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Decolonizzare la mente, parte da qui un nuovo stile di vita

[ Antonella Sinopoli, coordinatrice editoriale di Voci Globali, risiede attualmente in Ghana, nella Regione del Volta, per una permanenza di alcuni mesi. Oltre che partecipare da lì alla vita della nostra redazione, contribuisce alla pagina con articoli e aggiornamenti sulla realtà del Paese in cui vive e sul continente africano.]

Colonizzazione: siamo troppo abituati a pensarla in termini di storia del passato, di storia che riguarda certi territori e certi popoli. Di spazi e luoghi. Troppo adagiati in quello che abbiamo imparato da documentari, libri, articoli di giornale per riflettere sull’altro modello di colonizzazione, quella che riguarda la mente. Una colonizzazione invadente e silenziosa di cui nella maggior parte dei casi non siamo consapevoli.

È quella che ci rende incapaci di pensare in modo differente, che schiavizza le nostre scelte e necessità, che indirizza i nostri desideri. Che ci fa desiderare, appunto, quello che tutti desiderano. È il conformismo di un unico sistema, una linea continua dal termine capitalismo al termine globalizzazione. Dove il paradosso sta nel globalizzare (rendere agevole) il movimento di merci e capitali ma nel controllare, sempre più, lo spostamento delle persone.

È il conformismo che ha generato il pensiero unico che aliena la diversità e che provoca panico nell’incontrarla. E in questo termine diversità va messo tutto: l’economia, la scuola, la famiglia, la sessualità. Tutte quelle scelte differenti che vorremmo fare – che sentiamo di dover fare – ma che ci sembrano troppo lontane dalla norma. Così poco rassicuranti rispetto a quando già previsto.

Ed è anche il conformismo di chi “usa” gli errori e il dramma della passata colonizzazione politica e dei territori per non farsi responsabile della propria vita. Come chi – nel continente africano per esempio – continua a contare unicamente sugli aiuti allo sviluppo per migliorare l’economia e il welfare del Paese o, a livello di singoli individui, chi continua a “incolpare” la colonizzazione se è povero e non riesce a trovare un lavoro o i mezzi per sopravvivere.

La colonizzazione della mente gioca brutti scherzi, ci fa pensare e agire per schemi e teorie. Ci fa rimanere immobili. O affondare in acque torbide. Come liberarsi da tutto questo? Il Buddha esortava così i suoi discepoli: diventate padroni (o maestri) della vostra mente e non lasciate che la mente diventi la vostra padrona. Che è poi la strada per la libertà, diventare eretici, nel senso etimologico del termine – haeretĭcus, αἱρετικός, “che sceglie”.

Ci vengono proprio dall’Africa i richiami più appassionati – e motivati – a liberarsi dalle catene della colonizzazione mentale. E a scegliere nuove strade. “L’arma più potente nelle mani degli oppressori è la mente degli oppressi” diceva Steve Biko.

Una frase che prescinde e supera gli eventi contingenti, diventa universale e oggi merita delle domande: chi (o cosa) sono gli oppressori? Chi sono gli oppressi? Magari potremmo rispondere che gli oppressi siamo noi e che gli oppressori sono i modelli economici e finanziari che ci governano. E quell’avidità che tutti gli esseri umani provano ma che è stata abilmente coltivata da un sistema più grande di noi così da uniformare i bisogni e anestetizzare la nostra libertà di scelta. Che è solo apparente.

Come avvertiva Jean Baudrillard: Il consumatore vive le proprie scelte come libere, e tuttavia egli stesso – vittima della coazione a distinguersi – cessa di essere persona per farsi oggetto tra gli altri. Sullo sfondo, un sistema di produzione che postula la perpetua eccedenza dei bisogni rispetto ai beni. E ciò che era valido negli anni Settanta, quando La società dei consumi fu pubblicato, non ha cessato di esserlo oggi. Anzi, ha assunto dimensioni più drammatiche.

La colonizzazione da tempo ha deposto le armi (quelle che uccidono) e da tempo parla linguaggi subdoli e ammiccanti. Da molto tempo. E non è esercitata solo da una parte del mondo (occidentale) verso l’altra parte del mondo.

Per l’imperialismo è più importante dominarci culturalmente che militarmente. La dominazione culturale è più flessibile, la più efficare, la meno costosa. Il nostro compito consiste nel decolonizzare la nostra mente. In caso contrario, anche economicamente, saremo destinati a rimanere nella dipendenza e nella subalternità.

Citiamo Thomas Sankara e liberiamo anche lui dall’elemento storico dei suoi discorsi perché sicuramente le sue parole trasmettono un messaggio universale.

La dominazione culturale non è solo la lingua costretti a parlare dimenticando le proprie o i libri che leggiamo o la storia che impariamo. E decolonizzare non può voler dire solo usare la lingua madre o riscrivere i libri di storia. Vuol dire essere no-global (che fine hanno fatto i movimenti?) non tanto nelle piazze ma dentro la propria vita. Dentro le proprie scelte quotidiane. È questa, alla fin fine, la vera rivoluzione.

Perché – ci fa paura ammetterlo o ci rende indifferenti – il pianeta è sull’orlo del collasso. Lo dicono da tempo ricercatori e scienziati “resistenti”, consapevoli quanto inascoltati. Che oggi la dicono proprio senza mezzi termini, anche se alla fine ci mettono un punto interrogativo: “La Terra è fottuta?“.

C’è chi consiglia di cominciare dalla scuola, dall’educazione per mettersi  sulla strada giusta. Per passare dal pensiero unico

la trasposizione in termini ideologici, che si pretendono universali, degli interessi di un insieme di forze economiche, e specificamente di quelle del capitale internazionale – Ignacio Ramonet

al pensiero divergente per cambiare totalmente il paradigma – a partire dai modelli scolastici – ed attivare così la capacità di vedere molteplici risposte ad una medesima domanda.

La propria risposta, la propria scelta.

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