Sono tanti, troppi, i temi nell’agenda della 22esima Sessione del Consiglio dei Diritti Umani in programma dal 25 febbraio al 22 marzo a Ginevra. Tanti quante le violazioni dei diritti fondamentali nel mondo. E torna l’argomento della libertà di religione che, in particolare, si concentrerà sui risultati delle analisi e visite in alcuni Paesi di Heiner Bielefeldt – inviato speciale dell’organismo dell’ONU – e del suo staff. Risultati concentrati nel Rapporto che mette in luce la situazione al 2013.
Una sollecitazione in tal senso era stata anche avanzata dall’Unione internazionale etico umanistica che si dichiara “l’unica organizzazione a livello internazionale che abbracci le istanze di umanisti, atei, agnostici, razionalisti, liberi pensatori, laici, scettici, sia come singoli che come associazioni”. Un’organizzazione di accademici, scienziati, scrittori, filosofi, gente comune che copre 45 Paesi e che con i suoi studi e ricerche consente di avere un quadro sempre aggiornato sulla libertà di pensiero in ogni angolo del mondo.
Il tema della libertà di religione è uno dei più sensibili perché non riguarda soltanto l’individuo, ma il suo rapporto con la società e le società. E se, fin dal passato più remoto, sovrani illuminati hanno voluto “garantire” i propri sudditi, (vedi il Cilindro di Ciro o il XII editto di Ashoka) solo l’evoluzione del diritto e dei rapporti tra il cittadino e lo Stato ha portato alla formulazione della libertà di religione nella sfera dei diritti fondamentali. Esso viene dichiarato nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: Art. 18 – Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti.
Una dichiarazione universale, appunto, ma bisogna chiedersi: universale per chi? Se il principio della libertà individuale su questo tema ci pare inattaccabile, secondo una visione occidentale, lo è meno per altre culture e storie. Tant’è vero che a trentatre anni di distanza dalla proclamazione della Dichiarazione Universale ne fu pubblicata una che – di fatto – si opponeva a molti dei princìpi prima esposti. Si tratta della Dichiarazione Islamica dei Diritti dell’Uomo a cui seguì la Dichiarazione del Cairo sui Diritti Umani delle Nazioni islamiche. Documenti che “rileggono” la libertà di religione secondo i dettami dell’Islam che, si legge nell’articolo 10 della Dichiarazione del Cairo: “è una religione intrinsicamente connaturata all’essere umano. È proibito esercitare qualsiasi forma di violenza sull’uomo o di sfruttare la sua povertà o ignoranza al fine di convertirlo a un’altra religione o all’ateismo“.
In un quadro che oscilla tra “nazionalismo della fede” e “libertà su condizione” il compito di organismi internazionali come quello di ONG e società civile continua ad orientarsi – soprattutto negli ultimi anni – verso la difesa dei diritti del singolo, dell’individuo a cui afferiscono diritti “universali” appunto. Che non devono, cioè, essere mediati dallo Stato o dalle strutture religiose secolari.
In una ricerca del 2010 commissionata dal Pew Forum risultava che circa il 75% della popolazione mondiale viveva in Paesi dove vigono alti o altissimi limiti alla libertà di religione. E la situazione non sembrava molto migliorata nel 2012. Certo si tratta di una ricerca un po’ radicale – come fa notare Massimo Introvigne – in cui si parla di limitazione della libertà religiosa sia facendo riferimento a Paesi dove, per esempio, la blasfemia o la bestemmia possono essere punite con la pena di morte sia a quelli dove, come l’Italia è prevista una sanzione amministrativa.
Comunque sia la violazione del diritto ad una libertà che afferisce alla coscienza è ancora troppo forte e marcata in molti Paesi, come appunto mostra il Rapporto presentato in questi giorni al Consiglio dei diritti umani. Violenze fisiche, detenzioni arbitrarie, sparizioni, accuse di “apostasia” e “blasfemia” contro dissidenti o convertiti ad altre religioni, manifestazioni pubbliche di intolleranza, attacchi a luoghi di culto, monumenti o luoghi storici: sono alcune delle situazioni riscontrate.
Le discriminazioni possono avere diverse forme: dalla negazione dei permessi da parte di Governi o amministrazioni locali per costruire luoghi di culto, all’obbligo di dichiarare e registrare la propria appartenzenza religiosa per aver accesso a servizi pubblici, alla difficoltà di garantire – per esempio per una minoranza religiosa – l’educazione religiosa ai propri figli. Per poi arrivare a situazioni più gravi, quelle di quei Paesi che puniscono con la prigione o anche la morte la blasfemia e l’apostasia, vale a dire l’abbandono della religione di nascita. Su questo punto va ricordata la sollecitazione espressa recentemente agli Stati da parte dell’inviato dell’ONU “a rispettare, proteggere e promuovere il diritto alla libertà di conversione religiosa“.
Gli organismi internazionali, dicevamo, hanno lavorato in questi anni per tentare di universalizzare la libertà di religione, come uno dei diritti fondamentali dell’uomo. Ne 1981 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite firmò una Dichiarazione sull’eliminazione di ogni forma di intolleranza e di discriminazione basata sulla religione o sul credo. Eppure non va dimenticato che tali organismi non sono costituiti solo da persone ma rappresentano i singoli Stati con la loro cultura, tradizioni, leggi. E sono questi che spesso stanno dietro al voto di Dichiarazioni e Risoluzioni. Come quella, a lungo contestata, sulla “diffamazione della religione“, proposta (e approvata) in più Risoluzioni proprio da Consiglio dei Diritti Umani su richiesta di Paesi a maggioranza musulmana che si appellavano tra l’altro alla “crescente intolleranza” nei loro confronti scaturita anche a seguito degli attacchi dell’11 settembre.
“Nel contesto della lotta al terrorismo – si legge in una parte della Risoluzione del 2008 – la diffamazione della religione è diventata un fattore aggravante che contribuisce alla negazione dei diritti e delle libertà fondamentali e all’esclusione sociale ed economica di un gruppo di persone“. Ma dopo anni di battaglie si è arrivati alla conclusione che quella che era indicata come discriminazione rischia di portare a sentimenti di odio e a un restringimento – di fatto – della libertà di espressione.
La Risoluzione era stata riconfermata nel 2010, rinnovando il blocco “storico” di favorevoli e contrari, ma poi di fatto abiurata nel 2011 con una Risoluzione “che si è piuttosto preoccupata di proteggere gli individui dalla discriminazione e dalla violenza piuttosto che tutelare le religioni contro la diffamazione” e che invita a mettere in campo misure educative e di dialogo per combattere invece che punire l’intolleranza.Va sottolineato che il Rapporto presentato dall’inviato speciale, Heiner Bielefeldt, contiene anche una serie di raccomandazioni agli Stati. Una di queste è l’implementazione da parte dei singoli Paesi, del Piano Rabat, siglato nel novembre 2012 dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, che riguarda la libertà di espressione e il divieto di incitamento all’odio nazionale, razziale o religioso.
La libertà di religione si gioca però spesso anche su quelle che possono apparire sfumature, rispetto a questioni come la pena capitale per i “reati” di blasfemia e apostasia. Eppure, non lo sono, perché quelle “sfumature” attengono alla coscienza e toccano i diritti civili e i servizi dello Stato. Citiamo tra tanti – a livello europeo – solo due casi: il diritto di non essere obbligati a dichiarare la propria religione in fase di processo e a giurare sulla Bibbia (vedi il caso di un cittadino greco che ha adito la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) o quello del diritto ad attività alternative nelle ore scolastiche per i ragazzi che si astengono dall’ora di religione. Diritto che qualche volta la burocrazia, o la mancanza di volontà, ostacola.