Studiare con la testa e con le mani
In Italia risiedono tre milioni e mezzo di persone provenienti da Paesi extra-UE, eppure il nostro processo di naturalizzazione è inadeguato, anche rispetto al resto del continente: vige lo ius sanguinis e la cittadinanza si acquisisce solo per matrimonio o dopo dieci anni di residenza. Anche per quanto riguarda i minori (650.000, a un tasso di 75.000 nuove registrazioni l’anno), cittadini si diventa a 18 anni, ma solo se nati sul suolo italiano, iscritti subito all’anagrafe (difficile se i genitori erano irregolari) e se il soggiorno è stato privo di interruzioni.
E’ evidente la necessità di nuovi criteri, che nelle politiche di cittadinanza più moderne consistono in una combinazione di ius soli e ius scholae, come sostiene anche il ministro alla Cooperazione internazionale e Integrazione Riccardi,
Lo ius sanguinis non consente di accogliere i figli degli immigrati. La conclusione di un ciclo scolastico è il punto di arrivo di un percorso di inclusione.
Naturalizzazione vista dunque come processo graduale, condizionato a un percorso di istruzione e frequenza scolastica.
In questo dinamico contesto si inserisce il volume collettivo “Studiare con la testa e con le mani”, edito da Imprimitur e a cura di Francesca Galloni e Roberta Ricucci. Ce lo presenta Viviana Premazzi, tra le autrici del libro, ricercatrice presso il Forum Internazionale ed Europeo di Ricerche sull’Immigrazione (FIERI), a cui abbiamo rivolto alcune domande.
Come si può leggere in una presentazione da lei curata, il libro cerca in particolare
di rispondere ad alcune domande tornate recentemente alla ribalta con l’affermarsi di una società nella quale se da un lato si (ri)scopre la necessità delle professionalità manuali e a debole contenuto tecnologico, dall’altro si osserva come a scegliere le scuole che diano queste abilità e competenze siano in maggioranza ragazzi immigrati. Come si intrecciano i temi dell’apprendimento di un mestiere e l’avanzare di una generazione di origine straniera con le trasformazioni che conoscono scuola e centri di formazione professionale? Quali le possibili prospettive interculturali?
Nel seguito le nostre domande a Viviana Premazzi.
Qual è la relazione tra lo ius soli e il diritto all’educazione delle seconde generazioni?
Il tema dello ius soli è estremamente importante. Ancora una volta assisteremo nelle prossime settimane ad elezioni a cui giovani nuovi italiani non potranno partecipare.
L’acquisizione della cittadinanza stempererebbe l’idea di precarietà insita nella condizione di straniero non immigrato tipica delle seconde generazioni. Permetterebbe di superare la loro situazione di aut aut tra cultura dei padri e cultura italiana e di scegliere invece percorsi, forme e modi di essere “tra” i due paesi e le due culture, modi di essere altri, modi di essere nuovi, modi di essere “diversamente italiani”. Sul piano pratico sarebbe un modo per garantire uguali opportunità di partenza quanto meno sul piano dei diritti, uguali opportunità di accesso al lavoro e di partecipazione.
Poiché, come scrivete a proposito dell’economia italiana, siamo dentro una società post-industriale con tutte le sue difficoltà contingenti e strutturali, il cui tessuto demografico è peraltro caratterizzato da un forte tasso di invecchiamento, diventeranno “sempre più strategici gli interventi per attrarre giovani da altre nazioni (…)”. Quali percorsi suggerite per educare all’alterità nelle scuole? Tenuto anche conto dei “tempi di cinismo” in cui viviamo, con genitori (e anche insegnanti) che possono vivere una crescente diffidenza nei confronti di stranieri potenzialmente capaci e concorrenziali?
Come anche il volume racconta sono stati moltissimi nel corso degli anni i progetti attuati in scuole e agenzie formative per “educare all’alterità” sia inseriti nel curriculum scolastico sia previsti nel tempo extra-scuola come progetti complementari alle ore di lezione svolte in classe. Uno dei problemi principali, però, di questo tipo di interventi, è il loro carattere di sperimentazioni che non permette quindi azioni di lungo periodo e di sistema. Troppo spesso, infatti, le sperimentazioni non hanno seguito a causa della mancanza di finanziamenti o della comparsa di nuove emergenze e priorità. Per questo motivo, troppo spesso, l’educazione all’alterità, all’intercultura, alla cittadinanza, sia per gli studenti sia per le loro famiglie, viene lasciata alla buona volontà del singolo docente o del singolo formatore che trova il tempo e le energie per approfondire i temi di una società multiculturale, per educare al superamento stereotipi, pregiudizi e costruzioni riduttive e sensazionalistiche presentate dai media, offrire occasioni di dialogo e incontro, sviluppare quelle attenzioni e competenze che gli permettano di svolgere al meglio il proprio lavoro con gli studenti, italiani e stranieri, con cui quotidianamente si trova a lavorare. Ciò che servirebbe e che emerge trasversalmente in tutto il volume sono interventi strutturali, di sistema, che permettano di trasformare le sperimentazioni in prassi e che non lascino soli gli insegnanti e i formatori. La reintroduzione nel curriculum scolastico dell’ora settimanale di educazione alla cittadinanza poteva essere una grande risorsa per ora, però, rimasta ancora inutilizzata.
Specularmente, pensando alle seconde generazioni che “diventano (…) la generazione ponte, capace di mediare fra genitori ancorati spesso ad un paese ‘mitizzato’ e una realtà che stenta talora a riconoscersi come multiculturale”, quali sono i filoni attorno a cui sviluppare interventi per la loro valorizzazione nel sistema educativo? Esistono dei casi concreti di successo in questo senso?
Come emerge da alcuni capitoli soprattutto per quanto riguarda la formazione professionale è importante problematizzare la scelta degli allievi con cittadinanza non italiana per la scuola professionale: “gli studenti stranieri sono davvero interessati a diventare addetti alla ristorazione, manutentori, idraulici? O intravedono in tali percorsi più possibilità di lavoro? Oppure, vi sono orientati sulla valutazione – quasi esclusiva – del rendimento e/o della competenza linguistica?”. Un giudizio libero da stereotipi e pregiudizi da parte di insegnanti e famiglie (che per forza di cose ricade poi sulla visione di sé degli studenti) sarebbe un punto di partenza fondamentale per la loro valorizzazione nel sistema educativo, così come, nonostante la crisi e i reali problemi di accesso al lavoro, la valorizzazione delle loro competenze linguistiche (il bilinguismo) e della loro conoscenza del contesto di origine e di quello di destinazione che se consapevolmente orientate potrebbero portare un valore aggiunto nei contesti e nelle aziende in cui si trovassero ad operare.
Non sono, infatti, poi così rari sia casi di ex lavoratori dipendenti che hanno avviato business transnazionali tra il loro paese di origine e l’Italia proprio grazie alle loro competenze linguistiche e alla profonda conoscenza e relazioni costruite nei due contesti, sia scelte di percorsi scolastici post diploma in vista di una possibile professione da svolgere tra i due contesti.
Per questo è fondamentale sostenere gli studenti in quegli anni delicati dell’adolescenza, della costruzione di sé e della propria identità non solo non spingendo verso un assimilazionismo indiscusso alla società italiana, ma neanche cercando (e questo troppo spesso è il limite di tanti progetti interculturali) di imporre loro la cultura da cui provengono e a cui invece, magari, stanno faticosamente cercando di dare la propria interpretazione e di viverla “a proprio modo”. Seri percorsi interculturali non pongono l’aut aut della scelta culturale ma sanno valorizzare la doppia appartenenza e fedeltà degli studenti con cittadinanza non italiana.
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