girarsi dall’altra parte facendo finta di non sapere. Quando muoiono 20.000 persone in mare per un viaggio che con Ryanair costerebbe poche decine di euro, il dovere di chi sopravvive è quello di raccontare. Per non dimenticare. Così oltre alla morte, rimane anche una storia, una speranza.

Il critico Arturo Graf ammoniva: “amoreggiate con le idee finché vi piace; ma quanto a sposarle, andateci cauti”. Che idea di Europa vi sentite di sposare rispetto anche alla crisi italiana?

L’Europa che ci piace è quella che ci ha aperto le case per ospitarci. Quella composta da migliaia di persone che ci sostiene ogni giorno con il crowdfunding e che si ritrae nei selfie con un cartello su cui c’è scritto “Io sto con la sposa”. L’Europa che non crede all’invasione dei migranti. L’Europa che ha aperto le frontiere con l’Est, per esempio, constatando che non c’è nessun pericolo.

Del vostro documentario si è parlato di idea pazza, bravata e anche “farsa”: un linguaggio “sovversivo” per sfidare la tragedia con l’arma del sorriso. Farsa – secondo il dizionario Treccani – ai primordi del cinema indicava “la scena comica finale che si usava far seguire ai film drammatici”. Ma il vostro documentario è tutt’altro che un lavoro dai toni consolatori, vero?

Il film non è né consolatorio e né desolante. Direi piuttosto che ricalca la realtà con i toni della commedia. Ma non c’è una morale di fondo o una tesi da dimostrare. Ci sono dei personaggi. C’è l’avventura, il rischio, la gioia e la sofferenza. C’è, in buona sostanza, l’essere umano lontano dal cliché.

Attraverso il crowdfunding puntate sui finanziamenti “dal basso” per arrivare a 150mila euro circa. Come si può contribuire?

Il nostro obiettivo adesso è finire il film per presentarlo al Festival di Venezia. Ma per riuscire a farcela abbiamo bisogno del contributo di tutti perché i costi per la postproduzione sono troppo alti per noi (color correction, sound design, montaggio video, musiche, ecc…). Così abbiamo lanciato una campagna di crowdfunding per arrivare a coprire almeno la metà del budget complessivo. Ognuno può donare da 2 a 1.000 euro e ad ogni donazione corrisponde un premio. È molto importante per noi non solo per raccogliere i fondi necessari, ma anche per dimostrare a noi stessi che esiste davvero una comunità di migliaia di persone che “sta con la sposa”, ovvero che come noi sogna che un giorno il nostro Mediterraneo smetta di essere un cimitero di migranti e torni ad essere il mare che ci unisce con le culture più antiche del mondo.

 

Elena Paparelli

Giornalista freelance, lavora attualmente in Rai. Ha pubblicato tra gli altri i libri “Technovintage-Storia romantica degli strumenti di comunicazione” e “Favole per (quasi) adulti dal mondo animale”.

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