L’ultima in ordine di tempo è Simone Gbagbo, moglie dell’ex presidente della Costa d’Avorio. La prima donna ad essere raggiunta da un mandato d’arresto per crimini di guerra emesso dai giudici dalla Corte Penale Internazionale. Donna e africana. Che va ad unirsi alla schiera di personaggi su cui hanno indagato, stanno indagando, hanno emesso sentenze i giudici dell’Organismo di giustizia internazionale istituito per perseguire e punire i peggori crimini che riguardano la comunità internazionale. Nomi noti e meno noti (tranne alle vittime). Tutti africani. Una particolarità che comincia a manifestarsi come uno dei forti limiti della CPI. Dieci anni di vita quest’anno (la Corte ha cominciato ad operare nel 2002), 16 i casi affrontati per crimini perpetrati nei seguenti Paesi: Uganda, Repubblica Democratica del Congo, Sudan (Darfur), Repubblica Centrafricana, Kenya, Libia, Costa d’Avorio. Una sentenza emessa lo scorso luglio, quella nei confronti di Thomas Lubanga: 14 anni di reclusione per aver “coscritto e arruolato bambini sotto l’età di 15 anni e averli utilizzati per partecipare attivamente alle ostilità” durante il secondo conflitto in Congo.
L’idea di una giustizia globale, sovranazionale, affrancata dai giochi di forza delle singole potenze e dunque indipendente e imparziale è l’elemento trainante che ha portato alla nascita della CPI. Dal processo di Norimberga in poi. Un percorso lunghissimo, passato dai Tribunali speciali: quello per la Cambogia, la ex Jugoslavia, la Sierra Leone, il Rwanda. Crimini contro la pace, crimini di guerra, crimini contro l’umanità: sono queste le gravi violazioni del diritto che tali tribunali hanno affrontato e che la CPI deve affrontare, seguendo principi cardine tra i quali primeggia la responsabilità individuale di chi commette tali crimini. Ma il principio che rende operative le basi teoriche su cui si fonda il diritto internazionale passa attraverso la responsabilità dei singoli Stati. Ed è qui che si manifesta l’arroganza dei poteri e la giustizia monca della CPI. Perché questa possa agire all’interno di uno Stato e nei confronti di suoi cittadini, è necessario che vi sia un riconoscimento e la ratifica dello Statuto di Roma, trattato istitutivo della Corte. Ad oggi 139 Paesi lo hanno firmato e 121 lo hanno ratificato rendendo così effettivo l’accordo all’interno del proprio Stato e l’Africa è l’area più rappresentativa con 32 Paesi che hanno fatto proprio il trattato. Al contrario di Stati Uniti, Russia, Cina (tre su cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU) e altri quali India e Israele. Di fatto una sorta di immunità. Di fatto l’espressione della “parziale imparzialità” di tale Organismo.
Un atteggiamento che ha cominciato a sollevare perplessità e giudizi sul significato politico di una Corte incapace di guardare oltre il continente africano, che lavora in una sola direzione, e invece bloccata su una miriade di altri eventi e situazioni. Eclatante, anche se non troppo nota, la richiesta da parte degli Stati Uniti, a suo tempo, di un’immunità (la Corte può comunque avviare indagini anche in assenza della ratifica) per le proprie truppe dislocate in Iraq, immunità votata nel luglio 2002 e revocata solo nel 2004, due mesi dopo la diffusione delle immagini delle torture e abusi di esponenti dell’esercito americano su prigionieri iracheni.
La tendenza ad agire solo nei confronti di crimini commessi in Africa e “tralasciare” quelli compiuti altrove (vedi anche Palestina o quanto sta accadendo in Siria) sta portando ad una serie di analisi e alla proposta – ormai da tempo in discussione – di costituire una Corte Penale Africana. Non basterà la recente nomina di una donna africana, Fatou Bansouda, nel ruolo di procuratore generale della Corte per rasserenare chi ormai accusa la CPI di bullismo nei confronti dell’Africa. Questo il termine usato da Jean Ping, portavoce dell’Unione Africana che in questo video ribadisce: “Non siamo contro l’immunità, non siamo contro la giustizia, non siamo contro la Corte Penale Internazionale. Siamo solo contro il tipo di gestione della gustizia da parte della Corte. Solo in Africa esistono certi problemi, certi crimini? E l’Afghanistan, lo Sri Lanka, Gaza, l’Iraq? E voi americani che avete rifiutato la Corte Penale Internazionale?“.
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Sono i motivi per cui l’Unione Africana sta cominciando ad assumere un altro atteggiamento nei confronti della Corte. Lo si può comprendere seguendo la vicenda del presidente sudanese Al Bashir. Su di lui pende un mandato di arresto (primo capo di Stato mai incriminato dalla Corte) ma è improbabile che venga mai “consegnato” alla CPI e soprattutto non con l’aiuto di altri capi di Stato africani. E così come era avvenuto in occasione di un analogo provvedimento nei confronti del colonnello Gheddafi (come si legge in questa analisi).
E sono i motivi per cui diventa difficile parlare di imparzialità e sentirsi certi che, anche se occorre aspettare, un giorno certi crimini – ovunque commessi – verranno sicuramente riconosciuti e puniti.