Cina: oltre il partito, intervista a Wang Hui
[Nota: traduzione a cura di Marisa Petricca dall’articolo originale di Wang Hui e En Liang Khong pubblicato su OpenDemocracy]
Da quattro mesi vivo a Pechino e come uomo di sinistra e scrittore mi affascina il fatto che la capitale sia ancora posseduta dai suoi fantasmi Maoisti. Dai ristoranti a tema ‘Rivoluzione Culturale’ alle serate con l’Opera rivoluzionaria, la memoria della Rivoluzione è relegata alla grande e mercificata cultura pop e a una nostalgia depoliticizzata.
Ogni mattina, quando vado in bicicletta attraversando la zona universitaria tra sciami di studenti, passo vicino al ‘triangolo’ del campus, dove si radunavano i manifestanti durante le esaltanti proteste del 1989. E mentre penso a questa generazione che ha guidato l’era della riforma, mi chiedo: a quali eredità si resta ancorati?
Wang Hui nel 1989 era qui. Anni dopo, con sentimenti di amarezza ricorda “quando ho lasciato Piazza Tiananmen insieme all’ultimo gruppo dei miei compagni di scuola, non ho sentito altro che rabbia e disperazione.” Ma nel campo di rieducazione [non di lavoro n.d.t] nella provincia dello Shaanxi, dove lo avevano portato, Wang ha fatto alcune scoperte rivelatrici e ha aperto gli occhi sulle ingiustizie subite dalla Cina rurale: “Ho improvvisamente realizzato quanto fosse lontana la mia vita di Pechino da quest’altro mondo“. La voce di Wang è emersa tra le numerose di quei pensatori critici cinesi in grado di squarciare l’amnesia culturale della nazione. L’intellettuale cinese ha sferrato soprattutto un feroce attacco ai costi sociali ed ecologici del Miracolo Cinese. Tale tendenza del pensiero di sinistra è una replica essenziale a quegli intellettuali liberisti cinesi che chiedono la riforma neoliberista. Parlando con Wang, ora esperto in storia intellettuale cinese all’università Tsinghua di Pechino, ho iniziato a percepire come l’eredità rivoluzionaria di fatto sia inseparabile dalla vita intellettuale e che le controversie sulle questioni del lavoro stanno dando forma alla Cina moderna.
Cina in rivolta?
Rifiutando di perseguire l’idea di salvezza nella dicotomia dello Stato e del mercato, il pensiero critico di Wang si basa su una profonda comprensione del potenziale dei movimenti sindacali. Un prezioso contributo a questo si può riscontrare nella lotta personale di Wang Hui, alcuni anni fa, contro la privatizzazione illegale di una fabbrica tessile nella sua città natale, Yang Zhou, quando aiutò i lavoratori ad intentare una causa contro il governo locale.
La “piccola storia” di Wang, che lui stesso mi ha raccontato davanti a una tazza di thè nel suo ufficio all’università, è un modo per entrare nel ben più esteso “macro-paesaggio della Cina, dagli ultimi anni ’90 agli ultimi anni di questo secolo, in cui la privatizzazione delle compagnie statali e delle industrie ha lasciato un gran numero di lavoratori disoccupati e senza un’adeguata liquidazione.” La svolta capitalista della Cina è iniziata alla fine degli anni ’70, sotto la leadership di Deng Xiaoping, con un programma di privatizzazione che ha in realtà arricchito lo Stato e i funzionari del Partito.
Le “basi istituzionali della corruzione“, sostiene Wang, vengono direttamente dal possesso privato delle imprese statali. “La corruzione non è solo la corruzione degli individui” mi ricorda “ma sta anche nel processo stesso di privatizzazione attraverso il quale gli investitori e molti di quelli che sono al potere, possono spostare soldi dalla proprietà pubblica alle tasche private e liberarsi della responsabilità che lo Stato dovrebbe avere nei confronti della classe lavoratrice“. Attualmente in Cina ha poco senso distinguere tra pubblico e privato. In entrambe le parti, regna la burocrazia, secondo una logica condivisa della pianificazione politica, della crescita economica e dei ristretti interessi della classe agiata. Durante gli anni ’90 c’è stata una speranza verso il liberalismo, si sperava che gli imprenditori della nuova Cina potessero creare una sorta di avanguardia democratica. Ma avevano dimenticato che la nuova élite degli affari dipende dallo Stato a partito unico e soprattutto dallo sfruttamento dei lavoratori.
Wang ha costantemente legato i suoi concetti di giustizia sociale all’importanza dei movimenti sociali. Una delle sue più grandi intuizioni intellettuali è stata dimostrare come le visioni neo liberiste occidentali delle proteste di piazza Tiananmen del 1989, visto semplicemente come un movimento studentesco che si batteva per i diritti democratici, abbiano fallito nell’apprezzare come altre parti della società stavano affinando la loro sfida socio-economica, riunendo le masse contro la privatizzazione e anticipando il futuro dei movimenti contro la globalizzazione neo liberale. L’ultimo evento di Tiananmen è stato fortificato da un profondo sostegno e dall’importante partecipazione dei lavoratori, venuti in supporto degli studenti ed è stata la prospettiva di uno sciopero di massa dei lavoratori che ha spaventato le èlite del Partito e ha portato al massacro del 4 giugno 1989.
Ma se la scala del coinvolgimento dei lavoratori ha pervaso il 1989 col suo notevole potenziale, cosa resta nelle agitazioni per il lavoro precario che scoppiano oggi in ogni momento? La classe lavoratrice cinese, ha scritto Eli Friedman, in un recente saggio per il giornale radicale Jacobin, sta combattendo in quello che “non si può negare sia l’epicentro mondiale dell’agitazione dei lavoratori.” Ma le riflessioni di Wang Hui su questo tipo di lotte non lasciano spazio all’ottimismo: “La Cina può avere la classe di lavoratori più numerosa del mondo, ma se parliamo di politica allora è tutta un’altra storia. Sì, ogni giorno si vedono diverse proteste, ma quale consapevolezza politica ha questa classe lavoratrice? Prevalentemente assistiamo a proteste focalizzate sull’aumento dei redditi o su garanzie certe nel campo della sicurezza sociale. Si tratta di battaglie legali incentrata sui diritti individuali invece che sulla classe lavoratrice.”
“Ma possiamo anche avere scioperi, come quello avvenuto nello stabilimento Honda qualche anno fa” ammette Wang. “Tali scioperi riprendono la lotta collettiva o contro i capi o il governo locale per il trattamento ingiusto dei lavoratori oppure, come nello sciopero Honda, per provare a stabilire una nuova unità tra di loro. Questa è la più classica forma del movimento della classe lavoratrice, nella sua organizzazione, ma ci sono pochi casi simili. ” La delocalizzazione del capitale industriale dalle coste alle zone interne, è una nuova realtà e anche questa ha influenzato le lotte sindacali. “Quando una grossa impresa come Foxconn si è spostata all’interno, specialmente dopo la crisi finanziaria del 2008, ci si è improvvisamente resi conto della realtà della carenza di manodopera. Questo ha obbligato le fabbriche a migliorare le condizioni di lavoro“, spiega Wang. “Comunque” aggiunge “siamo ancora lontani da una coscienza di classe completamente formata.”
Più di 400 milioni di lavoratori nelle imprese statali sono stati licenziati a metà degli anni ’90, per essere sostituiti da una nuova classe di lavoratori migranti dalle campagne. Intanto il sistema di registrazione delle famiglie, hukou, ha tenuto questi lavoratori in un violento stato di apartheid, formalizzando la negazione ai contadini dei diritti all’educazione e del welfare, mantenendo stipendi bassi e rifiutando di fargli mettere radici in città. Questa separazione territoriale determina che le lotte dei migranti restano spontanee, isolate e mostra allo stesso modo pochi segni di coscienza di classe.
L’assenza della crescita di tale coscienza, vista l’espansione numerica della classe lavoratrice, potrebbe sembrare una contraddizione. Ma essa è stata opportunamente forzata dalla privatizzazione che sopprime politiche per la classe lavoratrice, assestando una ferita fatale al settore dei lavoratori statali. Il morale di coloro che lavorano nel settore statale è basso, mentre i lavoratori che provengono dalle campagne hanno poche speranze di veder riconosciuto qualche diritto. Intanto la memoria indelebile di Tiananmen ha formato il modello del governo repressivo e il modo di trattare la resistenza dei lavoratori. Nel 2002, durante la protesta degli operai del giacimento petrolifero di Daqing, sono stati inviati carri armati che hanno circondato la città. “Nella Cina del ventesimo secolo, la classe lavoratrice era molto ridotta rispetto alla popolazione – solo un paio di milioni nel 1949. Adesso i lavoratori sono centinaia di milioni . Durante la Rivoluzione Culturale si sono viste varie forme di attivismo politico. Ma ora con la classe lavoratrice molto più numerosa, non c’è una classe politica paragonabile” aggiunge Wang, “è così che ho cominciato a parlare di crisi dell’impegno politico“.
Lo spettro di Mao
Il movimento cinese definito la “Nuova Sinistra” è fondamentalmente diverso dalla nuova sinistra occidentale degli anni ’60. Il primo indica un’emergente domanda di globalizzazione e privatizzazione nella sinistra cinese, diverso dalla sfida dei vecchi Stalinisti. Il nome di tale movimento veniva in realtà usato per etichettare, in modo infamante, certi intellettuali accusati di volere il ritorno della Rivoluzione Culturale.
Ma mettendo da parte tale calunnia non c’è dubbio che ci sono alcuni nella Nuova Sinistra cinese che credono che la tradizione rivoluzionaria in Cina sia tutt’altro che esaurita. “Sono cresciuto durante la Rivoluzione Culturale, ero uno studente nella scuola primaria e media. La nostra generazione quindi era abbastanza in confidenza coi lavoratori, i contadini e la tecnologia industriale. Ogni semestre andavamo nelle fabbriche e nelle campagne per lavorare coi contadini e i lavoratori. A quel tempo gli studenti avevano un’esperienza sociale più ampia” ricorda Wang. “Per la nostra generazione, questa era la nostra esperienza e credo che in ciò vi erano elementi positivi.”
Wang mette in guardia contro il pericolo di facili semplificazioni che riducano la Rivoluzione Culturale ad un movimento criminale. Tali analisi spesso sono allineate con l’avversione liberale alle lotte operaie, temendo che certi movimenti sindacali possano andare oltre le rivendicazioni per i diritti civili e arrivare a pretendere una redistribuzione del potere e della ricchezza. “La Rivoluzione Culturale è un periodo storico, una campagna o un movimento per i suoi diversi aspetti? Dobbiamo chiederci cosa intendiamo quando parliamo della Rivoluzione Culturale” afferma Wang. “Se viene considerato come un periodo monolitico, allora viene biasimato per le tragedie che sono avvenute, senza un’analisi delle responsabilità per tali tragedie, delle loro cause storiche e se ci sono anche valori più radicali, progressisti in questi eventi. Parlarne, solo in termini di bene o male non è un’analisi storica.”
“Nessuno può difendere la Rivoluzione Culturale nel suo complesso ma non si può neanche dire semplicemente che un periodo nella storia sia stato solo completamente sbagliato” continua Wang, “Parliamo della Rivoluzione Culturale cinese principalmente dal punto di vista delle élite, ma pochi ne parlano dalla prospettiva dei lavoratori, dei contadini e delle generazioni che sono venute dopo“. Un elemento controverso del pensiero di Wang è focalizzarsi sul protrarsi di una tradizione socialista che, come egli stesso afferma nel testo The end of the revolution “ha funzionato in una certa misura come controllo interno sulle riforme dello Stato” e ancora fornisce “a lavoratori, contadini e altri gruppi sociali motivi legittimi per contestare o negoziare le procedure di ‘marchetizzazione’ corrotte e ingiuste dello Stato“. Questo discorso di una tradizione socialista che ancora ‘vive’ all’interno di uno Stato a partito unico, comune a esponenti della sinistra e nazionalisti, rischia di divagare e portare sostegno al sistema repressivo del Partito. Ma diventa chiaro che il pensiero di Wang cambia corso rispetto a tale ingenuità.
“Il partito comunista deve la sua legittimazione all’eredità rivoluzionaria. Questo permette alle persone dentro e fuori al partito di usare tale eredità per negoziazioni politiche. I movimenti della classe operaia, le organizzazioni e gli scioperi ricorrono volentieri a questa tradizione e ai suoi slogan. E poiché tali slogan sono legali il governo è in difficoltà“. “Ironicamente nella nostra costituzione la Cina è uno Stato socialista guidato dalla classe operaia e se si usa questo slogan allora il governo deve fronteggiare la sfida. Se negassero tale eredità, senza alcun compromesso, allora perderebbero legittimità“.
Per i gruppi sociali oppressi, quindi, l’eredità rivoluzionaria è una risorsa storica vitale che riempie la retorica della lotta della classe operaia quando porta avanti le sue proteste contro l’ingiustizia secondo ideali immaginari che appartengono al passato. È quello che il sociologo Ching Kwan Lee intende quando afferma che “lo spettro di Mao” perseguita la lotta di classe in Cina.
Da qui la rilevanza del diverbio riguardo il saggio di Wang Hui del 2012, “The Rumour Machine”, presente nel London Review of Books, che esamina la caduta dell’ex capo del partito Bo Xilai, in una serie di terribili rivelazioni e intrighi di corruzione. La ricerca di politiche socio-economiche da parte di Bo, nella sua municipalità di Chongqing, che hanno reindirizzato le risorse statali come soluzione di investimento in programmi sociali, è stata rivestita in una retorica neo-Maoista. Il saggio di Wang ha provocato la replica sprezzante del giornalista Jonathan Fenby, che ha affermato: “la prevedibile ripresa di Wang Hui sulla caduta di Bo Xilai è un complotto neo liberale“. In effetti “ciò che Wang respinge come riforme neoliberali” insiste Fenby, “sono solamente i cambiamenti di cui la Cina ha bisogno se vuole progredire.” Wang mi dice che Fenby è colpevole di una fatale travisamento. “La mia discussione non era se Bo Xilai fosse corrotto o no. Quello che ho fatto è esaminare il fatto che l’ex premier Wen Jiabao abbia incolpato Bo Xilai e l’Esperimento di Chongqing per il loro ritorno alla Rivoluzione Culturale. Oggi la Rivoluzione Culturale in Cina è un tabù e le persone non possono studiarla. Ma sembra che si possa usare questo tabù per attaccare le persone. Se colleghi qualcuno alla Rivoluzione Culturale puoi delegittimarlo” si lamenta Wang. “È una questione talmente difficile e Wen Jiabao l’ha spiegata troppo a buon mercato. Chongqing non avrebbe dovuto essere così radicale, dal momento che era ancora un’economia di mercato, ma le sue possibili alternative politiche preoccupavano gruppi d’interesse all’interno del Partito“. Tale manipolazione della storia, avverte Wang, è profondamente malsana. “Questo crea una situazione molto pericolosa. Da un lato la Rivoluzione Culturale è ancora un tabù, ma dall’altro, proprio perchè è un tabù, lo si può usare contro chiunque non ti piace.”
Le politiche post-partito
L’incursione di Jonathan Fenby nel saggio di Wang ripropone una critica comunemente presentata contro la Nuova Sinistracinese, ossessionata dallo Stato a partito unico e i cui molti argomenti sono zeppi di un forte sapore statalista. Quando l’ho suggerito a Wang Hui, ha risposto rifiutando l’idea che la democrazia liberale e le elezioni parlamentari siano sufficienti per combattere contro il monopolio del potere in mano alla burocrazia di qualunque Stato. “Innanzitutto dobbiamo capire cosa intendiamo per partiti politici. Parlare di un partito e di sistema con più partiti, questa non è la vera crisi che affrontiamo oggi quando parliamo di Cina. Puoi, come in Russia, creare molti partiti politici, monopolizzati dai potenti e dai ricchi. In Iran, i livelli di mobilitazione nelle elezioni sono più alti che in ogni Paese europeo, ma le persone lo chiamano ancora regime religioso autoritario. Sono ritornato recentemente in India, dove c’è una grande delusione verso la politica di partito. Là trovi movimenti sociali molto forti, ma con una voce molto fioca in Parlamento. Ed è facile vedere come, se domani si annunciasse che la Cina potrebbe avere un sistema multipartitico con elezioni, il Parlamento sarebbe immediatamente rilevato dai grandi capitalisti cinesi. La povertà che è illegale in un sistema multipartitico, con la ‘democratizzazione’, sarebbe legale.”
Wang estende questa visione in ciò che vede come il declino universale del partito politico, per cui sia in Cina che nelle democrazie parlamentari occidentali, esiste un profondo stato di depoliticizzazione. Alla fine, in mezzo al consenso macroeconomico, il parlamento è un mero strumento per rafforzare la stabilità: “C’è stata una tendenza nelle ultime decadi, in cui i partiti politici sono diventati partiti statali. Qui, il Partito Comunista Cinese non è più un Partito Comunista nel senso inteso nel ventesimo secolo. È un partito di Stato. È addirittura completamente integrato nella cornice dello Stato e funziona come tale, invece che come un’organizzazione politica. E questo si è verificato nel mondo. Siamo testimoni del fatto che il sistema politico si sta distaccando dalla sua forma sociale.” Wang non rinuncia alle sue aspirazioni democratiche. “Abbiamo bisogno di pensare a un tipo diverso di politica. La democrazia è un valore molto positivo, ma lo è per tutti. In questo senso, non allineo me stesso tra i democratici liberali e nemmeno nel socialismo tradizionale. Molti posso credere che il Partito comunista riconosca ancora positivamente il socialismo e che possiamo convertire il Partito alla sua tradizione precedente. Questo è impossibile, perché ci sono diversi gruppi di interesse dentro il Partito.”
Nella visione della riforma costituzionale cinese di Wang, “quando il Partito non sarà più il loro rappresentante, avremo bisogno di organizzazioni autonome di lavoratori e contadini e di altre organizzazioni sociali, che esprimano la loro voce nella sfera pubblica delle politiche e avremo anche bisogno che tutta la politica passi non solo nel Partito, ma anche in un Congresso.” Sottoporre la burocrazia a controlli democratici e aprire spazi per il dibattito pubblico è, certamente, una pura maledizione per il Partito, che è altrimenti soddisfatto di fare compromessi economici di volta in volta, sotto la minaccia della protesta.
La visione intellettuale di Wang Hui, guidata da un profondo impegno verso i movimenti sindacali è un’importante forza che guida la nuova sinistra nascente in Cina. “L’eredità del socialismo in Cina è un tentativo fallito di trovare una logica per lo Stato socialista per superare le sue contraddizioni. È per questo che è avvenuta la Rivoluzione Culturale, nella ricerca per una flessibile divisione del lavoro” dice Wang. “Come esponenti della sinistra dobbiamo seriamente riconoscere e riflettere sul fallito tentativo di superare i lasciti ereditari della gerarchia e della burocrazia. Ma se diciamo che tutti gli esperimenti socialisti del ventesimo secolo erano ‘sbagliati’ o che il socialismo storico non è proprio socialismo, stiamo semplicemente arrendendoci,” ha proseguito Wang, “C’è una certa tendenza al politically correct nella sinistra, che implica che parlare di questa storia colleghi ai suoi stessi disastri. Questo è un modo basso di fare storia.”
Nel suo noioso film del 2006, Summer Palace, il regista cinese di “Sesta Generazione” Lou Ye scava nei ricordi, nel trauma e nel disincanto della generazione di Tiananmen. In una scena straziante, molti anni dopo la protesta, la studentessa cinese Li Ti cammina attraverso Berlino e incontra una marcia di sinistra accompagnata da uno stendardo di Mao. Il suo successivo violento suicidio cattura perfettamente il modo in cui la ricerca di questa generazione per una riconciliazione vera con i fallimenti dell’era Maoista, sia stata a lungo piena di pericoli. Da sinistra a destra, dalla Cina all’Occidente, le riflessioni sull’eredità Maoista sono zeppe di troppe mezze verità, incalzate da euforia o da demonizzazione, così da prevenire l’emergenza di una politica veramente radicale. “Mao ha una eredità enorme ed emotiva. Eccita e irrita. Le persone si appropriano di lui per scopi diversi. Lo usano i nazionalisti e questo spesso preoccupa il Partito. Dall’altra parte, è una figura inevitabile per il Partito, dal momento che non possono semplicemente annullarlo, e d’altronde, essi provano a trattarlo in modo astratto,” rimugina Wang. “Ma la sua eredità è ancora viva, sia dentro che fuori il Partito. Ed è viva in modi sempre più caotici“.