Povertà come risorsa. Un’idea stravagante, assurda, sicuramente provocatoria. Ma anche sorprendentemente realistica. Forse sorprendente neanche tanto. Basta rifletterci invertendo i fattori e adoperando lenti meno sfocate. Parliamo della povertà di milioni di persone che vivono nei Paesi del Sud del mondo, classificati “in via di sviluppo“.
Ma in che modo la povertà può rappresentare una risorsa? E per chi? Qui cominciano le provocazioni. Anzi le riflessioni. Risorsa per i Paesi ricchi finanziatori di quelli poveri che pagano miliardi di dollari all’anno per smaltire il debito contratto. Risorsa per le multinazionali che con pochi spiccioli al mese pagano la manodopera per i lavori pesanti e con molti, moltissimi spiccioli in più pagano politici compiacenti per accapparrarsi le terre ancora libere (in realtà utilizzate per i pascoli e l’agricoltura dagli abitanti del posto). Risorsa per i mercati globali che usano la materia prima dei Paesi poveri, la importano, la lavorano e poi la esportano. Stavolta come prodotto finito e inaccessibile a molti. Risorsa per i signori delle guerre che formano i loro eserciti pescando nel mare magnum della disperazione e della fame. Risorsa anche per giornalisti e fotografi inviati dalle loro testate per mostrare al mondo il dolore più profondo, la malattia senza speranza, gli occhi di un’infanzia sconfitta dalla malnutrizione e dall’apatia. Risorsa persino per le organizzazioni umanitarie, cooperanti e tutto il seguito. Stipendi, trasferte e “tutto compreso”.
Non è cinismo, né atteggiamento distruttivo. I contributi a tale riflessione sono aumentati moltissimo negli ultimi anni, a cominciare dalla critica alla politica degli aiuti e della cooperazione allo sviluppo. In un testo dal titolo usato come una freccia Dead Aid , l’autrice ed economista Dambisa Moyo si concentra sull’Africa e analizza i motivi per cui un miliardo di miliardi inviati sotto forma di aiuti negli ultimi 50 anni non abbiano abbattuto la povertà. Al contrario, i dati presentati nel testo dicono che questa è aumentata. Colpa di differenti (e sbagliati) parametri di calcolo? Di stili di vita che si vogliono avvicinare al mondo occidentale? Comunque sia una grave sconfitta per la comunità internazionale. Intanto l’Africa subsahariana, l’area più povera del pianeta, sta pagando 25.000 dollari al minuto ai creditori del Nord. Per ogni dollaro preso in prestito se ne pagano 13. Mentre milioni di persone soffrono la fame o la malnutrizione, coltivano la terra o fanno lavori pesanti solo per non morire di stenti, non vivranno mai in una casa e non si laveranno mai girando semplicemente un rubinetto.
E questo non solo in Africa. Perché ormai è noto: l’1% della popolazione più ricca del mondo possiede il 32% della ricchezza e il 25% della popolazione mondiale consuma l’85% delle ricchezze del pianeta. È un’assurdità dire che “il nostro sistema economico è finanziato dai poveri“? E quando e perché tutto questo è cominciato? Una nuova sensibilità tra studiosi, economisti, attivisti sta mettendo in campo – ormai da qualche anno – una serie di analisi e approfondimenti che mirano non solo a riconoscere e a guardare la questione nella sua totalità, ma anche a mostrare che gli effetti del presente stanno nelle cause (e negli errori) del passato. Errori che si continuano a ripetere. Basati su egoismi e presunzioni che sarà difficile debellare. Ieri il colonialismo e la schiavitù, oggi il neocolonialismo delle politiche dei Paesi industrializzati e di organismi come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, l’Organizzazione mondiale per il commercio. E il neoliberismo delle multinazionali.
Se si vuole entrare un po’ più a fondo nell’argomento e cercare di capirne il senso bisogna guardare (e con attenzione) The end of poverty? È un film documentario che in 104 minuti ripercorre la Storia. Quella parte della storia che ha reso possibile l’emergere di una parte del mondo a danno di un’altra. La colonizzazione appunto (con la Bibbia in una mano e il fucile nell’altra) fino ad arrivare all’imposizione delle regole degli organismi internazionali, del capitalismo, del neoliberismo e delle multinazionali. La Storia e le storie. Quelle di singoli individui e famiglie che dalla povertà non usciranno mai. Esempi dal Venezuela, dalla Bolivia, dal Brasile, dal Kenya, dalla Tanzania… Un documentario dove a parlare sono scienziati dell’economia, premi Nobel, attivisti. Citiamo Amartya Sen e Joseph Stiglitz, Susan Georg e Edgardo Lander Ma dove a parlare sono anche e soprattutto le persone che la povertà la vivono sul serio. Che raccontano come si vive in una miniera o tagliando canna da zucchero per ore ed ore o vendendo merce per guadagnare per tutta la vita 50 centesimi al giorno, o un dollaro. O niente.
Ma allora a che serve inviare tanti soldi in quei Paesi? A che servono i progetti delle agenzie internazionali? Su questo tema le opinioni sono quasi spaccate a metà ormai. E vanno tra i due estremi. Quello che riporta a Jeffrey Sachs, consulente delle Nazioni Unite e (potremmo dire come tale) fautore del valore e del contributo dato dagli aiuti internazionali alla lotta alla povertà e William Easterly, che conduce invece la sua battaglia intellettuale contro il regime degli aiuti ai PVS. Uno dei suoi testi più noti è stato tradotto in italiano con il titolo “I disastri dell’uomo bianco“. (Easterly è uno degli economisti intervistato in The end of poverty). Punti di vista esattamente contrapposti che aiutano comunque a farsi una propria idea e, si spera, ad approfondire l’argomento. Perché è sempre bene non dimenticare che il benessere è temporale e la situazione di noi europei assai incerta. Così incerta che si è cominciato a stringere la cinghia. Non solo in casa propria ma nell’invio degli aiuti ai PVS appunto. Che nel 2011 sono calati di quasi il 3%.
Che dalla crisi in atto nei Paesi occidentali possa scaturire un’inversione di tendenza? Che si possa cominciare a pensare a un nuovo sistema di vita? Non si può fare diversamente secondo uno degli esperti intervistati nel film-documentario, il professor Serge Latouche, che afferma: “la nostra decrescita [di noi occidentali ndr] è la condizione indispensabile per risolvere i problemi del pianeta. Il nostro benessere è temporaneo, incerto, se altri non hanno cibo, acqua e la loro stabilità è così fragile“. Dove per decrescita si intende riduzione dell’impatto ambientale, dei rifiuti, di dipendenza dal petrolio. Vuol dire ripensare all’organizzazione sociale, uscire dal totalitarismo economico per aprire a “storie multiple” dove si possano recuperare culture, valori, modelli di civilizzazione perduti.
Come ha detto Nelson Mandela “Like slavery and apartheid poverty is not natural. It is man-made and it can be overcome and eradicated by the actions of human beings“. Quindi agli esseri umani che hanno creato i danni tocca anche cercare il rimedio. Che non può essere riuscire a farcela senza aiuti alla maniera cinese, come suggerisce Dambisa Moyo. La maniera cinese, il modello di consumo, di abuso del consumo, è improponibile. Un modo stupido di vivere. E non sta aiutando, ad esempio, i Paesi dell’Africa subsahariana ormai già saturi della merce cinese da acquistare e buttare il giorno dopo. Ormai saturi di un modello che sfrutta le risorse fino all’inverosimile. Con poche regole, con scarsa trasparenza. Con nessun coinvolgimento delle comunità locali.
Il dibattito emerso dalla riflessione su certi temi ha fatto venir fuori una serie di proposte concrete per uscire dalla povertà “che non finirà mai senza cambiamenti politici e riforme economiche basate sul concetto di giustizia sociale“. Dieci le soluzioni avanzate. Una petizione che si invita a firmare. L’obiettivo: 10 milioni di firme in dieci anni.
Ce ne sono più d’uno ormai di film e documentari che criticano il concetto di aiuti sulla base dei risultati reali prodotti nel corso degli anni. Come il tedesco “Sweet poison“.
E qualcuno ha provato a creare scompiglio usando in maniera molto specifica il concetto di povertà come risorsa. Una risorsa di cui però dovrebbero avvantaggiarsi proprio i più poveri. Renzo Martens, artista olandese, sta portando avanti un progetto dal titolo “Enjoy poverty“. L’ultimo film-documentario girato nel martoriato Congo, è anche un interessante esempio di citizen journalism.
Usando un lasciapassare delle Nazioni Unite, che alla fine per evidenti ragioni gli sarà revocato, se ne è andato in giro per testimoniare lo sfruttamento, non solo quello ai danni delle popolazioni locali da parte dei grossi imperi finanziari e multinazionali senza scrupoli, ma anche quello dei mass media che “usano” la povertà come fosse pornografia. Non per risolverla. Martens vuole insegnare ai congolesi a “usare” il loro stato, la loro situazione di miseria, di bisogno. Togliendo questo monopolio agli occidentali. Ma il finale è quello della sconfitta, dell’impossibilità di venirne fuori. E ai giovani fotografi a cui aveva suggerito: siate voi a fotografare i bambini che muoiono di fame, la vostra guerra, le vostre donne stuprate e provate a venderle ai mass media mainstream o anche alle ONG, non rimarrà che continuare a fotografare matrimoni e piccoli eventi domestici vendendo le foto a 75 centesimi di dollaro mentre al fotografo della France Press gliene vengono pagati 50 di dollari perché lui “porta una storia, una notizia“.
La notizia del perpetuarsi della miseria, in tutti i termini, e della povertà.
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Articolo pieno di pensieri e verità che sposo in pieno. Lottare contro lo stato delle cose si può fare solo facendo accettare la realtà alle persone. Che si chiudono di fronte a queste notizie perché portano alla disperazione. Non servono firme. C’è bisogno di una speranza di cambiamento. E di un riesame cosciente del proprio stile di vita. Rinunciare all’universo delle cose per trovare lo spazio di incontrarsi con l’altro. Provare emozioni invece di consumare e distrarsi.
Ciao Andrea e grazie per il tuo intervento.
Credo che esista un solo modo, reale, di cambiamento: la rivoluzione umana. Solo una profonda trasformazione interiore può portare risultati nella nostra vita e in quella degli altri. La trasformazione di ogni singolo individuo. Se è possibile distruggere è possibile ricostruire; se è possibile fallire è possibile riprovarci; se è possibile creare un sistema economico assurdo è possibile stabilirne un altro.
Ma occorre anche l’esperienza diretta, la conoscenza, la partecipazione, l’informazione. Per diventare capaci di scegliere e cambiare, appunto. Non solo augurarsi di farlo. O che cominci qualcun altro. Spero di non sembrare retorica. E’ solo che a cambiare ci sto provando anch’io.
Alla prossima e spero continuerai a leggerci.
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