Fotogiornalismo, l’evoluzione si chiama smartphone

E’ stato il cellulare il protagonista dello scatto salito sul podio del prestigioso World Press Photo, targato John Stanmeyer.

“Signal”, il titolo della foto “portavoce” della VII Photo Agency, ritrae un gruppo di migranti africani sulla costa di Gibuti (crocevia di viaggiatori che da Somalia, Etiopia ed Eritrea puntano verso Europa e Medio Oriente) nell’atto di alzare i loro telefonini sullo sfondo di un cielo scuro, mentre tentano di ritrovare un contatto con i loro cari distanti.

Qui, il cellulare si fa fulcro di una storia raccontata secondo uno stile che si discosta dal tradizionale foto-reportage “old school”: l’oscurità, le silhouette, il mare e, appunto, la moderna tecnologia – unico trait-d’union fra speranze, radici e nuovi approdi – racchiudono il senso di un dramma del nostro tempo. La distanza, il viaggio, la comunicazione interrotta.

Il cellulare conquista la scena, diventa oggetto dell’obiettivo del fotoreporter. Ma fra fotogiornalismo e cellulare c’è a ben vedere una storia decennale.

La foto vincitrice del World Press Photo 2013, 'Signal', di John Stanmeyer

Facciamo un passo indietro. Siamo nel 2003 e l’agenzia Grazia Neri – tanto per citare uno dei laboratori di punta del Belpaese (Emage)- lancia Makadam, magazine decisamente apripista a livello internazionale confezionato con scatti fotografici dei lettori muniti di semplice cellulare.

L’esperimento, pur trovando una calorosa accoglienza da parte degli utenti, trasformati in fotoreporter senza la necessità di dotarsi di alcuna attrezzatura professionale, impattò contro le resistenze di un mercato evidentemente non ancora pronto alla novità e chiuse dopo circa quattro anni di attività.

Ma la strada era ormai aperta e altri esperimenti di cameraphone community si preparavano ad affacciarsi sul web.

Il progetto America at Home, lanciato da Rick Smolan, si poneva per esempio come obiettivo quello di stimolare gli americani a farsi documentaristi della loro stessa vita attraverso il cellulare.

Oggi, nonostante resistano ancora perplessità di carattere ideologico, è un fatto che i telefonini siano diventati parte integrante del lavoro fotogiornalistico.

Basta scorrere le foto di siti come Every Day Africa o di account Instagram di fotoreporter come Ben Lowy, Cory Richards, o Aaron Huey , tanto per citarne alcuni, per accorgersene.

Non c’è dubbio che smarthphone e software come Hinstagram o Hipstamatic – garantendo portabilità, possibilità di immediata condivisione, effetti professionali di post-produzione – significano, per chi si avvicina al mestiere, possibilità di realizzare foto di buona qualità.

E se fra i professionisti non mancano certo i fotoreporter che pubblicano reportage prodotti con l’esclusivo uso di uno smartphone, anche fra gli scatti di vari fotoamatori e i “fotoreporter per passione” si trovano cose piuttosto interessanti.

Tanto da suscitare periodicamente una levata di scudi da parte dei professionisti timorosi di una eccessiva “invasione di campo”.

Per questi ultimi sono senza dubbio tempi duri: la recente decisione – maggio 2013 – del quotidiano statunitense di punta Chicago Sun-Times di chiudere i battenti di tutto il dipartimento fotografico, mandando a casa 28 fotografi professionisti, non è che l’ennesima conferma di una professione sotto attacco dall’avanzata inarrestabile della tecnologia “a portata di mano”.

Il rimpiazzo, per il Chicago Sun-Times, si trova direttamente in casa: perché non formare all’occorrenza giornalisti di redazione “iniziati” all’uso della fotografia cellulare?

Gli analisti più avveduti lo avevano previsto da tempo: il giornalista sarà chiamato a radunare in sé diverse figure professionali (fotografo, videomaker etc.), e il citizen journalism non fa che allargare l’orizzonte a nuove formule produttive.

Ma come guadagnare con il fotogiornalismo formato cellulare?

La piattaforma Clashot , per esempio – app messa a punto dall’agenzia fotografica Depositphotos e lanciata nel 2013-, offre una possibile risposta, aprendo alla possibilità di caricare sul sito i propri fotoreportage realizzati con il cellulare, disponibili ad essere condivisi.

In questo modo viene data a tutti la possibilità di “concorrere” a una selezione ad hoc finalizzata a  pubblicare i migliori scatti nella sezione editoriale di Depositphotos.com, che funziona da vera e propria vetrina a disposizione di agenzie giornalistiche e case editrici per l’acquisto di foto. E uno scatto venduto si traduce per l’autore in royalties.

Anche la celebre agenzia Magnum Photos si è dimostrata al passo con i tempi: fra i suoi membri spunta il nome di un fotografo come Michael Christopher Brown, che da tempo usa l’i-Phone, pubblicando i suoi lavori su testate importanti come Newsweek, Time, National Geographic.

E’ stato Brown a documentare la guerra in Libia con l’uso dell’i-Phone: “Il vantaggio fondamentale degli smartphone – ha dichiarato Brown– specialmente quando si fotografano persone, è che non vengono percepiti come strumenti fotografici in senso tradizionale e quindi scatenano nella gente meno esitazione, paura, o diffidenza rispetto a quella che spesso suscita una macchina fotografica”

Un vantaggio non da poco. Se si pensa soltanto al fatto che, agli albori del fotogiornalismo, un fotografo come Roger Fenton, spedito nel 1855 a documentare la guerra in Crimea, era costretto ad usare persino un carro coperto per portarsi dietro l’intera attrezzatura…..

Altro maestro dell’iPhone a salire sul podio è stato Balazs Gardi , che si è aggiudicato il terzo posto della sezione Attualità del SWPA 2011 con il suo reportage afgano fatto con l’uso dell’iPhone e dell’applicazione Hipstamatic.

Fotografi come Brown o Gardi hanno fanno scuola: in un progetto come Basetrack  basato sul giornalismo open source, diversi sono i fotografi che usano il cellulare come strumento di creazione dei contenuti.

Tuttavia, nonostante gli indubbi vantaggi offerti dall’i-Phone anche nelle zone di guerra, altrettanto forte resta la convinzione, fra gli addetti al settore, che non basti essere al momento giusto nel posto giusto.

Una foto convincente continua a farla soprattutto lo sguardo e lo stile di chi scatta.

E’ per questo cheVisa pour l’image, foto festival di punta a livello internazionale, si pone come uno dei tanti baluardi in difesa del fotogiornalismo che conta.

Mentre il cellulare – che brilla stretto nel pungno dei tanti migranti senza identità di “Signal”-, ribadisce comunque il suo ruolo di “star” della comunicazione contemporanea, custode discreto e portatile di tutti i possibili viaggi di oggi.

Elena Paparelli

Giornalista freelance, lavora attualmente in Rai. Ha pubblicato tra gli altri i libri “Technovintage-Storia romantica degli strumenti di comunicazione” e “Favole per (quasi) adulti dal mondo animale”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *