Uganda, impressioni di viaggio

Dopo circa due mesi trascorsi tra il Kenya e l’Uganda, dove si è impegnato nella formazione di docenti informatici presso alcune scuole comboniane, Paolo Merlo è tornato ieri in Italia. Riprendiamo un suo post del 6 novembre pubblicato sul proprio blog personale, dove si può trovare l’intero reportage di viaggio, come spunto per ripercorrere la sua esperienza.

6 novembre 2012
Fine settimana con festa nazionale a creare un “ponte”… da quando sono arri­vato è già la terza! Mi sembra di correrci dietro… Il fatto è che a Gulu non han­no festeggiato il 9 ottobre il cinquantesimo anniversario dell’indipendenza e lo hanno festeggiato due settimane fa, la settimana scorsa invece c’è stata una festa musulmana: siccome i musulmani sono non più del 15% della popolazio­ne si può capire bene come funzionino le cose…
Il fatto è che qui le feste sono “autoregolamentate” dalla mancanza di contratti di lavoro, di assistenza sanitaria e quant’altro ci possiamo permettere in Euro­pa! Quando c’è una festa nazionale significa che i dipendenti statali fanno festa e gli altri lavorano, tutti, altrimenti perdono la giornata!

Approfittando del fatto che dobbiamo almeno chiudere la scuola, vado a visitare una mis­sione comboniana verso Kampala, a Kasaala, a pochi chilometri da una cittadi­na abbastanza grande, Luweero, famosa per la sua frutta: ananas, banane pic­cole, banane grandi, papaya… frutta bellissima, saporitissima e che costa vera­mente poco. Poi ci sono anche pomodori, cavoli, fagioli di vari tipi, fagiolini e così via. Un ragazzo originario del Rwanda, ma che è nato e vive in Italia mi chiede stupito come si possa dire che qui si muore di fame. Proprio quello che rispondo sempre e in­variabilmente agli amici italiani: in Africa non si muore di fame, salvo carestie particolari o esodi di massa causati dalle guerre che riusciamo ad esportare meglio della democrazia… al massimo si muore di malnutrizione, di malattie endemiche, di Aids, ma di fame è proprio difficile, almeno nella fascia tropi­co-equatoriale.

La missione è una delle più vecchie che abbia mai visto. I padri e un “fratello” sono veramente ospitali. Arrivo all’ora della prima colazione dopo essere partito con un’auto dell’ospedale che andava a Kampala alle 5 del mattino. Grazie del pas­saggio! Mi viene offerta una ricca colazione e poi subito a fare un bel giro per la missione e alcune delle sue realizzazioni: diverse chiese, nei vari villaggi, e a fianco di ogni chiesa almeno una scuola primaria; negli altri villaggi c’è magari anche una scuola secondaria o, come a Kasaala, una “scuola tecnica”, che corrisponde a una scuola professionale, dove si insegnano la falegnameria e la meccanica.
Qui mi viene chiesto di creare una “classe di informatica” e di preparare gli in­segnanti che poi dovranno formare i ragazzi della scuola professionale e magari anche ragazzi dei villaggi vicini.
Preparo subito il progetto e la comunità lo approva seduta stante. A novembre del prossimo anno, Dio volendo e gli amici aiutando, si farà il tutto: impianto di alimentazione a pannelli solari, otto notebook per gli studenti, uno per il do­cente e un proiettore… Speriamo che gli amici che leggono le mie note si ricor­dino di questi progetti e diano una mano!

Vado in giro la domenica mattina, a Gulu, intorno alla struttura in cui sto lavo­rando, e nei vari gruppi di abitazioni vedo mamme che lavano i panni, papà che giocano con i bambini, bambini che giocano tra loro… quanta bella gente rilassata, dedita all’orto e alla famiglia!
La mancanza di automobili private contribuisce a far stare tutti insieme, in casa o andando alla messa (che è sempre uno spettacolo!), o andando alle funzioni religiose protestanti, o semplicemente andando a piedi al mercato e “in città”. Qualche volta si va tutti insieme sul “boda boda”, la moto-taxi che porta anche quattro passeggeri, se ci sono i bambini! No, il casco ce l’hanno solo in pochi e solo i conducenti delle moto!

Mi dice una suora dell’ospedale Lachor, il più grande della regione, fondato dai Comboniani, che questa è la stagione delle gambe rotte e delle braccia rovinate dallo sfregamento provocato dalle cadute dalle moto: le strade scivolose per l’acqua, il fango della stagione delle piogge e le buche ne sono la causa principale. A maggio e giugno invece sono i ragazzini che impegnano gli ospedali, cadendo dai manghi su cui si arrampicano per raccogliere quei meravigliosi e succulen­tissimi frutti che ridanno le forze e la vitalità dopo una stagione secca quasi priva di frutta e verdura.

Ho finito di leggere un libro di Zygmunt Bauman (“La solitudine del cittadino globale”, UE Feltrinelli, 2010) e mi rendo conto perfettamente, soprattutto da questo angolo della terra, di quanto ci stiano costando in termini sociali, i mo­delli di vita impostici dal capitalismo finanziario, figlio diretto della globalizza­zione delle comunicazioni, ma anche dal consumismo sfrenato e dalla mancan­za totale di ogni limite dei nostri pseudo-bisogni-primari. La civiltà del ben-ave­re ha sostituito quella del ben-essere e il raggiungimento della libertà totale ci ha costretti a chiuderci in case recintate, ad essere perennemente osservati dalle telecamere a circuito chiuso, ad essere chiusi in auto chiuse dall’interno per la paura… la paura della libertà degli altri!
Sì, perché ci siamo scordati che la nostra libertà finisce dove comincia quella del nostro vicino, chiunque esso sia.

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