La morte di Mandela e gli apartheid del XXI secolo

[Nota: traduzione a cura di Benedetta Monti dall’articolo originale di Anna Grear su Critical Legal Thinking.]

Monumento che segnala il luogo, nelle Natal Midlands, in cui fu catturato Nelson Mandela, per il 50° anniversario di ciò che è diventata la sua 'Lunga marcia per la Libertà'. Di Marco Cianfanelli.

La morte di Nelson Mandela sembra unire le menti e i cuori delle persone in tutto il mondo in una celebrazione delle conquiste della sua vita, pare che si stia provando una tristezza pressoché universale al passaggio di una ‘grande luce’. I leader internazionali si sono messi in fila per esprimere il loro sentito omaggio, le bandiere delle nazioni sono state esposte a mezz’asta nei luoghi del potere, le parole ‘libertà’, ‘santo’, ‘compassione’ e ‘umiltà’ scorrono fluide tra le labbra delle persone rese umili dalla grandezza dello spirito di un uomo che per molti sudafricani era come un padre molto amato. E, mentre accadeva tutto ciò, folle di sudafricani comuni arrivavano in massa nella sua terra natale, cantando e piangendo – gettando fiori sul terreno. La notte in cui la sua morte è stata annunciata dalla radio BBC, si sono affermate le parole di un quindicenne che ha detto, con molta semplicità, aprendosi un varco tra le migliaia di voci, ‘Se non fosse stato per Mandela, avrei potuto uccidere i miei amici neri. Gli voglio bene.’

Chiaramente, nei giorni a venire, quando il cordoglio si sarà spento e sarà stato osservato il silenzio in segno di rispetto, emergeranno i critici a mettere in questione il contributo e l’eredità di Mandela. Gli aspetti complessi e ambigui che sono stati messi da parte nella freschezza del dolore e della celebrazione, a quel punto saranno esaminati nel profondo.

Secondo me, tuttavia, vanno affrontate altre complessità, che non hanno a che fare con Mandela in sé, ma con le contraddizioni della nostra attuale situazione a livello mondiale. L’era dell’apartheid può anche essere considerata finita, nelle leggi e nelle politiche del Sudafrica, ma il mondo sta affrontando forme di apartheid che si consolidano sempre di più con un impatto fatale – questa volta su scala globale.

Mentre ascoltavo i notiziari di tutto il mondo riferire sulla vita, la malattia, la battaglia e la morte di Mandela, e gli elogi di [quasi, NdR] tutti i principali leader, queste complessità hanno cominciato a manifestarsi dapprima con un vago senso di disagio. Innanzitutto, avevo la consapevolezza di una contraddizione: Barack Obama che lodava il sacrificio di Mandela per la libertà, mentre lui stesso è al vertice di politiche della sicurezza sempre più soffocanti in uno Stato che, probabilmente, rappresenta la nazione più divisa a livello socio-economico della Terra, per esempio. Oppure David Cameron che tesseva le lodi di Mandela, quando in passato faceva parte della schiera di quei Tory che chiedevano la sua caduta in quanto considerato un ‘terrorista’, e così via.

Tali contraddizioni, naturalmente, sono state riprese dai media online il giorno seguente. Il presunto coinvolgimento di Cameron nell’operazione a suo tempo pensata per l’abbattimento di Mandela è apparso su Facebook e su altri siti, insieme ad altri contributi critici della serie ‘non abbiamo dimenticato ciò che affermasti’. Tuttavia, il mio malessere notturno nel bel mezzo dei notiziari di tutto il mondo sulle reazioni alla morte di Mandela non riguardava solamente le discrepanze nel divario tra le belle parole e le realtà politiche presenti e passate rappresentate da coloro che le pronunciavano. Sentivo che c’era qualcosa di più.

Ero consapevole, mentre me ne stavo seduta ad ascoltare, delle immense contraddizioni tra le affermazioni orgogliose sulla fine dell’apartheid in Sudafrica e quelli che potremmo chiamare, in modo deliberatamente provocatorio, gli ‘apartheid’ che artigliano il nostro mondo. Mentre in Sudafrica l’apartheid rappresentava una segregazione legale, quelli del mondo contemporaneo hanno un carattere più subdolo, ingannevole, si mascherano dietro un discorso di ‘progresso’ in un ordine nel quale le dinamiche ‘separative’ sono presentate come divergenze da – o fallimento nel vivere secondo i valori di – una legalità impegnata a un’eguaglianza formale dal punto di vista legale e politico.

Le nuove forme di ‘apartheid’, in senso stretto non sono uguali all’apartheid vero e proprio. Non presentano una segregazione legale rigida, ma quasi il contrario. Il mito giuridico e politico liberale è costruito su una superficie armoniosa di rapporti deontologici attraverso i quali gli attori nazionali rendono operativa l’eguaglianza formale, attraverso il sacro mezzo del contratto.

Lo stesso presupposto di eguaglianza contrattuale è dominante nell’auto-consapevolezza dell’ordine legale internazionale, concepito come matrice di rapporti tra Stati sovrani uguali, separati dal punto di vista territoriale. Da un altro punto di vista, tuttavia, le realtà ‘separative’ della nostra era possono essere viste come dinamiche di segregazione anonime, ‘apartheid’ non nominati che conformano la realtà contemporanea caratterizzata da una profonda discrepanza tra la retorica democratica dell’uguaglianza legale formale e le realtà necro-politiche inique e predatorie dell’ordine mondiale neoliberale.

Ci sono momenti in cui i segnali di queste forme di ‘apartheid’ emergono per sfidarci con la loro visibilità improvvisa e trasparente: le immagini forti degli afroamericani non protetti dalle conseguenze dell’uragano Katrina mostravano, non per la prima volta, con una chiarezza aspra, l’apartheid razziale socio-economico della società americana. Allo stesso modo, le immagini della devastazione – gli edifici distrutti, gli oggetti, i corpi straziati – lasciati dopo il passaggio dell’ira del tifone Haiyan, hanno rivelato ancora una volta il modello globale dell’ingiustizia, spingendo i rappresentanti delle Filippine allo sciopero della fame durante la Conferenza sul Cambiamento Climatico di Varsavia tenutasi il mese scorso, per chiedere, tra le lacrime, una risposta dalle nazioni dominanti dal punto di vista economico e, storicamente, le nazioni più inquinanti, in termini di un’azione decisiva sugli obiettivi climatici.

L’ingiustizia climatica fornisce, probabilmente, l’evidenza paradigmatica delle diverse forme di ‘apartheid’ contemporaneo che minacciano l’ordine mondiale globalizzato neo-liberale.

L’ingiustizia climatica è modellata (si potrebbe persino dire modellata in modo prevedibile). Gli effetti peggiori del cambiamento climatico ricadono precisamente sulle persone che non hanno contribuito a questo fenomeno, coloro che hanno le minor risorse per la resilienza. In questo senso, l’ingiustizia climatica miete vittime prevedibili. Più semplicemente, possiamo identificarli come ‘i poveri’ – gli svantaggiati da un punto di vista socio-economico – ovunque si trovino, specialmente nei Sud del mondo. Lo stesso Mandela era un ardente difensore dei poveri. E Mandela non sarebbe stato sorpreso dall’idea che lo svantaggio socio-economico abbia un modello significativo con una sua storia.

Mandela aveva compreso ciò che le ideologie mercatiste contemporanee spesso negano o tralasciano: cioè che i privilegi e gli svantaggi sono un prodotto sociale e storico. Inoltre, la loro produzione avviene lungo linee asimmetriche e distintive. Donna Haraway una volta ha definito queste linee ‘distribuzioni di vita e morte’. Il sociologo David Nibert le chiama ‘grovigli di oppressione’, grovigli modellati che uniscono gli umani, gli animali e gli ecosistemi emarginati e non dominanti.

Tutti questi esseri e sistemi oppressi, afferma Nibert, sono ridotti, in modo oppressivo e spesso letale, ad essere solamente ‘risorse’ per il capitalismo globale, un fattore relativo al fatto che i modelli empirici ampiamente riconosciuti dell’ingiustizia climatica e socio-economica (che forse sono la stessa cosa) sono direttamente collegati a una caratteristica centrale dell’ordine legale internazionale, vale a dire il privilegio della forma legale aziendale.

Mentre un numero crescente di persone si rende consapevole del predominio delle corporation e dei loro impatti distruttivi sulla democrazia, sull’ambiente, sui diritti umani e su molti altri aspetti delle nostre vite condivise sul pianeta, esiste un altro collegamento, meno ovvio, tra i modelli empirici dell’oppressione e del predominio delle corporation: l’influenza dell’archetipo dell’attore legale liberale ideale.

Com’è noto, resoconti critici della soggettività legale puntano il dito sulla superiorità di un costrutto particolare dell’attore legale (‘naturale’): l’uomo di legge e di mercato autonomo, autosufficiente e razionale, l’archetipo del possessore/cittadino europeo di John Locke, fondatore dell’ordine liberale in un contratto primordiale con gli altri che sono come lui. I resoconti rivelano, come è ben noto, come questo costrutto implichi necessariamente chi sono ‘gli altri’, gli obiettivi storici della discriminazione economica, sociale e legale: le persone che non possiedono niente, le donne, i bambini, i ‘non-razionali’ (in qualunque modo siano definiti o formati), i non-bianchi, i nomadi, le persone indigene e, naturalmente, gli animali. Mentre ci sono sovrapposizioni, intersezioni e dinamiche tra queste ‘categorie’, nel loro nucleo complesso si trova il costrutto – ancora persistente come l’ombra di un archetipo nella mitologia legale e giuridica – dell’individuo razionale autonomo (bianco, maschio).

Questo costrutto dell’attore legale ideale, quello che Alan Norris chiama ‘l’individuo iper-razionale’, è complesso, ma principalmente incorporeo. E sebbene, come ha affermato Sara Ahmed, c’è un corpo nascosto in questo attore legale incorporeo, nessun essere umano, nemmeno il maschio europeo con possedimenti, potrà essere la sua creazione perfetta. Esiste sempre un divario tra l’individuo legale incorporeo e l’essere umano corporeo. L’essere corporeo, d’altra parte, è un aspetto quasi perfetto, che possiede una forma di mutabilità incorporea che gli permette di evadere la responsabilità giuridica per i danni effettuati nella ricerca del profitto, e di esercitare il tipo di potere irresponsabile che Kwame Nkrumah chiama ‘potere senza responsabilità…[che infligge] lo sfruttamento senza ammenda.’

Per riassumere: l’ingiustizia climatica ha un chiaro modello, identico ai modelli conosciuti ed accettati dello svantaggio socio-economico e giuridico collegato a quegli ‘altri’ che, come dato empirico, non si sono mai adattati e non possono adattarsi al formato dell’attore razionale della legge e del mercato. La persona corporea legale, nel frattempo, soffre per quella mancanza di adattamento tra sé stessa e l’incorporeità del valore legale. È la raffigurazione simbolica ideale dell’ordine legale capitalista, ed è anche l’impersonificazione del capitale in sé stesso. Effettivamente, è così profondo il suo vantaggio strutturale nella legge che Costas Douzinas conclude come l’essere umano – nei confronti della legge – sia ‘infinitamente più fittizio’ che la forma corporea.

La politica dell’incorporeità, insieme all”epistemologia della supremazia’ sono punti centrali che hanno anche implicazioni profonde per le condizioni operative dell”apartheid’ occulto. Peter Halewood ha affermato che ‘la teoria liberale, in conseguenza della sua etica dell’incorporeità non può produrre una qualità sostanziale’. È proprio l’incorporeità, aggiunge, che facilita e rende possibile l’uguaglianza formale o ciò che potremmo chiamare l’intercambiabilità debole e astratta degli individui nella matrice giuridica liberale. L’incorporeità contribuisce direttamente all’uguaglianza formale illusoria della legge liberale tra gli individui-attori legali e le corporation visti come elementi uguali, al di là della divisione pubblica/privata.

Ritornando alla situazione contemporanea, possiamo vedere chiaramente come questa uguaglianza putativa non sia altro che una chimera ideologica, particolarmente nel caso delle corporation trans-nazionali (TNC). Le TNC [multinazionali, NdR] stanno dominando attualmente l’intero ordine legale globale. Esercitano un potere inimmaginabile, sostenuto dalle istituzioni economiche come il Fondo Monetario Internazionale (FMI), l’Organizzazione Mondiale per il Commercio, la Banca Centrale Europea e altre levatrici istituzionali dell’ordine neo-liberale globale. Stephen Gill ha affermato che gli emendamenti generali alle vecchie Costituzioni e la formazione di nuove sotto l’influenza del FMI, della Banca Mondiale e delle altre agenzie del neo-liberalismo, equivalgono alla costruzione di una Costituzione de facto del capitale globale, operativa in molti contesti: internazionale, nazionale e regionale. Ulrich Beck, nel frattempo, ha caratterizzato la globalizzazione contemporanea come ‘uno dei maggiori cambiamenti che siano avvenuti nella storia del potere’, una serie complessa di spostamenti e battaglie in cui le TNC sono emerse ‘simili a Stati del settore privato.’

Le grandi disparità implicate da tali aggregazioni di potere nell’ordine contemporaneo emergono in molti indizi che presagiscono nuove forme di ‘apartheid’. Per nominarne alcune:

  • la classe politica erige un sistema sempre più denso di regole per proteggere gli interessi commerciali, mentre le lobby aziendali comprano a tutti gli effetti il sistema politico e i cittadini normali si trovano obbligati in forme mediate di privazioni di diritti ‘democratiche’ e giudiziarie;
  • le nazioni vulnerabili al clima sono sempre più esposte alle devastazioni delle tragedie climatiche, mentre le nazioni ricche, che storicamente inquinano, rifiutano di prendere provvedimenti (specificatamente durante la conferenza sul cambiamento climatico di Varsavia). Intanto, in fuga dalle zone più colpite dal clima e da altre emergenze che minacciano la loro vita, barche cariche di Africani e altre persone affondano cercando di raggiungere le spiagge europee, americane o australiane;
  • governo ed eserciti progettano piani per il controllo forzato delle popolazioni, inclusi i cittadini del loro stesso Paese, in previsione di guerre, crisi alimentari o altre conseguenze che derivano della crisi climatica. Il complesso Stato-azienda sta sviluppando le fondamenta per una gestione disumana della sicurezza climatica.

I collegamenti tra l’apartheid di supremazia bianca che ha combattuto Mandela e le nuove forme di ‘apartheid’, incluso (nuovamente in modo provocatorio) quelli derivati dal clima e dalla globalizzazione, sono più che puramente casuali.

La storia, come ha osservato Morton Horwitz, è il luogo in cui le ideologie escono allo scoperto. Il racconto è complesso, ma i temi centrali sono relativamente chiari: gli impegni ontologici ed epistemologici del razionalismo incorporeo europeo hanno rappresentato ordini modellati, identificabili, di gerarchia umana, sia all’interno che all’esterno delle società europee. È stata questa consapevolezza gerarchica dell’essere umano a rafforzare l’espansione delle ambizioni capitalistiche europee attraverso tutto il globo nella sua ‘missione di civilizzazione’, e l’istituzionalizzazione giuridica di queste dinamiche sta ora dando forma all’ordine legale internazionale contemporaneo.

Questi sviluppi, sin dal loro inizio, sono stati letali. Intrappolavano gli esseri umani, gli animali e gli ecosistemi che si trovavano nella traiettoria della loro potenza distruttiva. Graham Huggan e Helen Tiffin espongono questo fatto quando affermano:

le incursioni degli Europei nelle altre zone del mondo, a partire dal XXV secolo, hanno avuto come conseguenza catastrofica genocidi o espropriazioni ed emarginazione delle popolazioni indigene in tutto il mondo. Hanno anche causato cambiamenti drastici nell’ambiente temperato extra-europeo e negli ambienti tropicali.

Le ontologie ed epistemologie indigene sono state recise dal dominio razionale europeo. La vita degli esseri umani e degli animali indigeni negli spazi colonizzati e nei luoghi è stata emarginata o sradicata con risultati prevedibili:

Qualunque fosse la misura del cambiamento, le persone soggette a espropri spesso affrontavano la povertà e la fame, e i rapporti originali tra l’ambiente, gli umani e gli animali venivano compromessi, a volte oltre la possibilità di porvi rimedio… la Storia occidentale, sia nelle sue incarnazioni marxiste che in quelle capitaliste, ha operato per ‘assimilare le culture diverse e le tradizioni spirituali in un codice omogeneo’, allo stesso tempo naturalizzando sviluppi economici incostanti secondo un racconto lineare della civiltà. Il successo di tutto questo, tuttavia, è dipeso solamente dalla sua abilità a temperare la manipolazione teleologica con la promessa del progresso.

Nel nostro ordine globale, formato direttamente da quegli antenati coloniali, lo sviluppo economico irregolare nel nome del progresso è ancora naturalizzato e legittimato. Thomas Pogge riflette come:

[le nazioni ricche] continuano a imporre un ordine globale economico secondo il quale milioni di persone ogni anno muoiono per cause relative alla povertà. Lo considereremmo una grave ingiustizia se tali ordini economici fossero imposti all’interno di una società nazionale. Dobbiamo considerare le nostre imposizioni dell’ordine globale presente come una grave ingiustizia, a meno di non disporre di una logica plausibile per un doppio standard adeguato. Purtroppo non esiste una tale logica plausibile.

Se mettiamo un momento da parte l’obiezione che un tale ordine sia in effetti imposto nelle società nazionali compresa la Gran Bretagna, possiamo ugualmente accettare il punto centrale di Pogge: che l’irregolarità imposta in modo così aperto a livello globale equivale ad una grave ingiustizia. Inoltre la sua imposizione, legittimata come descritto, rappresenta una ingiustizia globale che in qualche modo ricorda l’ingiustizia strutturale esplicita dell’apartheid formale. Infatti, la gerarchia ‘civilizzata’ che sta dietro l’ideologia dell’apartheid può essere vista come una diramazione o espressione della gerarchia del colonialismo, il completamento della priorità giuridica, politica ed economica dell’uomo europeo razionale e dei suoi interessi. Tutto questo può anche essere visto nelle gerarchie sempre più manifeste dell’ordine globale attuale.

Significativamente per quest’analisi, le ambizioni imperialiste del XIX secolo erano gestite soprattutto attraverso il privilegio giuridico delle corporation come soggetti sovrani che avevano una priorità temporale e ideologica sui ‘diversi’ dagli attori legali ideali. Come scrive Upendra Baxi:

molto tempo prima dell’abolizione della schiavitù, e del riconoscimento dei diritti delle donne di partecipare e di votare alle elezioni, le corporation godevano dei diritti delle persone, reclamando regimi di proprietà che erano negati agli esseri umani….La scoperta dei diritti umani moderni è la storia del diritto alla proprietà quasi assoluto come base dei diritti umani. La stessa cosa vale per la storia del colonialismo/imperialismo che ha iniziato la sua carriera con la Compagnia delle Indie (che ha governato in India per un secolo) quando è stata inaugurata la sovranità delle corporation.

Janet McLean ha affermato similmente che il privilegio giuridico delle prime corporation transnazionali ha avuto un ruolo decisivo nell’imposizione del colonialismo europeo, fin dai primi periodi, e ha notato che:

il colonialismo da parte delle entità private è stata la forma predominante dell’espansione occidentale fin dal XVI secolo e per questo motivo, le corporation riconosciute e le associazioni filantropiche spesso sono state investite dei diritti di sovranità.

Entro queste dinamiche, la marginalizzazione rispetto alla legge ricadeva (e ricade) su coloro che avevano una soggettività legale resa parziale o inesistente (nelle varie fasi della Storia) dalla loro dissociazione dal ‘razionale’ e/o dal controllo della proprietà/territorio. I racconti della violenza legale contro tali soggetti emarginati le cui istituzioni sono ‘sulla strada del progresso’ sono ben noti, sia che appartengano al passato che al presente. Dalla chiusura indiscriminata delle coltivazioni a servizio dell’agricoltura industriale in Inghilterra, all’espropriazione delle persone indigene sotto il colonialismo europeo, al neo-colonialismo da parte delle corporation in atto nel mondo in via di sviluppo, al saccheggio industriale dell’ambiente, ai modelli di vantaggio e svantaggio distribuiti irregolarmente all’interno del mondo sviluppato. Una sensazione di emergenza in cui tutte queste ingiustizie sono state o sono mediate a livello giuridico.

Le disparità dell’apartheid giuridico che ha combattuto Mandela sono finite, tuttavia il nostro ordine globale contemporaneo è segnato da modelli di ingiustizia e disparità prevedibili e sempre più radicati che vengono facilitati dai discorsi neutrali della legge e del mercato. I modelli dell’ingiustizia climatica richiamano quelli più conosciuti e antichi della ingiustizia socio-economica. In breve, stanno puntando verso forme sempre più intense di apartheid climatici derivati dalla globalizzazione.

Sembra dunque non esserci spazio per il fervore della compiacenza o dell’auto-congratulazione dei leader degli Stati ‘democratici’ che si pongono, con le loro lodi esagerate su Mandela, dalla sua parte e allo stesso tempo negano la contraddizione che si trova nel loro ruolo in un ordine legale contemporaneo ingiusto. Il senso profondo per cui il potere delle corporation transnazionali ha ottenuto (e continua ad ottenere sotto gli occhi di uomini come Obama e Cameron) un potere radicale e eccessivo sottolinea con insistenza il bisogno di affrontare le complessità e le contraddizioni della nostra situazione contemporanea. Credo che sia stato questo soprattutto a tenermi sveglia durante quella lunga notte trascorsa ad ascoltare gli elogi dopo la scomparsa di Mandela.

Che cosa emerge da tutto questo? Quali lezioni possiamo trarne?

Come Mandela, dobbiamo affrontare le ingiustizie fondamentali del sistema legale. Diversamente da Mandela, tuttavia, che ha affrontato la costituzione legale dell’apartheid, noi siamo posti davanti a un sistema che maschera la sua produzione di disparità attraverso i meccanismi dell’uguaglianza formale (mitica), incluso il suo impegno per una forma di soggettività razionale e incorporea che privilegia un costrutto dell’essere umano identificato su tutto il resto (incluso l’ordine della vita).

Per noi, la corporation come esempio perfetto dell’attore incorporeo della legge e il meccanismo giuridico ideale per l’accumulo (com’è manifesto) di potere egemonico globale, deve diventare il punto centrale dell’analisi. Come Mandela, affrontiamo il fatto che sarebbe necessaria la sradicazione dell’ordine giuridico attuale. Ma diversamente da Mandela, per noi non c’è nessuna nazione da sanzionare per il suo sistema oppressivo continuando a fare pressione finché avverta l’urgenza di un cambiamento. No, l’oppressione che stiamo affrontando è globalizzata e parte da una forma di egemonia che richiede la nostra creatività nel prendere decisioni urgenti riguardo ai segnali climatici che il pianeta stesso ci sta mandando rispetto alle priorità necro-politiche del’ordine globale.

I nostri leader politici possono stare in fila ad elogiare l’uomo che ha catalizzato la fine dell’apartheid in Sudafrica, ma le realtà del nostro mondo dominato dalle corporation e distrutto dall’inquinamento suggeriscono che se l’eredità di Mandela deve andare oltre le parole, abbiamo tutti la responsabilità di opporci alle traiettorie degli ‘affari’ e agire in tutti i modi possibili per ridurre le nostre forme di complicità personali, legali, politiche, economiche con l’apartheid oppressivo del XXI secolo.

[Revisione del post a cura di Davide Galati].

Benedetta Monti

Traduttrice freelance dal 2008 (dall'inglese e dal tedesco) soprattutto di testi legali, ama mettere a disposizione le sue competenze anche per fini umanitari e traduzioni volontarie.

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