22 Novembre 2024

World Bank, lo “sviluppo” che porta ineguaglianza e povertà

[Traduzione a cura di Antonella Sinopoli dall’articolo originale di Martin Kirk, pubblicato su Think Africa Press]

Sviluppo internazionale” è un termine un po’ nebuloso e comprende molte cose. Richiama qualcosa di buono – chi vi è coinvolto è spesso considerato una brava persona – ed è un’espressione che sta insieme a molte altre che racchiudono più o meno simili e nobili concetti, come “aiuti esteri” e “soccorsi umanitari”. Che aiuti le vittime di un terremoto o di un disastro economico, lo “sviluppo internazionale” è generalmente inteso come una “buona cosa”.

Come vi sentireste allora se proprio quei progetti che stanno sotto l’ombrello dello “sviluppo internazionale” nascondessero in realtà qualcosa di più oscuro, meno altruistico e molto più legato a interessi personali? Cosa pensereste se scopriste che alcuni gruppi incaricati di guidare lo sviluppo globale in realtà stanno lavorando per una piccola élite transnazionale anziché per quegli 870 milioni di persone nel mondo che soffrono di denutrizione cronica o per quel miliardo e 200 milioni di persone che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno?

Ebbene, in molti modi, la World Bank, con i suoi 30 miliardi di dollari di budget all’anno, sta facendo proprio questo, contribuendo in tal modo alla miseria e alla distruzione dell’ambiente.

Il presidente della Banca Mondiale Jim Yong Kim, a sx, ascolta il presidente dell'African Development Bank, Donald Kaberuka. Foto di Dominic Chavez/World Bank.


Le leggi della terra

Secondo la World Bank, la sua missione è “porre fine alla povertà estrema nel giro di una generazione” e “aumentare la ricchezza condivisa“. E, come quasi tutti i governi e le istituzioni multilaterali, la Banca, in linea con la corrente ortodossia economica e tutti i suoi modelli, ritiene che la riduzione della povertà debba avere come prerequisito la crescita economica. Per questo modo di pensare, quasi ogni tipo di crescita è considerata positiva.

Un altro presupposto di tale visione economica è che, per crescere, i Paesi in via di sviluppo devono essere collegati ai mercati globali. Devono essere in grado di vendere quello che hanno a chi lo richiede, si tratti di petrolio, grano, terreni, cotone o diamanti. E mentre il cambiamento climatico pone una sfida all’accesso all’acqua e aumenta la preoccupazione dei governi sulla sicurezza alimentare, la lista include anche, ed è cruciale, la terra coltivabile. Una terra che – specialmente se vicina a fonti d’acqua – sta diventando sempre più rara e preziosa. La domanda è già molto alta, sia per coloro che hanno in programma colture industriali, spesso monocolture, sia per coloro che sono sul mercato per fare affari rapidamente.

In sostanza tutta la terra commerciabile è già proprietà di qualcuno, perlopiù piccoli agricoltori, pastori e popoli indigeni – esattamente quella sorta di gruppi di individui a cui dovrebbero rivolgersi i progetti di “sviluppo internazionale”. Ma, sfortunatamente per milioni di queste persone – dalla Cambogia, all’Etiopia, al Guatemala – essi non posseggono nessun documento che attesti il diritto e il possesso della terra. Il fatto che custodiscano e si prendano cura della stessa terra da generazioni o che stiano fornendo cibo all’80% del mondo sviluppato o che i loro metodi siano sostenibili a livello di rispetto dell’ambiente, laddove invece l’agricoltura industriale è altamente tossica, diventa così irrilevante. Nessun documento significa nessun diritto di rivendicazione. O, per arrivare al punto, nessun documento significa che la terra appartiene ufficialmente al governo, il che significa che è disponibile per il mondo intero come un bene commerciabile.

Dentro la World Bank

Attraverso un sistema denominato Doing Business, la World Bank usa il suo consistente potere finanziario e politico per rendere più facile possibile il cambio di proprietà di questi beni. La terra è spesso scambiata in grandi lotti e solo per coloro che posseggono il capitale richiesto per l’acquisto su larga scala: grandi corporazioni straniere ed élite locali.

Il fatto che la World Bank aiuti in questo modo un semplice 1%, potrebbe non essere necessariamente una cosa cattiva. Dopo tutto, gli investimenti possono portare al Paese lavoro, entrate fiscali ed esperti – e in effetti questo è sviluppo. Ma è raro che ciò accada.

In molti altri casi alle corporazioni sono fornite considerevoli opportunità fiscali e il numero di posti di lavoro e di esperti sono minimi. Questo prima di tutto perché l’industria agricola è pensata per operare con il minor apporto umano possibile, poi perché anche quei pochi lavori disponibili sono spesso mantenuti in un circolo relativamente chiuso di espatriati, più una manciata di lavoratori del posto.

Questo tipo di investimento estero determina comunque una cosa cruciale. Porta più attività economica nel Paese di quanta ce ne fosse in precedenza. Questa attività può non beneficiare i cittadini e il denaro può lasciare il Paese verso paradisi fiscali con la stessa velocità con cui arriva ma, sebbene per breve tempo, è lì. E quindi viene registrato come crescita per il Paese. In questo modo, sulla carta risulta che la World Bank aiuta i Paesi in via di sviluppo a connettersi con i mercati globali e alza il Prodotto Interno Lordo.

Il sistema del Doing Business incoraggia questo tipo di economia premiando i Paesi che agiscono in favore del criterio dell’“ease of doing business”, e la lista di questi Paesi è pubblicata in un Report annuale. La Banca afferma che le sue classifiche “sono servite come un forte catalizzatore per iniziative di riforme” ma, come abbiamo visto, tali riforme servono soprattutto ai bisogni di un’economia internazionale e su larga scala.

Per capire basta guardare al tipo di politiche che la Banca ricompensa. Per esempio, la presenza di pochi regolamenti per l’acquisto della terra: il più alto punteggio va ai Paesi con totale libertà di acquisto. Anche tassazioni minime permettono a un Paese di essere elencato tra i virtuosi, con il punteggio maggiore a quelli con zero tasse per le grandi aziende. Sul versante opposto, ci sono Paesi che sono puniti anche per offrire ai lavoratori salari minimi.

È questo, insomma, il progetto neoliberale per lo sviluppo economico: tasse minime, salari e protezioni minimi, massima privatizzazione e minimi standard di protezione ambientale. Qualunque cosa, in altre parole, che possa massimizzare i ricavi e la concentrazione degli stessi nelle mani di pochi.

La World Bank afferma che le classifiche hanno semplicemente lo scopo di minimizzare la burocrazia, ma anche un breve sguardo ai Paesi che vengono spostati su e giù nella lista, mostra che tale sistema funziona come un bulldozer che fa piazza pulita dei piccoli proprietari di terra e di qualunque occupazione locale o protezione ambientale esistente, in modo che grandi corporazioni occidentali o élite locali possano farsi strada e cominciare a produrre ricchezza per sé.

Nella classifica del 2012, per esempio, il Camerun è passato dal 165esimo al 161esimo posto dopo che ha reso più facile “avviare un business”, permettendo ai fondatori delle aziende di produrre solo una dichiarazione giurata invece che una copia attestata della fedina penale.

La Liberia, nel 2008-2009, è stata collocata tra i primi dieci del Doing Business per le misure prese (con l’aiuto del team di consulenti delle riforme del Doing Business) nelle aree dello “start-up delle imprese”, dei “permessi di costruzione” e del “commercio alle frontiere”.Questa nuova e più brillante posizione ha permesso al Paese di attrarre investimenti dai giganti della produzione di olio di palma, come la britannica Equatorial Palm Oil nel 2008, la Sime Darby della Malesia nel 2009,la Golden Agri-Resources di Singapore nel 2010. Tali presenze hanno significato la presa di possesso da parte delle corporazioni di milioni di acri di terra a detrimento delle popolazioni di coltivatori locali e del loro sostentamento.

Anche la Sierra Leone è ritenuto un Paese che ha messo in atto buone riforme e il suo posto nella lista del Doing Business è salito di quindici punti tra il 2008 e il 2010. In particolare, sono stati ritenuti passi importanti quelli fatti nel settore della “protezione investitori”, soprattutto quelli per ridurre il peso fiscale per le compagnie che investono nel Paese e che riguardano l’introduzione di aliquote di imposta flessibili.

Storie simili riguardano il Guatemala, lo Sri Lanka, il Nicaragua, il Senegal, l’Honduras e le Filippine. In tutti questi casi, il bisogno delle persone comuni è stato calpestato dal bulldozer del Doing Business della World Bank. Milioni di persone al mondo vengono costantemente sfollate e sradicate dal loro territorio. Tutto questo per aiutare a creare una ricchezza che loro non vedranno mai.

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TheRules ha lanciato una campagna affinché la World Bank abolisca il sistema della classifica secondo gli schemi del Doing Business. La campagna, dal titolo Our Land, Our Business, è portata avanti insieme a gruppi di agricoltori locali e della società civile, per un totale di 180 organizzazioni, ed è organizzata in vista del meeting annuale di ottobre della World Bank.]

[ Antonella Sinopoli, coordinatrice editoriale di Voci Globali, risiede attualmente in Ghana, nella Regione del Volta, per una permanenza di alcuni mesi. Oltre che partecipare da lì alla vita della nostra redazione, contribuisce alla pagina con articoli e aggiornamenti sulla realtà del Paese in cui vive e sul continente africano.]

Antonella Sinopoli

Giornalista professionista. Per anni redattore e responsabile di sede all'AdnKronos. Scrive di Africa anche su Nigrizia, Valigia Blu, Ghanaway, e all'occasione su altre riviste specializzate. Si interessa e scrive di questioni che riguardano il continente africano, di diritti umani, questioni sociali, letteratura e poesia africana. Ha viaggiato molto prima di fermarsi in Ghana e decidere di ripartire da lì. Ma continua ad esplorare, in uno stato di celata, perenne inquietudine. Direttore responsabile di Voci Globali. Fondatrice del progetto AfroWomenPoetry. Co-fondatrice e coordinatrice del progetto OneGlobalVoice, Uniti e Unici nel valore della diversità.

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