Letteratura africana da Nobel, ma l’unico è ancora Soyinka
[Nota: Questo articolo è stato scritto per Voci Globali da Elena Paparelli. L’autrice, giornalista free lance, lavora attualmente a Rainet . Ha pubblicato il libro “Technovintage-Storia romantica degli strumenti di comunicazione” (Tunué), “Donne di fiori” (Morellini), “Da posta a post@ – La cartolina ai tempi di internet” (Tunué).]
Di papabili per il Nobel della letteratura dal continente africano quest’anno ce n’erano due. Almeno quelli indicati da critici e osservatori. Il somalo Nuruddin Farah e il keniota Ngugi wa Thiong’o.
Ma la “laurea” non è andata – ancora una volta – a uno scrittore dalla pelle nera. Eppure la letteratura africana continua a produrre grandi opere. E lo ha fatto anche in passato. Un solo nome, quello di Chinua Achebe, considerato il padre della letteratura africana, morto lo scorso marzo a più di ottanta anni. Senza ricevere l’ambito riconoscimento.
Il solo africano ad aver ricevuto il premio Nobel della letteratura – anno 1986 – è stato il nigeriano Wole Soyinka, che la manifestazione letteraria Dedica Festival di Pordenone ha reso protagonista dell’edizione dello scorso anno.
La notorietà di Soyinka (pubblicato in Italia da Jaca Book) ha fatto certamente da apripista ad una maggiore penetrazione della letteratura africana in Europa, che ha suscitato l’interesse di diversi editori, seppure – a volte – medi e piccoli. Portando quasi sempre con sé – con risultati interessanti – una riflessione sulla identità e le radici di un popolo, sul conflitto, sul colonialismo e sulla storie di una comunità, presentando una scrittura smarcata dalle tentazioni egocentriche e narcisiste di molta letteratura occidentale contemporanea.
“Un tempo la gente scriveva per superare l’io ed esplorare la cultura, l’anima e Dio – ha dichiarato qualche tempo fa la scrittrice afroamericana Toni Morrison, nativa dell’Ohio, vincitrice del premio Nobel per la letteratura nel 1993 – Ci sono ancora i DeLillo per fortuna (altro nome spuntato fuori fra i candidati all’ambìto premio 2013, ndr), ma sono pochi”. “Nessuno ha pazienza – riflette l’autrice di “Home” – nulla basta e alla fine non esiste più il senso del trionfo e del riscatto finale”.
In fatto di scrittura, anche Soiynka sembra pensarla allo stesso modo: alla domanda sulla qualità che deve avere uno scrittore ha risposto che è “la capacità di immergersi nei fenomeni del mondo esterno, nell’esperienza; la capacità di sottomettere il proprio ego al mondo esterno”.
Due premi Nobel – Soyinka e Morrison – accomunati da un impegno costante nell’indagare sofferenze e conflitti di popoli e comunità, esprimono anche il confronto fra culture diverse.
“Con il suo teatro – sono parole della curatrice di Dedica Annamaria Manfredelli – Soyinka ha saputo compiere un’originale sintesi tra i miti yoruba (etnia a cui appartiene) e quelli espressi dalla civiltà occidentale”. Mentre la Morrison, portando nella sua scrittura il suo punto di vista di afroamericana e di donna, ha aperto lo spazio alla riflessione sulla cultura bianca all’interno della comunita nera, toccando temi come il razzismo o il maschilismo.
Per entrambe gli autori, le motivazioni per l’attribuzione del Nobel valorizzano la complessità del loro sguardo: Soyinka “in un’ampia prospettiva culturale e con una poetica fuori dagli schemi mostra il dramma dell’esistenza“; la Morrison “in racconti caratterizzati da forza visionaria e rilevanza poetica dà vita ad un aspetto essenziale della realtà americana“.
Tutti e due non hanno paura di sperimentare soluzioni linguistiche e formali differenti: Soyinka mostrando di sapersi muovere fra tradizione e avanguardia teatrale europea; la Morrison sperimentando una forma di realismo magico di derivazione africana (“Beloved”) come mutuando dalla musica il ritmo di una narrazione (“Jazz”).
A ben vedere, la differenza forse più marcata fra i due autori riguarda proprio il rapporto con la memoria: “Quando scrivo – ha dichiarato la Morrison – voglio cimentarmi con l’ignoto, l’immaginazione, l’invenzione. Conosco già la mia vita, o almeno ciò che ricordo di esse, e non mi interessa raccontarla”. Viceversa “Aké – Gli anni dell’infanzia”, fra i più noti romanzi di Soyinka, narra i primi undici anni della vita dello scrittore passati in Nigeria, raccontando il passaggio dal villaggio alla città, fino alla cultura europea dell’Inghilterra coloniale.
Differenze, o sfumature, che nulla tolgono al grande “insegnamento” offerto dalla letteratura africana.
M’intendo poco di letteratura e mi ci interesso poco, tuttavia quando si parla di qualcuno come il “padre di….”, mi sorgono subito tanti dubbi. In questo caso il dubbio è rafforzato anche dal fatto di aver limitato il discorso a pochi autori anglofoni dimenticandone altri che hanno contribuito a far conoscere la letteratura africana.
Inoltre detesto l’attribuzione di un colore all’arte o alla letteratura. Quando si parla di Michelangelo, di Pablo Neruda, ecc. non si parla di artisti o scrittori bianchi. Appartengono all’umanità e basta!
Rimanendo nella letteratura africana, si può parlare di questo argomento senza citare (per quelli che usano l’inglese) di Alan Paton, Nadine Gordimer, ecc.? Si puo parlare di letteratura africana in generale, dimenticando quelli di lingua francese come Senghor, Hampaté Ba, Thierno Monenembo, Henri Lopes, ecc.? Non cito i numerosi scrittori di lingua araba perché mi è sembrato che in questo caso si è parlato di “letteratura africana” intendendo quelli dell’Africa subssahariana.
Riguardo alle case editrici, quello che è vero in Italia, non lo è necessariamente altrove. Se nel nostro paese sono le piccole o medie case editrici che pubblicano opere di scrittori africani, non è così in altri paesi europei.
E’ assolutamente vero che le parole vanno usate con la massima attenzione, ma delle parole non bisogna neanche aver paura. O vederci sempre dei risvolti malevoli. Anche quando sono queste: “scrittore dalla pelle nera”.
Quando si parla di letteratura africana, infatti bisogna stabilire di quale letteratura parliamo: quella dello scrittore e attivista anti-apartheid, Alan Paton? Quella della sudafricana “bianca” Nadine Gordimer (vincitrice tra l’altro di un Nobel per la letteratura) – che tu stesso citi? Oppure quella dell’Africa mediterranea e araba?
Specificare la provenienza subsahariana – usando un termine come “pelle nera” non è fare un discrimine sottilmente razzista, piuttosto indicare una provenienza che rende la scrittura e l’esperienza stessa dello scrittore ricca di numerose e assolutamente originali connotazioni. E diversissime a seconda del Paese (o spesso delle aree di un singolo Paese) di provenienza.
Il termine “padre di…” è un modo di dire forse superficiale ma anche un po’ retorico (senza dunque la connotazione letterale) tipico della lingua italiana.
Infine vorrei chiarire che l’articolo (concordato con l’autrice) non aveva l’obiettivo di fare un excursus della letteratura africana – per questo occorrerebbe un’enciclopedia – bensì sottolineare che nonostante l’espandersi della conoscenza di autori e libri di forte spessore proveniente dall’Africa subsahariana, rimane ancora difficile l’assegnazione di un Nobel a uno o a una di questi scrittori.
Del resto concordo pienamente che l’arte è patrimonio dell’umanità. Ed è anche per questo che non bisognerebbe cadere nella tentazione di aspettarsi che solo africani possano scrivere di Africa o di letteratura africana. Ognuno, con i propri limiti, ha il diritto di approfondire per sé e per gli altri.
Grazie Abdoulaye dei tuoi interventi, sempre molto puntuali e stimolanti.