Soggetti ai margini: i migranti LGBT
[Nota: traduzione dall’articolo originale di Mónica Enríquez-Enríquez su openDemocracy.]
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I video Aquí entre nos (2012) e Reclamando espacios (2007) approfondiscono i temi della perdita e della separazione, emozioni da rendere pubbliche piuttosto che mantenere private, problemi generali e non individuali, da politicizzare piuttosto che imporre. Ritengo che la ‘trasformazione’ (piuttosto che la ‘riforma’) possa diventare un luogo reale, dove i migranti LGBT possano esprimere un disaccordo con le imposizioni di certe istituzioni nazionali e possano desiderare altre forme di appartenenza – forme che non siano complici della violenza, della costrizione ad emigrare e della violazione dei diritti umani fondamentali.
In “Aquí entre nos”, alcuni migranti gay sopravvissuti a violenze condividono tra loro (“entre nos”) la comune esperienza su ciò che significa essere senza documenti negli Stati Uniti e l’impatto devastante della stretta collaborazione tra forze dell’ordine e chi controlla l’immigrazione. Attraverso conversazioni intime il cortometraggio riesce mostrare momenti che fanno parte della quotidianità come la resistenza, la forza d’animo e la sopravvivenza. È attraverso queste impercettibili trasformazioni che i migranti LGBT sovvertono l’emarginazione e riescono a immaginare altre realtà.
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“Reclamando espacios” è un dialogo con un’attivista omosessuale senza documenti, la quale descrive come ci si sente a essere inesistenti per la nazione in cui si vive e reclama i propri diritti per poter manifestare il proprio dissenso politico come tutti gli altri . Il breve documentario mostra dunque la sfida alla definizione stessa di “essere illegale”, tramite la via dell’urgenza e del potere insito in ognuno di noi di avviare una trasformazione e di parlarne agli altri, reclamando il proprio spazio per diventare visibili nonostante le avversità.
Il mio lavoro sottolinea l’esistenza di gruppi che fuggono dalle persecuzioni del loro Paese, le identità in esilio, i migranti LGBT e i soggetti senza documenti, ma io non sono interessata a “dare visibilità”, a “dare voce ai meno rappresentati” o a “parlare per l’altro”. Piuttosto, la mia arte capta quei frammenti di conversazioni in cui si può percepire la complessità delle storie dei migranti e l’unicità delle emozioni come la perdita, la nostalgia, la malinconia e il senso di appartenenza che sono presenti nel vissuto collettivo di comunità che vivono ai margini.
La mia ispirazione trae spunto da riflessioni sul mio stesso percorso di vita. Dopo essermi trasferita negli Stati Uniti a 21 anni, ho chiesto asilo in base alla mia identità sessuale e ho dovuto (come fanno molti migranti LGBT) mettere per iscritto la storia della mia sessualità, il che l’ha resa nota a livello nazionale in ragione della procedura di conformità al parere di Stato sulla (omo)sessualità. Quando si fa richiesta di asilo negli Stati Uniti si devono scrivere 10 pagine di biografia, partendo dall’infanzia, passando per la fase di coming out come gay o lesbiche (piuttosto che LGBT), e descrivendo nei dettagli la propria storia di violenze e traumi, per concludere con l’arrivo negli Stati Uniti dove ci si sente finalmente al sicuro e liberi, demonizzando nel contempo il proprio Paese di origine.
La mia opera naviga tra gli interstizi del conflitto e il flusso di eventi prodotti dalla quotidianità, nei dialoghi e conversazioni tra migranti LGBT. E proprio come la vita degli esiliati LGBT, la mia arte oscilla e non intende aderire a nessuna particolare categoria. Al contrario, ha l’obiettivo di rompere i confini e le nozioni radicate generalizzate sulle comunità emarginate, come quelle che compaiono nei classici documentari oppure sui principali mezzi di comunicazione. Con questi pezzi, intendo rivendicare la marginalità quale spazio produttivo.
Scrivere del proprio coming out con termini non tradizionali e con espressioni di genere diverse da quelle eterosessuali, è un compito difficile e non permette sfumature. Continuo ad essere alle prese con le contraddizioni insite nel bisogno di essere sia “qui” che “là”, ma mi rendo conto che è solo ai margini che le mie identità possono coesistere.