Il ruolo della tecnologia nei movimenti per i diritti umani

[Traduzione a cura di Silvia Micali dall’articolo originale di Ian Levine, vice-direttore esecutivo di Human Rights Watch, pubblicato su openDemocracy.
Silvia Micali, nata a Valdagno (VI) nel 1993, frequenta l’ Istituto Superiore per Mediatori Linguistici ad Ancona, dove studia Inglese, Francese e Portoghese. Spera, dopo la laurea, di lavorare come interprete nel campo dell’immigrazione.]

 

Innovation camp dell'organizzazione Hurilab.org, foto Flickr su licenza CC

In questi anni, gli attivisti per i diritti umani sono diventati molto consapevoli dei possibili svantaggi della tecnologia. Lo scandalo delle intercettazioni della NSA, l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana, e le rivelazioni sulla raccolta dei metadati da ogni parte del mondo mostrano come gli sviluppi tecnologici hanno sorpassato la capacità del sistema legale di proteggere la nostra privacy.

La tecnologia sta anche permettendo agli scienziati e agli esperti militari di prendere in considerazione la costruzione di “robot killer”, vere e proprie armi sotto forma di droni o veicoli da combattimento che operano autonomamente e che sono capaci di uccidere senza che ciò sia loro ordinato da un essere umano. L’uso dei droni non controllati per omicidi mirati, senza effettiva trasparenza, responsabilità o vincoli giuridici chiari, solleva importanti domande, ancora senza risposta, sulla protezione dei diritti umani.

La tecnologia offre però enormi opportunità anche alle Organizzazioni per i diritti umani e agli attivisti. Human Rights Watch (HRW) riconosce sempre più il suo valore in due ambiti fondamentali del suo lavoro: la raccolta di informazioni sulle violazioni dei diritti umani e la promozione delle stesse all’opinione pubblica per influenzare i media e i responsabili dei governi e delle organizzazioni internazionali.

La tecnologia favorisce la raccolta di nuovi e diversi tipi di informazioni utili a documentare le violazioni dei diritti umani, in particolare nelle aree insicure e inaccessibili. Nel farlo, permette alle Organizzazioni non governative (NGO) di raccontare storie che altrimenti non sarebbero divulgate.

HRW si è servita delle immagini satellitari per documentare la massiccia distruzione di infrastrutture civili in Siria, gli attacchi contro le comunità musulmane in Birmania e i reinsediamenti forzati in Tibet. Nella Repubblica Centrafricana, i ricercatori dell’HRW hanno presentato ai comandanti della coalizione Seleka immagini satellitari che mostravano le decine di villaggi dati alle fiamme dalle loro forze armate, dimostrando loro così che, essendo stati ripresi, potrebbero un giorno essere incolpati per i loro crimini. Amnesty International ha pubblicato immagini satellitari che mostrano i campi di prigionia nella Corea del Nord, dimostrando la loro continua espansione.

La video analisi forense – l’analisi dettagliata fotogramma per fotogramma di video e altre immagini – è un’altra tecnica che può essere usata per catalogare le violazioni. In Siria, HRW se ne è servita, come anche delle immagini satellitari e dei testimoni oculari al fine di documentare nel dettaglio l’uso delle armi chimiche da parte del governo a Ghoutta, nell’agosto 2013, senza mettere piede a terra.

In tema di divulgazione, molto è stato scritto riguardo al modo in cui gli attivisti per i diritti umani si sono serviti dei social media per svilupparsi e attirare l’attenzione sulle loro cause. Twitter, Facebook e altri social media sono diventati strumenti indispensabili per gli attivisti, che possono così portare tempestivamente informazioni rilevanti all’attenzione di giornalisti, politici, compagni attivisti e chiunque possa contribuire a fare pressione sui responsabili delle violazioni dei diritti umani e su coloro le cui azioni o inazioni favoriscono tali violazioni.

Nella Repubblica Centrafricana, HRW ha affrontato la sfida cercando di attirare l’attenzione su una crisi molto trascurata. I live-tweeting dello staff di HRW e degli operatori umanitari nel Paese sulle orribili violenze sotto l’hashtag #CARcrisis, ha attirato l’attenzione dei media e, infine, l’azione da parte delle agenzie diplomatiche e umanitarie.

I progressi della tecnologia potrebbero avere sufficiente potenza per trasformare i movimenti per i diritti umani, permettendo agli attivisti locali armati solo di uno smartphone, un account Twitter e un canale YouTube di diventare distributori globali di informazioni e immagini sulle violazioni dei diritti umani. Il Syrian Observatory for Human Rights, una piccola ONG con base nel Regno Unito, è diventata l’organizzazione più citata per il conteggio delle vittime nel conflitto siriano, un fatto che solo cinque anni fa sarebbe stato inimmaginabile.

Tuttavia ci sono molti motivi per essere prudenti, molto prudenti. La tecnologia non è, e non sarà mai, una panacea per risolvere le questioni dei diritti umani. Anche quando è risultata molto efficace, come nel caso delle immagini satellitari dei villaggi distrutti, non può rivelare né chi ha dato fuoco alle abitazioni né il perché lo abbia fatto, né chi diede l’ordine. Solo le conferme derivanti dalle testimonianze delle vittime e dalle altre fonti, inclusi i social media, può fornire il contesto che consente l’identificazione dei responsabili. Inoltre, vi sono poche o nessuna prova che l’immagine satellitare o altri usi della tecnologia possano prevenire le violazioni dei diritti umani, piuttosto che limitarsi a documentarle.

Ed esistono rischi evidenti. Mark Twain disse che una bugia fa in tempo a viaggiare per mezzo mondo mentre la verità si sta ancora mettendo le scarpe. Nell’era digitale, quella bugia può modellare la comprensione degli eventi di ogni parte del globo in pochi minuti. In un tale contesto, verificare e avvalorare le informazioni è sempre più difficile. Come conseguenza della bomba alla maratona di Boston del 2013, speculazione e analisi disinformate hanno portato a una caccia alle streghe digitale che ha causato un danno enorme a persone innocenti.

Il crowdsourcing può essere un metodo per raccogliere informazioni importanti sulle violazioni dei diritti umani e ha già dimostrato di poter avere successo nell’identificazione di bisogni umanitari. I gruppi per i diritti umani, tuttavia, devono rimanere molto prudenti. Il crowdsourcing senza verifiche, soprattutto in situazioni caratterizzate da risvolti politici, è estremamente vulnerabile a manipolazione, pregiudizio e inesattezza.

Inoltre, l’adempimento degli obblighi etici e di protezione nei confronti delle vittime e dei testimoni di abusi ai diritti umani è una responsabilità fondamentale per chi indaga sui diritti umani. Bisognerebbe ottenere il consenso libero e informato dagli intervistati, e adottare misure per proteggere la loro sicurezza e la sicurezza delle informazioni che essi forniscono. In contesti nei quali le informazioni sono fornite attraverso la video analisi forense, il crowdsourcing o le immagini via satellite, queste misure di protezione non sono comunque meno rilevanti. Ma potrebbero essere più difficili da rispettare dato che la relazione con le vittime e i testimoni avviene da remoto e in modo indiretto.

Siamo ancora agli inizi per quanto riguarda la comprensione del potere della tecnologia per i movimenti in difesa dei diritti umani. Il potenziale è enorme. È però di vitale importanza che gli attivisti adottino un approccio non “dannoso”, caratterizzato da un utilizzo rigoroso, cauto e trasparente delle nuove tecnologie.

Se vi sono dubbi riguardo alla sua sicurezza, affidabilità o alle implicazioni etiche del suo impiego, la tecnologia non dovrebbe essere usata. Dobbiamo promuovere ragionevoli aspettative per quanto riguarda il potenziale uso e le capacità delle nuove tecnologie, assicurando che non ne sopravvaluteremo il valore.

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