Europa, quando il “populismo” diventa una minaccia

[Nota: traduzione a cura di Manuela Beccati dall’articolo originale di Philippe Marlière su openDemocracy.

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E così, ora saremmo tutti “populisti”? Molti mass media e pensatori accademici sembrano di questa opinione. In Europa ci sono numerosi movimenti politici e personaggi considerati “populisti”, tra essi Nigel Farage e il suo euroscetticismo in Gran Bretagna, Geert Wilders e l’islamofobia in Olanda, Beppe Grillo e la campagna contro la casta in Italia, Jobbik e l’antisemitismo in Ungheria, il programma anti-austerità della Linke in Germania, il fascismo dal volto umano di Marie Le Pen o la battaglia per la sesta Repubblica di Jean-Luc Mélenchon in Francia. Che cos’hanno in comune tutte queste forze politiche? In realtà, poco o niente. Alcune sono tra loro ideologicamente e politicamente agli antipodi. E allora, se questi partiti sono politicamente diversi, perché si attribuisce loro in modo indiscriminato la definizione di “populista”?

Come definire il populismo?

In generale, il concetto di “populismo” viene usato in riferimento allo sfruttamento opportunistico, a volte demagogico, del sentimento popolare che fa più eco nella massa. Ultimamente però, l’etichetta di “populista” si è usata con maggiore libertà. Nella sua accezione corrente, “populista” è:

– una critica alle forme e alle pratiche della democrazia liberale;

– un movimento che tende a recuperare i propri valori dal passato e che offre un punto di riferimento ideologico e basato sul sentimento;

– una visione “manichea” secondo cui, da un lato si celebrano le “persone comuni” e dall’altro si descrivono i politici come dei “corrotti” ed anche “fuori dalla realtà” rispetto alle richieste della popolazione. Ciò implica lo schierare il “popolo” contro l'”élite”.

– demagogia e politica “pigliatutto”.

Ma queste descrizioni non mettono completamente in luce il concetto. In primo luogo, il fatto di essere critici nei confronti di istituzioni liberaldemocratiche non rende necessariamente un politico o il suo partito un nemico delle stesse. In più, anche i partiti tradizionali traggono ispirazione e valori dal passato. Si pensi, ad esempio, ai conservatori o ai socialdemocratici. E poi, non c’è niente di sbagliato se i movimenti di ispirazione popolare danno del “corrotto” o “fuori dal mondo” ai politici. Infine, praticamente tutti i partiti dell’emiciclo politico sono alla ricerca disperata di una sintonia con la “vox populi” e si attivano come possono per raccogliere il maggior numero di consensi. Altrimenti, quale sarebbe il motivo di correre dietro ai gruppi d’interesse o di preoccuparsi tanto per i sondaggi d’opinione? Queste prime riflessioni dimostrano che il concetto di populismo è piuttosto ambiguo e perciò lo si dovrebbe usare con maggior cautela.

Fino a 15-20 anni fa, le ricerche sul populismo facevano riferimento solo all’America Latina. Negli anni Trenta e Quaranta, molti regimi si basavano su politiche autoritarie e possiamo citare come esempio l’Estado Novo di Getúlio Vargas in Brasile o Juan Perón in Argentina. In questi casi, populismo significava che i leader e le forze politiche in campo si adattavano al clima prevalente nella nazione, spostandosi come un ago della bilancia da sinistra a destra o viceversa lungo tutto l’arco ideologico e per tutta la durata della vita politica.

Una minaccia alle democrazie rappresentative

Nel corso degli ultimi quindici anni, il significato della parola è cambiato molto. Al giorno d’oggi, riguarda raramente regimi autoritari che risultano graditi alle masse ma denota piuttosto movimenti di sinistra o di destra visti come una sfida alle idee o alle politiche dominanti. I detrattori del populismo sono inoltre infastiditi dalla mobilitazione politica dei cittadini. Roy Hattersley, leader del partito laburista negli anni Ottanta, osserva che “il mantra del momento è ‘ascoltare la gente’, ma in realtà è un modo di dare alle politiche populiste delle sembianze di vera democrazia, quando invece è del tutto negata in Gran Bretagna da una élite remota che non è rappresentativa”.

Più che in altri Stati europei, in Francia il concetto di populismo è stato usato parecchio sia in politica che nel mondo accademico. La ragione è da individuare nei continui successi elettorali del Fronte Nazionale, un partito di estrema destra attivo soprattutto dagli anni Ottanta in poi. Si fa quasi dell’ironia a notare come il riferimento al populismo nei media e negli ambienti universitari francesi sia inversamente proporzionale alla presenza e alla visibilità della “popolazione” in politica (da intendersi come la forza-lavoro o come classe “popolare”). In altre parole, meno le classi “popolari” sono rappresentate dai partiti politici, al Parlamento e al governo, più coloro che brandiscono il “populismo” vengono etichettati come una minaccia alla società.

Sempre in Francia, il dibattito sul “populismo” ha avuto il suo culmine nel 2005. Dopo un dibattito nazionale molto politicizzato, il 55 per cento degli elettori francesi ha rifiutato la Costituzione europea. I partiti tradizionali e i principali canali informativi avevano invitato a votare “sì”. Hanno cercato di contrastare quell’elettorato “irrazionale” e “immaturo” che aveva seguito i politici “populisti” sia di destra che di sinistra. Poco meno di un anno dopo, è stato adottato dai capi di Stato e a porte chiuse il Trattato di Lisbona, una versione annacquata della Costituzione europea. Questa volta il governo francese non aveva consultato la sua cittadinanza. Il presidente francese Nicolas Sarkozy ammise pubblicamente di aver organizzato un nuovo referendum, ma che i francesi si sarebbero opposti nuovamente alla proposta. Parafrasando Bertolt Brecht: votando nel “modo sbagliato” la “popolazione ha perso fiducia nel suo governo”. Poiché il governo non poteva “licenziare la popolazione ed eleggerne un’altra al suo posto”, ha preferito imporre la sua decisione in modo antidemocratico.

Sfiducia nella popolazione

Ma non c’è solo la questione dell’“immaturità politica”: l’etichetta “populista” sottintende che le classi popolari siano moralmente corrotte e pericolose. La prova starebbe nel loro sostegno ai demagoghi. Etichettando come antagonisti i movimenti popolari di opposizione quali l’Ukip, il Movimento Cinque Stelle, Jobbik, il Front National o la Linke, si tende a demonizzare forze che hanno in comune solo il fatto di essere in disaccordo con le politiche dei partiti tradizionali. Tuttavia, così si raggruppano insieme movimenti che hanno diverse origini politiche e sono fra loro storicamente antagonisti. Ad esempio, Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon sono chiamati sovente “populisti” dai media e dai politologi. Eppure la loro visione del mondo e le loro politiche sono del tutto in disaccordo. Il programma politico di Le Pen è “etnocentrico” (stop all’immigrazione, posizioni anti-Islam, discriminazione nei confronti degli stranieri), mentre la politica di Mélenchon, nella sua essenza, è una critica radicale all’economia neoliberale. Definendoli “populisti”, si suggerisce ambiguamente agli elettori che il Fronte Nazionale e il Fronte della Sinistra sono due forze simmetriche. In altre parole, sono le due facce della stessa medaglia o le stesse mele marce che rovinano tutta la frutta.

A metà degli anni Ottanta, il politologo francese Pierre-André Taguieff presentò il Fronte Nazionale come forza “nazional-populista”; una definizione usata originariamente negli Stati Uniti per descrivere la Nuova Destra [1]. Taguieff era fermamente convinto che il Fronte Nazionale non fosse più “estremista di destra” o “fascista”, ma semplicemente “radicale”. Siamo di fronte a un’interpretazione controversa. Il Fronte Nazionale è stato fondato nei primi anni Settanta da un’accozzaglia di monarchici, ex-collaborazionisti nazisti, maurrasiani, ex membri dell’OAS (organizzazione terroristica francese in Algeria) e a metà degli anni Ottanta il leader venne condannato più volte per aver espresso pubblicamente le sue idee antisemite e razziste. Il tentativo di ridefinire il Fronte fu visto dai critici come un modo per renderlo più attraente rispetto alla pesante eredità fascista (Vichy e Pétain, la guerra d’Algeria) così come la natura estrema di alcune sue politiche (le leggi contro l’immigrazione e sulla cittadinanza). Senza dubbio, definire il Fronte Nazionale “populista” suona meno esagerato e minaccioso. Dà al partito un’aria di “rispettabilità”. Alcuni ritengono, in polemica, che ciò abbia contribuito a innescare un lungo processo di “assoluzione” dell’estrema destra francese.

Catalogare l’estrema destra come “populista” ha contribuito soprattutto a screditare sia la sinistra che le classi popolari stesse. A metà degli anni Novanta, Pascal Perrineau usò il termine “Gaucho-Lepénisme” per spiegare il travaso di elettori e dei loro voti dalla frazione comunista verso il Fronte Nazionale [2]. Se ciò fosse vero, tale teoria dimostrerebbe che le “due estremità politiche” convergono e sono compatibili politicamente. Inoltre, confermerebbe il razzismo e l’autoritarismo della categoria operaia, di conseguenza politicamente inaffidabile. Annie Collovald ha dimostrato invece che questa interpretazione [3] è inverosimile. Marine Le Pen avrà anche ricevuto il 31 per cento dei voti delle tute blu al primo turno del 2012 nelle elezioni presidenziali; ma la verità è che il 69 per cento di essi non l’ha votata. E andando nel dettaglio, la nozione di “Gaucho-Lepénisme” trascura due importanti fattori. Primo, l’astensione dal voto di un alto numero di elettori. E secondo, sin dagli anni ’50 c’è sempre stato un discreto numero di lavoratori della classe operaia che hanno respinto a priori le idee della sinistra. Quindi non c’è nessuna novità.

Populismo e sentimento demofobico

Oltralpe ci sono commentatori considerati “ragionevoli” che spiegano il cambio di preferenza della classe operaia, dai partiti tradizionali all’estrema destra o alla sinistra radicale, per motivi identificabili con il loro essere essenzialmente “razzisti”, “autoritari” e politicamente “immaturi”. In pochi si chiedono se in realtà questo travaso di voti non avvenga piuttosto per il contesto socio-politico, come ad esempio le politiche economiche attuate dai partiti tradizionali (austerità), la crisi economica, la disoccupazione, la perdita dei riferimenti di classe, la corruzione politica e le promesse non mantenute. Per quanto riguarda il cosiddetto “autoritarismo” delle classi popolari, i “ragionevoli” partiti politici della vecchia scuola hanno solo da rimproverare loro stessi. Il Partito Socialista e l’UMP hanno posto per molto tempo al centro dei loro programmi e della loro retorica le questioni dell’immigrazione, della legge e dell’ordine, entrambi argomentando un “giro di vite” al crimine.

Tutto ciò induce il pensiero che l’accusa di “populismo” riveli in alcuni non altro che un malcelato sentimento “demofobico”. Chi costantemente teme o si lamenta del “populismo” sembra davvero credere che gli elettori – in particolare quelli di modesta estrazione – non siano affidabili e perciò non possano prendere le giuste decisioni politiche. E se non votano nel modo in cui le élite politiche avevano anticipato, il loro parere è nullo. Il referendum del 2005 in Francia dimostra egregiamente questo punto. Oltretutto, i partiti politici, i governi e le organizzazioni internazionali hanno la tendenza a far passare i propri interessi come “interessi nazionali”, mentre gli interessi dei loro avversari sono tacciati di “corporativismo” e “settarismo”, o per dirla in una parola “populisti”.

Ambiguo e mal definito, il concetto di “populismo” offre poco valore euristico. Non riesce inoltre a cogliere i vari ambiti di provenienza e le motivazioni dei partiti anti-sistema, nonché la natura e la densità del loro conflitto con le istituzioni sociali, economiche e politiche dominanti nelle nostre società. L’uso del termine “populismo” è oggi problematico. In alcuni ambienti, la lotta contro il cosiddetto “populismo” sembra essere un comodo pretesto per respingere chi sfida le idee di quello che Alain Minc chiamò ottimisticamente tempo fa il ‘Circolo della Ragione’. Altri lo chiamano il ‘Circolo del pensiero neoliberale’.

[1] Pierre-André Taguieff, ‘La rhétorique du national-populisme (I)’, Cahiers Bernard-Lazare, no 109, June-July 1984, p. 19-38 and (II), Mots, no 9, octobre 1984, p. 113-139.

[2] Pascal Perrineau, Le symptôme Le Pen. Radiographie des électeurs du Front National , Paris, Fayard, 1997.

[3] Annie Collovald, Le populisme du FN, un dangereux contresens, Editions du Croquant, 2004.

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