Tra le montagne del Marocco dove si “arroccano” le tradizioni

Qualche mese fa ho avuto l’opportunità di vivere tra le montagne arse dell’Anti Atlante, in Marocco, in un villaggio di circa 3 mila abitanti a 700 metri di altitudine, situato nella provincia di Tata. Il suo nome è Smira (Foum Zguid). Villaggio in cui, nel 2009, avevo già vissuto per tre mesi, esperienza fondamentale per stabilire contatti che nel tempo si sarebbero rivelati duraturi e importanti.

La ricchezza di questa zona è caratterizzata dalla presenza di datteri ed henné, prodotti che non riescono ad andare al di là dei confini per l’assenza di una rete di commercializzazione. Un’occasione preziosa per tutta la zona è stata la prima edizione del Festival dell’hennè che si è svolta il 26/27/28 gennaio 2013 e alla cui organizzazione hanno contribuito associazioni locali e italiane ( tra cui Sopra i ponti e ManiParma). Evento che ha portato una grande visibilità, mai avuta prima, grazie all’ottima organizzazione locale e alla presenza dei canali televisivi nazionali.

Il caldo e stupefacente colore dell'hennè. Foto di Asmaa Kherrati

Ho sentito e letto negli occhi degli abitanti la voglia di un cambiamento reale, il voler essere ascoltati, il voler cancellare l’invisibilità che finora li ha caratterizzati. La popolazione di Smira in particolare, come altri villaggi in Marocco, lotta ogni giorno contro la siccità e le difficoltà dovute a un forte isolamento e alla mancanza di servizi primari. La presenza di numerose associazioni locali mostra, però, una certa volontà di cambiare. Sono tante, ad esempio, le associazioni di donne che sono impegnate in attività di tessitura dei tappeti, arte secolare tramandata di madre in figlia. Arte che però rischia di essere abbandonata a causa di diversi fattori, tra tutti l’assenza di profitto e l’alto costo delle materie prime necessarie per la realizzazione di questi lavori. È recente, in ogni caso, uno studio di fattibilità (interviste e raccolta di informazioni) per rendere i tappeti una fonte di investimento.

L’aver vissuto presso le famiglie locali mi ha per messo di conoscere meglio le persone, le relazioni familiari, le tradizioni, la lingua e tanti altri aspetti di questa società. Particolarmente interessante è la storia delle origini degli abitanti di questo villaggio.

Secoli fa un gruppo di nomadi originari dell’Arabia Saudita intraprese un lungo viaggio passando per la Giordania, l’Egitto, la Tunisia e il Marocco, tappe in cui parte del gruppo decise di fermarsi e abbandonare il nomadismo. È per questo motivo che i Beni Helal sono presenti in tutti questi paesi. Anche in Marocco il piccolo gruppo rimasto si stabilì a Beni Mellal e in villaggi limitrofi a quello di Smira. Da allora ogni legame matrimoniale si stringe tra membri di una stessa famiglia. Inizialmente, incuriosita, ero solita chiedere i legami di parentela a chiunque mi capitasse di conoscere, pian piano mi sono resa conto che sono tutti parenti, cugini, zii, ecc. a parte qualche eccezione. Di fatto Smira è una vera e propria grande famiglia.

Nel 2009 mi era capitato di assistere ad alcune performance di canti popolari caratteristici della zona. Mi avevano colpito perché era qualcosa che stava per scomparire, un tipo di musica tradizionale, divenuto patrimonio dei più anziani, uomini e donne. Si ritiene che le cosiddette musiche tradizionali rischiano di essere snaturate quando al loro interno si inseriscono nuove sonorità e nuovi strumenti. Per questo, le culture tradizionali locali sarebbero da difendere e salvaguardare dall’aggressione culturale esterna.

L’ultimo viaggio mi ha permesso di andare più a fondo alla scoperta delle origini di questi canti e mi sono resa conto che ultimamente gli anziani del villaggio si rifiutano di cantare in pubblico, così come le donne e rifiutano di trasmettere quest’arte ai più giovani che ora più che mai si rendono conto della possibilità di perdere tale ricchezza. Il canto caratteristico, “Lela”, fa parte della tipologia di musica detta “rokba” (letteralmente ginocchio), questo perché gli uomini ad un certo punto si alzano e ballano muovendo in modo sincronizzato le ginocchia. Le parole sono scandite da ritmi che seguono rime e regole prestabilite e gli uomini e le donne si alternano nel canto. Ho avuto occasione di leggere alcuni testi, vere e proprie poesie. Si racconta, anche, di problemi sociali, e di modi di fare e di vedere le cose secondo i tempi in cui sono stati scritti. Mi ha colpito una poesia scritta ai tempi del Re Hassan II, abbastanza critica nei suoi confronti e un’altra che racconta dell’ingresso della televisione nelle case degli abitanti e di come questo “strumento” abbia rivoluzionato il modo di vivere e le abitudini familiari. Le poesie – quindi – spaziano da una tipologia storica, sociale fino ad arrivare anche a forme di corteggiamento.

Gruppo di danzatori di danze tradizionali. Foto di Asmaa Kherrati

Perché gli anziani si rifiutano di cantare?

Sicuramente la quantità e la rapidità dell’informazione dei nostri tempi favoriscono enormemente processi di ibridazione culturale e forse questo spaventa un po’.

Bisogna sottolineare che i fenomeni di scambio tra culture musicali sono sempre avvenuti ed è impossibile ormai l’esistenza di una cultura che possa definirsi incontaminata. Allora questa perdita di tradizione è positiva o negativa? Credo sia proprio la percezione della rapidità dei cambiamenti culturali a provocare insicurezza, incertezza, paura di perdita dell’identità  che causa arroccamenti e talvolta comportamenti intolleranti.

Certo, i giovani del villaggio rispetto ai più anziani, quando cantano lo fanno calzando scarpe da tennis, jeans e magari con il cellulare in mano.

Al Festival dell’hennè gli anziani del villaggio si sono rifiutati di esibirsi, così l’associazione Bab al Khadir che si è occupata dell’organizzazione ha dovuto rivolgersi ad un gruppo proveniente da un villaggio limitrofo la cui tradizione musicale presenta al suo interno canti popolari con elementi simili a quelli di “Lela”.

La metafora delle “radici” è bella se la si usa davvero sino in fondo e in modo conseguente. Le radici stanno nel terreno e vi ancorano l’albero, che senza di esse non può vivere. Ma le radici hanno senso solo se esistono un tronco e delle foglie che si nutrono di sole, dell’aria e dell’ambiente in cui vivono. Le radici hanno senso solo se permettono la vita e con esse, il cambiamento.

È una frase che ho sentito da qualche parte. Mi è piaciuta e ho preso un appunto. Mi sembra caratterizzi oggi la realtà di Smira.


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