Siria tra contraddizioni e indifferenza

[Nota: traduzione a cura di Emanuela Ciaramella dall’articolo originale di Genevieve Theodorakis su openDemocracy]

Alla fine di agosto, gli Stati Uniti hanno dichiarato con fermezza un possibile intervento militare in Siria, con l’annuncio del Segretario di Stato John Kerry, secondo cui sarebbe “innegabile” l’utilizzo delle armi chimiche contro i civili. “Il nostro senso di umanità è offeso, non solo per la viltà di tale crimine ma anche per il cinico tentativo di coprire dall’alto quanto sta accadendo“, ha dichiarato Kerry. Nell’annunciare il suo sostegno a un circoscritto attacco militare americano al fine di “scoraggiare” Assad, il presidente Obama sta ora cercando l’approvazione da un Congresso che pare diviso sulla questione.

Mentre il Parlamento britannico ha recentemente rifiutato la proposta del primo ministro David Cameron di intraprendere un’azione militare in Siria, l’ex primo ministro Tony Blair ha invece decisamente appoggiato questa soluzione. Scrivendo sul Times la scorsa settimana, Blair ha affermato che le potenze occidentali invece di “starsene ferme a girarsi i pollici dovrebbero mettersi al lavoro”, suggerendo ai capi di Stato di proteggere i siriani dalle brutalità dello Stato e degli “alleati di al-Qaeda”.

Anche se alcuni sembrano prendere coraggio dalle forti ed inequivocabili dichiarazioni di guerra di Kerry e Blair, non si può fare a meno di constatare quanto risultino vuote tutte queste parole di fronte al tempo trascorso dall’inizio del conflitto e al numero di morti che ha già provocato. Nel contesto di un conflitto che ha causato la morte di oltre 100.000 siriani a giugno 2013 e cambiato il destino di milioni di persone, sia all’interno della Siria che nel resto del mondo, è difficile rimanere indifferenti a dichiarazioni così forti. Un numero indefinito di persone muore ogni giorno in quel Paese, morti causate da tortura, esecuzioni sommarie, bombardamenti, malattie e fame – allora ci domandiamo: la guerra chimica può davvero accrescere l’indignazione a un livello tale da scuotere la coscienza della comunità internazionale?

I convinti sostenitori dell’intervento militare sostengono che la guerra chimica sia l’unica ragione che giustifichi una tale azione. E la motivazione che viene data è questa: tali armi non hanno semplicemente lo scopo di fermare gli attacchi nemici, ma di causare gravi sintomi fisici e psicologici nelle vittime, sia a breve che a lungo termine, colpendo in modo indiscriminato. In ogni caso esistono diverse armi convenzionali con le stesse caratteristiche e commentatori come John Glaser, John Mueller e Nick Gillespie mettono in dubbio il fatto che le armi chimiche causino necessariamente maggiori sofferenze sulle loro vittime rispetto a quelle convenzionali.

Altri sostenitori dell’intervento militare, invece, affermano la necessità di infliggere una punizione esemplare ad Assad per garantire che le armi chimiche non vengano nuovamente utilizzate. Parlando alla Camera dei Lord britannica due settimane fa, Lord Hill di Oareford ha dichiarato che è fondamentale “mandare un messaggio” alla comunità internazionale affiché si scoraggino le ambizioni di altri Paesi o soggetti che vogliano utilizzare tale tipo di armi.

Eppure, malgrado la presenza di chiare leggi internazionali che vietano l’uso di armi chimiche sin dalla fine della Prima guerra mondiale, tali linee rosse – ovvero codici di condotta standard in azioni di guerra – sono state attraversate più di una volta negli ultimi 50 anni e tali codici di condotta sono stati ignorati in modo assolutamente discrezionale allo scopo di servire gli “interessi nazionali”. Infatti, la CIA e l’amministrazione Reagan non hanno battuto ciglio quando si è verificato un uso prolungato di armi chimiche da parte dell’Iraq negli anni ’80, sia durante la guerra contro l’Iran che nel tentativo di sottomettere le popolazioni ribelli. Secondo Foreign Policy, documenti – solo recentemente declassificati – dimostrano che alti funzionari statunitensi ricevevano regolarmente informazioni sulla gravità degli attacchi eppure non cercarono di frenare o punire l’Iraq. Questo perché l’amministrazione Reagan voleva che l’Iraq vincesse quella guerra ad ogni costo. In sostanza, i nuovi documenti “equivalgono ad una ufficiale dichiarazione di complicità da parte del Governo americano in uno dei più raccapriccianti attacchi con armi chimiche mai verificatosi”.

Più recentemente, nel corso della prima e della seconda guerra del Golfo, le forze militari statunitensi, secondo quanto riferito, hanno sganciato circa 500 Mark 77, bombe incendiarie, contro l’Iraq allo scopo di punire Saddam Hussein per il suo presunto possesso di armi chimiche e di distruzione di massa. Si tratta di un tipo di bomba che equivale alla versione recente del Napalm. E ad affermare che le bombe Mark 77 abbiano una funzione “molto simile” al Napalm è stato un portavoce del Pentagono.

Inoltre, secondo il dipartimento di Stato degli Stati Uniti, nella guerra del 2003 in Iraq le forze militari statunitensi usarono anche il fosforo bianco. Quest’ultimo è considerato un’arma chimica, usata direttamente contro i soldati per “attaccare i nemici ed ucciderli senza rischio di fallire”. Il nocciolo della questione, in sintesi, è: dove e quando effettivamente viene tracciata la linea rossa della guerra chimica? Alla luce di queste incongruenze memorabili sull’uso delle armi chimiche non è del tutto sorprendente che gli autori di un eventuale uso di armi chimiche in Siria non abbiano ricevuto un promemoria su come comportarsi.

E ora che la nazione siriana è stata ridotta in macerie, i suoi tesori sono andati distrutti, la sua gente dispersa e costretta a vivere da mendicante nelle nazioni vicine, potremmo chiedere ai  nostri politici “Qual è  l’intervento adeguato?” La risposta alla crisi della Siria e alla minaccia di una guerra chimica si trovano nel potere unilaterale degli eserciti occidentali? A cosa ha portato l’intervento delle forze occidentali in passato? Inoltre, poiché l’intervento convenzionale attraverso l’invio di truppe è abbastanza impopolare, nel conflitto siriano verrebbe gestito perlopiù come un attacco militare punitivo. Se tralasciamo il bisogno di “trasmettere un segnale” ad altri potenziali protagonisti di una guerra chimica, considerando l’opposizione di inglesi e americani all’attuazione di politiche a favore di un “cambio di regime”, a cosa servirà  ai siriani un attacco militare punitivo contro il regime di Assad, se non a portare altra violenza nel Paese?

Questa logica ci porta ad una questione più urgente: l’intervento militare è la risposta appropriata? Dal luglio 2012, il numero di morti in Siria è passato da 19.000 ad oltre 100.000. Queste morti sono probabilmente il risultato di una rapida militarizzazione del conflitto, in seguito alla decisione da parte delle potenze occidentali di  armare l’opposizione. L’aggiunta di ingenti quantità di armi, attacchi militari e, a seconda degli impegni politici occidentali, ulteriori soldati, servirà ad arginare la carneficina? Inoltre, finché il regime di Assad mantiene il coltello dalla parte del manico, quali saranno le conseguenze che deriveranno dal mettere temporaneamente all’angolo l’esercito nazionale? Qualunque sia l’esito non c’è alcun dubbio che le reazioni non saranno senza spargimento di sangue.

La violenza genera violenza, ed è improbabile che questa crisi conduca ad una conclusione rapida e manovrabile. I colloqui diplomatici con il regime di Assad, l’Iran e la disincantata Russia sono probabilmente l’unica soluzione praticabile. Altri passi importanti da prendere in considerazione sono: ricordare al Congresso degli Stati Uniti l’importanza di raggiungere una decisione consensuale e promuovere la consegna rapida dei risultati degli ispettori ONU. Ma la comunità internazionale non può permettersi di stare a bordo campo per troppo tempo, decidendo  se usare la penna o la spada. Più si aspetta, più si rischia di perdere, nel frattempo, la propria umanità.

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