21 Novembre 2024

Morire per una causa o essere causa di morte

[Nota: traduzione a cura di Manuela Beccati dall’articolo originale di Jim Gabour su openDemocracy.]

I titoli dei giornali. Difficile non essere ossessionati dalla parola “morte” in questo periodo.

Non ho mai avuto la pretesa di essere considerato un filosofo. Posso a malapena vantarmi di un pizzico del sapere che i maestri del pensiero razionale riescono a coniugare nelle ragioni teoretiche, in quella girandola che ruota sulle teste in un equilibrio molto precario. Ma so di sicuro che, lungi dall’importanza che ha una persona in questa esistenza, prima o poi se ne andrà all’altro mondo come tutte le creature anonime, a trascorrere l’eternità sotto quel suolo che tutto fa dimenticare.

Non è una prospettiva piacevole, morire. E così, molti di noi scelgono semplicemente di ignorare l’inevitabilità della fine. Piaccia o no, al punto in cui mi trovo non sono particolarmente preoccupato a riguardo. Non c’è tempo. Personalmente trovo che una soluzione pragmatica, utile e appagante, possa essere quella di proiettarsi verso il nulla con un ritmo positivo e vivace, evitando di considerare senza senso un’esistenza che tutto sommato è soddisfacente. Sciocco o no, ho vissuto in questo modo con consapevolezza per sessant’anni. E sono felice.

Purtroppo, a causa del mio stile di vita incurante, a volte sono stato molto vicino alla fine. E alcune volte ho anche visto passare accanto un enorme cartellone pubblicitario che annunciava il mio destino imminente. Non è molto importante, comunque.

Questo periodo transitorio che chiamiamo vita è prezioso per la maggior parte degli esseri umani. Ma non per tutti, ci sono migliaia di persone che rinunciano a se stesse ogni giorno, molto in anticipo rispetto al loro tempo, per una serie interminabile di motivi.
Nel web si trova perfino un sito dedicato a questo fenomeno, dal titolo Suicidology Online. Alcune di queste morti auto-inflitte dipendono da motivi personali, fisici o sono dovute all’emotività. A volte, invece, per un essere umano troppo fragile la vita diventa pesante da sopportare e pensa sia preferibile dare una fine ordinata al corso della sua esistenza. Posso comprendere e riconoscere questo insieme di ragioni.

Altri muoiono per scelta, ma volentieri, e per un motivo che implica il fatto di avere un ruolo e di essere parte integrante di una più grande e più importante (per loro) comunità. Come succede in Tibet.

Un luogo tranquillo e contemplativo, isolato dal mondo moderno da alte vette e freddo pungente. Un paesaggio aspro, tuttavia culla di molti personaggi capaci di distillare l’essenza della spiritualità della vita. Per secoli i monaci vestiti color zafferano, e le monache, si sono adoperati con gioia per trovare la pace e lasciare il mondo un posto migliore, conducendo una vita nell’anonimato.
Nei miei (ancora più) egocentrici giorni da figlio dei fiori, ero fermamente convinto che per ogni relazione falsa, insistente o emotivamente coinvolgente che ho distrutto o portato avanti, ci fosse un posto sull’Himalaya in cui un personaggio calvo e dai modi gentili realizzava un mandala con la sabbia sul pavimento di pietra di un tempio senza età. Sono le preghiere serali di quella persona che fanno scontare al karma del pianeta i miei abusi.

Ma in tempi recenti, il 7 ottobre del 1950, la Repubblica popolare cinese appena formata decise che la regione del Khampa e il governo teocratico del Dalai Lama dovevano essere incorporate, volenti o no nell’ottica del pensiero comunista e del nazionalismo.

Nei decenni successivi, la Cina ha compiuto una lenta ma costante demolizione di tutto ciò che è tibetano. Mary Beth Markey, presidente della Campagna internazionale per il Tibet negli Stati Uniti ha detto di recente: “Le politiche che da una parte negano i diritti e dall’altra scuotono le fondamenta della tradizione tibetana e i loro mezzi di sostentamento, come la denuncia forzata del Dalai Lama o l’insediamento di centinaia di migliaia di nomadi in “villaggi socialisti”, sono una sorta di rullo compressore che passa sopra alla popolazione tibetana, senza alcun diritto di replica da parte loro.

Ma i tibetani hanno trovato presto il modo di controbattere: un primo monaco si è immolato per protesta all’inizio del 2009. Fu orribile e se ne parlò a lungo, ma senza entrare nel merito della questione. Poi, improvvisamente, nel marzo del 2012 argomentazioni e metodi hanno iniziato a prendere forma. La comunità religiosa ha deciso di assumersi la responsabilità di richiamare l’attenzione sulla situazione del loro Paese, e che il suicidio con il fuoco sarebbe stato il mezzo. Da allora vi è un’auto-immolazione ogni due settimane.

Markey la definisce “la crisi delle immolazioni… una risposta disperata alla morsa cinese sulla libertà religiosa, culturale ed economica”. Dopo 60 anni la Cina non ha cambiato la sua strategia e continua a etichettare ufficialmente i tibetani come terroristi circondando con un cordone di forze armate i loro monasteri e villaggi. Hanno riscritto le leggi, rendendo il suicidio un reato capitale. Leggi: “Se uccidi te stesso, saremo noi a fare l’esecuzione”.

Il New York Times riferisce che:
“Nei giorni scorsi le autorità hanno arrestato 70 persone con l’accusa di aver aiutato a organizzare, promuovere o rendere pubbliche le auto-immolazioni. I tribunali cinesi finora hanno dimostrato poca clemenza nei confronti degli imputati, e sono state condannate a lunghe pene detentive decine di persone dell’etnia tibetana e, nel mese di gennaio, si è assistito a un caso di pena di morte sospesa. La scorsa settimana, Radio Free Asia ha raccontato che tra gli incarcerati vi era anche un artista di soli 20 anni condannato a due anni in un campo di lavori forzati dopo che la polizia, durante un controllo di routine, aveva trovato delle immagini di persone auto-immolatesi sul suo cellulare.

Anche The Daily Beast ha dato notizia della sentenze della Corte di Sichuan nei confronti di due tibetani, una di morte e l’altra alla pena detentiva di dieci anni per “istigazione all’auto-immolazione”:

“… le autorità hanno moltiplicato gli sforzi per costringere il clero buddista a denunciare il Dalai Lama, e introdurre libri di testo in lingua cinese per le materie scientifiche in alcune scuole di origine tibetane. Tutto ciò ha suscitato nella popolazione un risentimento antigovernativo. (Il governo ha pure mostrato la carota, promettendo in cambio cure mediche e un piano pensioni). Data la crescita nel numero di decessi a causa delle ustioni, sono aumentate anche le dichiarazioni diffamanti da parte del governo nei confronti del Dalai Lama, un Premio Nobel per la pace. Sabato scorso, i media nazionali hanno paragonato il Dalai Lama e i suoi adepti ai “feroci nazisti della seconda guerra mondiale”. E descrivendo il leader spirituale tibetano in esilio, un “bugiardo abile doppiogiochista”, mentre l’agenzia stampa ufficiale Xinhua News Agency ha affermato che il leader buddista ha favorito le politiche mirate ad espellere l’etnia Han cinese dalla zona tradizionalmente tibetana del paese: “Questo somiglia tanto all’Olocausto commesso da Hitler contro gli ebrei!”

Ripugnante. Il Dalai Lama come Hitler.

Mi fa venire in mente il sorriso del tizio occhialuto che verrà a parlare il prossimo fine settimana a New Orleans in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico alla Tulane University, che ha dichiarato di essere onorato per aver lavorato una vita in quell’università con i musicisti Doctor John e Allen Toussaint, insieme ad un considerevole numero di ebrei. E i cinesi non capiscono come mai i tibetani siano convinti che la verità sia manipolata da qualche parte nelle sale color scarlatto di Pechino, in compagnia delle agenzie governative che fanno a gara per smentire e nascondere i titoli a caratteri cubitali fabbricati dalla stampa mondiale.

Così i tibetani si suicidano per cercare di fermare tutto questo.

E la paranoia cinese corre. Il China Daily, organo di stampa ufficiale, ha pubblicato un articolo che accusava la radio Voice of America di mandare “messaggi in codice” rivolti al Tibet. Un altro articolo di Xinhua sostiene che l’accusa a Voa ha “basi fondate”. Nel frattempo, The Huffington Post cita il notiziario di stato online Qinghai News il quale riferisce che nella prefettura di Huangnan nella provincia di Qinghai – nella parte occidentale della Cina -, si stanno rafforzando le misure di sicurezza per impedire altre auto-immolazioni. Il governo locale userà anche risorse economiche e punizioni per reprimere tale pratica”.

Ma i tibetani hanno occhi e vedono, e sono al corrente della procedura illecita per omicidio su richiesta del Partito comunista che pretende l’avallo da parte di tutti i Lama. Sanno che la Cina sta uccidendo l’identità tibetana. Così come sono testimoni dei ricorrenti suicidi e danno strazianti descrizioni come questa pubblicata su The National:

“… dopo aver bevuto una bottiglia di benzina, i suoi funebri preparativi sono diventati l’ultimo atto di una protesta politica. “Quando era in fiamme”, mi ha confidato un amico di recente, “è esploso””.

Che sia motivato da ragioni politiche o spirituali il suicidio è diffuso su vasta scala anche in Iraq. Ma laggiù la metodologia richiede un corpo umano avvolto da esplosivi, che causano la morte istantanea dell’omicida, il quale porta con se molta altra gente, il più possibile. I numeri parlano da soli:

2003: 25 attentati kamikaze
2004: 140 attentati kamikaze
2005: 478 attentati kamikaze
2006: 297 attentati kamikaze
2007: 442 attentati kamikaze
2008: 257 attentati kamikaze
2009: 76 attentati kamikaze
2010: 44 attentati kamikaze

L’analisi fatta da Count Body Iraq e i loro co-autori pubblicata nel 2011 ha evidenziato che “almeno 12.284 civili sono stati uccisi in 1.003 attentati suicidi in Iraq tra il 2003 e il 2010”. Lo studio rivela anche che gli attentati suicidi uccidono 60 volte il numero sia di civili che di soldati. “In aggiunta, l’uso dei corpi-bomba non è efficace, visto che ciascuno di questi colpisce ‘solo’ una media di altre 12 persone”.
Anche dopo l’uscita di scena degli americani e la fine ufficiale della guerra in Iraq, gli attentatori hanno continuato la loro opera nel Paese. Un episodio accaduto nelle ultime settimane dimostra che gli assassini-suicidi hanno trovato nuove ragioni per continuare.

6 aprile 2013: Almeno 22 persone uccise durante l’attacco coordinato a nord di Bagdad durante una manifestazione per la campagna elettorale.

15 aprile 2013: Almeno 23 persone sono state uccise e decine sono rimaste ferite lunedì mattina a causa di una serie di esplosioni che hanno devastato l’Iraq, riporta Reuters.

18 aprile 2013: Un attentatore suicida si è fatto esplodere all’interno di un Internet cafè di Bagdad, in cui erano presenti in quel momento soprattutto giovani, e ha ucciso almeno 27 persone ferendone una decina in uno dei peggiori attacchi di quest’anno nella capitale irachena.

Gli autori e i loro istigatori si definiscono martiri, assegnandosi così un’aura religiosa, collegando in modo superficiale la loro morte alla causa nazionale-etnologica combattuta dai monaci tibetani. Ma perché coinvolgere decine, centinaia, migliaia di altre vite che non c’entrano nulla con la “lotta” che ha come scopo la propria morte?
Mohammed M. Hafez nel suo libro Suicide Bombers in Iraq: The Strategy and Ideology of Martyrdom, risponde così:

La stragrande maggioranza degli attacchi suicidi in Iraq hanno preso di mira le forze alleate irachene, forze di sicurezza e civili sciiti, ma non le forze della coalizione. Gli autori sembrano essere in maggioranza volontari di origine non irachena. Molti provengono dall’Arabia saudita, ma un numero consistente proviene anche dall’Europa, Siria, Kuwait, Giordania e Nord Africa. Cercano di sventare i piani americani finalizzati a dare stabilità al Paese e farlo diventare un regime democratico e quindi un alleato, in un’area dov’è radicato l’estremismo religioso, l’autoritarismo e dove c’è ostilità verso gli Stati che hanno ambizioni nucleari.”
Ecco che in Iraq uccidere se stessi è diventato uno strumento politico. Ma non solo muoiono gli attentatori, si uccide per rendere sempre più imprevedibile la loro azione. Quale?

Esiste un sottogruppo di kamikaze ancora più deliranti: quelli che vogliono portare con se il maggior numero di individui, gente che possono avere o meno un legame con i motivi propugnati dagli assassini, che nel contempo si uccidono non prima di aver glorificato la loro azione.

In un altro articolo del New York Times, Adam Lankford, l’autore del libro in uscita imminente “The Myth of Martyrdom: What Really Drives Suicide Bombers and Other Self-Destructive Killers”, teorizza tre tipi di fattori che spingono all’azione queste persone:

1. Problemi mentali che hanno indotto il desiderio di morire. Si osserva, però, che le nazioni mediorientali hanno il tasso di suicidi più basso del mondo, e i monaci tibetani hanno un rigoroso rispetto della vita, considerato il principio che vieta espressamente loro di adottare qualsiasi altra forma di vita.

2. La vittimizzazione di se stessi, che porta a considerare gli altri quale causa della propria rovina. Suppongo che possa essere applicato alla più parte dei casi, anche se si tratta di delirio o piuttosto di un pretesto.

3. L’acquisizione di fama e gloria attraverso il gesto estremo. Che ovviamente non vale per i tibetani, ma palesemente riguarda gli iracheni e ora quasi in maniera uniforme spiega gli omicidi-suicidi americani accaduti nell’ultimo decennio.

Una delle prime stragi negli Stati Uniti fu commessa da Eric Harris e Dylan Klebold il 20 aprile 1999 alla scuola Columbine. I due giovani vivevano come se fossero in un videogioco in cui l’obiettivo era venire considerati i più grandi attentatori d’America. Risultò infatti dai loro diari che loro desiderio era surclassare l’attentato di Oklahoma City. L’attacco fu definito da USA Today “un attacco suicida (che fu) pianificato come il più grande – in senso negativo – attentato terroristico.

Ma l’episodio di Columbine non è stato considerato come una sparatoria, bensì un atto terroristico su vasta scala. Come osserva Slate: “se non fossero stati calibrati così male i timer, le bombe al propano nella caffetteria avrebbero spazzato via 600 persone. Dai loro piani risulta anche che dopo l’esplosione avrebbero sparato ai superstiti in fuga. E come terzo atto, ci sarebbe stata l’esplosione delle loro auto-bomba in mezzo alla folla di soccorritori, giornalisti e curiosi accorsi sulla scena. Tutto in diretta tivù. Non era sete di “fama” la loro… avrebbero sparato solo sulla spinta di un’infamia devastatrice pari solo a quella degli Unni di Attila. Il loro progetto visionario prevedeva di creare un incubo così devastante e apocalittico che il mondo intero sarebbe rabbrividito.

Ma personaggi come Harris e Klebold sembrano motivati dal desiderio di uccidere e di essere uccisi, come nel caso dell’assassino di Newtown. Il professor Lankford ha definito entrambi gli episodi sanguinari “sparatorie scatenate”: “Anche se possiamo solo avanzare delle ipotesi, la decisione di Adam Lanza di prendere di mira una scuola elementare in Newtown, nel Connecticut, potrebbe collegarsi al tentativo calcolato di ottenere più attenzione possibile. Malgrado la convinzione errata del contrario, molti malati di mente sono perfettamente in grado di mettere in scena i loro attacchi solo per dare una valenza simbolica alle proprie gesta.

“Nel 2002, a Washington John Allen Muhammad e Lee Boyd Malvo spararono, appostati come dei cecchini, ad uno studente liceale, e si presero gioco della polizia lasciando un biglietto con su scritto “I vostri figli non sono sicuri da nessuna parte, in qualsiasi momento”. Lanza può aver concluso che l’unica cosa che attira più attenzione dell’uccisione di giovani innocenti a caso, è l’uccisione di bambini innocenti a caso.”

Muhammad e Malvo erano afroamericani e questo è in contrasto con l’ennesima teoria speculativa di The Philadelphia Inquirer secondo cui la maggior parte di questo omicidi sarebbero “un problema di origine etnica, maschio-bianco, e non di salute mentale”. Ma Ann Coulter, giornalista sempre in controtendenza e con la penna al vetriolo asserisce il contrario, magnificando il suo punto di vista:

“Le vittime della mano armata dalla violenza, sono gli “scudi umani” – un termine coniato da me in Godless: The Church of Liberalism – delle stupide idee partorite dalla sinistra. Almeno non si tratta delle tremende Jersey Girl, questa volta. L’unico filo conduttore che unisce tutti gli omicidi di massa, attualmente sfruttata dai democratici, è che sono stati commessi da persone visibilmente psicotiche che inspiegabilmente non sono state sottoposte a cure istituzionali. Ma i democratici si rifiutano di fare qualcosa per chi ha problemi di salute mentale. A quanto pare, il punto di vista delle famiglie dei parenti assassinati da individui gravemente malati non sono abbastanza importanti quando si tratta di intraprendere la strada dell’istituzionalizzazione di cure per malati di mente. Questo spiana la strada ai liberali, i quali ribadiscono che l’unica argomentazione dei repubblicani, usata per ribattere all’insulso controllo della vendita di armi, suona come: “A noi non importa che siano morti dei bambini”. Non è così. I repubblicani stanno spingendo delle politiche che ridurranno la violenza causata dalle armi; i democratici, al contrario favoriscono politiche tese a favorire la violenza a mano armata.”

The Washington Times confuta l’assunto della Coulter in un articolo intitolato “ la diagnosi sugli omicidi di massa, secondo cui l’origine è “la malattia mentale” è da respingere al mittente, non può essere confermata”. L’autore, il professor Richard E. Vatz della Towson University, sottolinea che “questo è un modo per far finta che non ci siano delle motivazioni che armano la mano che compie atrocità e una scusa accampata dai politici per far vedere che finalmente hanno scoperto un modo per fermarli”.

Grazie a questa sparata, gira voce che alla signora Coulter sarebbe stata offerta la carica di dirigente alla Xinhua News Agency, e ciò non sorprende.

E da ultimi ci sono gli emulatori pietosi, quelli che vogliono solo la loro gloria, e possibilmente la morte, ma non hanno il coraggio di compiere l’estremo gesto.

Le foto mostrate sulle prime pagine dei giornali offrono un’impietosa sfilata di individui disadattati motivati dalla vacuità, alla ricerca della vita attraverso lo spavento a morte di altre persone. Jared Lee Loughner in Arizona, James Holmes in Colorado, Tamerlan e Dzhokhar Tsarnaev a Boston, tutti candidati al suicidio, ma che hanno deciso di cambiare idea dal momento in cui hanno iniziato a riflettere sulle conseguenze delle loro azioni.

Queste sono le creature più pietose, apparentemente razionali che dimostrano competenza nella logistica e nella pianificazione, ma a cui manca l’elemento fondamentale per validare il loro piano: il suicidio.

Non rimane molto altro da dire, da me almeno. Nel 2013 sembra che noi moriamo e uccidiamo, uccidiamo e moriamo, “togliersi la vita e quella degli altri” è diventato un modo di dire comune. Al di là delle polemiche di Xinhua e di NRA oppure di sparate fuori dal coro come quella di Coulter, ci sono letteralmente degli innocenti che mettono la parola fine al loro breve periodo di vita, di felicità, semplicemente perché qualcun altro ha qualcosa da dire.

Questo è un linguaggio difettoso.

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