Siria: nuovo anti-imperialismo e realtà sul campo

[Nota: Traduzione dall’articolo originale di Vicken Cheterian, pubblicato su openDemocracy, a cura di Davide Galati. Post pubblicato in occasione del blogging daySiria, I care” in programma l’11 novembre prossimo, auspicando che la complessità del quadro siriano possa comunque imboccare una via d’uscita pacifica.]

Perché a Parigi non avvengono manifestazioni contro le violenze in Siria? Un mio amico che conosce i movimenti pacifisti francesi prova a fornire una risposta: perché la sinistra francese è profondamente divisa tra coloro che sostengono la rivolta popolare e molti altri che vedono nel regime siriano l’ultimo regime arabo anti-imperialista .
Questo disorientamento non si limita alla Francia. Lo stesso si può dire dei movimenti contro la guerra in Gran Bretagna o in Australia (dove a Sydney, mentre l’aviazione e artiglieria regolari bombardavano i quartieri poveri di Aleppo, gruppi di manifestanti chiedevano: “giù le mani dalla Siria”). Questa divisione interna ha poco a che fare con ciò che sta accadendo in Siria o nella regione mediorientale, piuttosto con che ciò che accade nella stessa sinistra in termini di crisi di visione e chiarezza teorica.
Quando la “Primavera araba” prese slancio all’inizio del 2011, fu un momento di gioia per gli intellettuali di sinistra, terzomondisti e autodichiaratisi anti-imperialisti di diversi ambiti. Un movimento popolare aveva rovesciato due dittature (in Tunisia ed Egitto) che per decenni – in nome della lotta contro l’estremismo islamico – avevano collaborato con gli Stati occidentali e represso le proprie popolazioni. Per quanto riguarda il Bahrain, fu facile condannare un intervento saudita benedetto dall’Occidente che contribuiva a reprimere un movimento popolare che reclamava parità dei diritti e libertà democratiche. Ma le cose sono diventate complicate in Libia, quando l’approccio minaccioso delle forze militari di Muammar Gheddafi a Bengasi hanno condotto a richieste urgenti di protezione della popolazione civile; il che ha aperto la strada alle forze aeree della Nato, con la Lega Araba e le Nazioni Unite a fornire le necessarie giustificazioni.
La campagna della Nato in Libia ha provocato un profondo dibattito all’interno della sinistra. Per oltre un decennio gli attivisti avevano concentrato i loro sforzi nell’opposizione al succedersi di interventi militari degli Stati Uniti in Medio Oriente. Le proteste contro la guerra in Iraq nel 2003 furono particolarmente ampie e sia vasta parte dell’opinione pubblica che la sinistra non credevano alla versione ufficiale secondo cui Saddam Hussein possedesse “armi di distruzione di massa”, oltre ai presunti legami con al-Qaida che si sosteneva rappresentassero un pericolo e (quando questi due argomenti finirono screditati) che la guerra avesse l’obiettivo di portare la democrazia in Iraq. Per gran parte del pubblico occidentale, ancor di più successivamente, le guerre in Iraq e in Afghanistan sono state innescate allo scopo di mantenere il dominio globale, e nel caso dell’Iraq per saccheggiare le ricche risorse di petrolio del mondo arabo e musulmano.
In Libia, gran parte della sinistra (se non più il complesso dell’opinione pubblica) ha mantenuto lo stesso atteggiamento: si trattava di un intervento imperialista che mirava ad assicurarsi il controllo del petrolio libico. Anche certi attivisti di sinistra (come Gilbert Achcar) che difendevano il diritto dei libici di chiedere protezione all’esterno di fronte al pericolo immediato di stragi, pur rimanendo critici nei confronti dell’azione NATO al di là di questi aspetti, sono stati duramente attaccati.

Guerra vs rivoluzione

L’evento siriano ha ulteriormente scavato le frammentazioni di una sinistra già divisa. Non c’è accordo su come descrivere gli eventi “in ultima analisi”. Forse è una rivoluzione già rubata dalle forze imperialiste e dai loro agenti locali (come suggerisce Tariq Ali), o potrebbe essere ancora una rivoluzione popolare in mano a coloro che esigono libertà politiche e vengono pesantemente repressi da un regime dittatoriale?
Gli atteggiamenti più scettici nei confronti della rivolta in Siria sono originate dal profondo sospetto verso le politiche occidentali in Medio Oriente che derivano dell’esperienza dell’ultimo decennio. Questo sospetto caratterizza il lavoro di alcuni importanti giornalisti occidentali. Rainer Hermann, il corrispondente del Frankfurter Allgemeine Zeitung, ha scritto due articoli sul massacro di 108 civili a Houla lo scorso maggio, la metà dei quali donne e bambini, che non solo mettevano in discussione la narrazione dominante ma suggerivano che gli omicidi fossero stati in effetti perpetrati dai ribelli stessi.
Hermann si è basato su interviste a uno o due “testimoni” a Damasco, e cita la controversa figura di Suor Agnès-Mariam de la Croix per sostenere la sua tesi sulla violenza dei ribelli, piuttosto che fare ricerche approfondite lui stesso; anche la dettagliata inchiesta delle Nazioni Unite, basata su decine di interviste a testimoni oculari, non è stata sufficiente a convincerlo di rivedere la sua assoluzione delle autorità siriane.
Questi reportage portano Tariq Ali ad accusare i ribelli di massacri commessi al fine di provocare l’intervento Nato. Ali ha in seguito rivisto la sua posizione, dicendo che erano emersi più dubbi su quale parte abbia causato il bagno di sangue a Houla, senza abbandonare il suo quadro generale di analisi. Robert Fisk, il noto corrispondente di The Indipendent, ha analogamente suggerito, dopo aver visitato la città di Daraya a fine agosto, che il massacro avvenuto lì (dove circa 500 persone, in gran parte civili o militanti disarmati sono stati uccisi) fosse responsabilità dei ribelli (vd Yassin Al Haj Saleh e Rime Allaf, “Syria dispatches: Robert Fisk’s independence“, 14 settembre 2012).

Ribelli vs islamisti-jihadisti

Una commissione delle Nazioni Unite ha presentato le sue conclusioni sulle violazioni dei diritti umani in Siria nel mese di settembre. Più di venti giornalisti hanno partecipato a una conferenza stampa a Ginevra per discutere la relazione. Ma la discussione non si è concentrata sulle oltre 100 pagine che documentavano abusi, violazioni, torture e uccisioni sommarie, né c’è stata una sola domanda sul massacro di Daraya. Più della metà delle domande si concentrava su qualche paragrafo del rapporto relativi alla presenza di combattenti stranieri “jihadisti” in Siria. Quanti, da dove provenivano, c’era un registro delle loro violazioni dei diritti umani? (La risposta all’ultima domanda è stata no, ma le domande sui jihadisti sono continuate comunque). Mi è tornata in mente un’osservazione di George Bernard Shaw, “un giornalista è qualcuno che non è in grado di distinguere tra un incidente in bicicletta e il crollo della civiltà”.
Potrebbe essere il momento di leggere, anche ri-leggere, Covering Islam di Edward Said. Gli intellettuali critici non credevano alla propaganda statunitense sui collegamenti tra al-Qaida e il regime iracheno prima dell’invasione del 2003. Non dovrebbero essere seguiti gli stessi criteri nel caso della Siria? Il regime ha anche giustificato la sua repressione del movimento popolare a partire dalla primavera 2011 dipingendolo come l’opera di “salafiti” e “agenti stranieri” finanziati da Qatar, Arabia Saudita, Turchia, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Un simile scetticismo rispetto alle autorità siriane e le loro dichiarazioni sarebbe benvenuto.

Nuovo anti-imperialismo

I pensatori classici della sinistra sono sempre stati consapevoli dell’interrelazione tra le lotte locali e l’equilibrio internazionale di forze. I loro successori moderni tendono a separare i due livelli. Così, le rivoluzioni arabe vengono lette senza collegarle a ciò che sta accadendo a livello globale, come se la crisi permanente del capitalismo esplosa nel 2008 (o anche fattori rilevanti a livello globale come le crisi del cibo e dell’acqua) non avesse alcun collegamento con gli eventi. Ciò porta a un risultato che consiste nel trascurare la possibilità di vedere le rivoluzioni arabe come rappresentative di un nuovo “anello debole” nel processo di fratturazione del sistema. Oggi c’è urgente bisogno di interpretazioni critiche che siano in grado di collegare i conflitti locali alla politica globale e di aiutare la comprensione delle relazioni dialettiche tra loro.
Due intellettuali di sinistra che vedono il problema in Siria in termini di “islamisti” sostenuti dagli USA o attraverso le categorie del contrasto interconfessionale regionale tra sunniti e sciiti – ma non vedono il regime di Bashar al-Assad – hanno abbandonato l’analisi della dimensione locale degli eventi per mantenere solo quella globale. Mancano di qualsiasi comprensione dei fatti siriani in termini di classe o come una rivolta contro l’ingiustizia, la repressione e la censura. Al contrario, la loro accomodante lettura geopolitica vede solo una lotta tra un tentativo guidato dagli USA di imporre l’ordine imperialista e un ultimo tentativo disperato di resistenza araba sostenuta da Russia e Cina.
Un esempio di questo atteggiamento è l’intervista condotta dal quotidiano comunista francese L’Humanité allo studioso libanese George Corm, nella quale la sua risposta a una domanda sulla Primavera araba ha un taglio socio-economico (con riferimento alla disoccupazione giovanile e alle richieste di apertura politica), ma a una sulla Siria si concentra solo sulle lotte di potere regionali e globali.
Questa lettura “anti-imperialista” degli sviluppi siriani ha dei limiti evidenti. Fa fatica a spiegare perché, dopo diciotto mesi, gli aerei della Nato non siano intervenuti, anche dopo che le difese aeree siriane hanno abbattuto un caccia-bombardiere turco F-4 il 22 giugno (che potrebbe essere considerato un pretesto perfetto per l’azione diretta); perché, se c’è un “complotto universale” per rovesciare il regime di al-Assad, questo possa essere dissuaso da un veto russo; o perché i cospiratori non forniscano missili alle forze di opposizione, come i lanciarazzi portatili terra-aria Stinger (come fece l’amministrazione statunitense nei confronti dei mujaheddin afghani negli anni ’80).
Le critiche di Gilbert Achcar al Consiglio nazionale siriano e le sue speranze per un supporto aereo della Nato sono più puntuali delle semplicistiche interpretazioni che vedono l’intervento come l’essenza del conflitto. I dettagli del conflitto in Siria sono il miglior antidoto a tali opinioni, che possono essere sostenute solo attraverso l’adozione di una retorica che astrae dalla realtà sul campo – e, pertanto, rende facile attribuire massacri come quelli di Houla o Daraya alle forze dell’opposizione senza un’inchiesta più accurata.

Classe vs anti-imperialismo

Il graduale abbandono dell’analisi degli sviluppi sociali interni come motore di importanti eventi politici come le rivoluzioni ha radici più profonde. Per gran parte del secolo scorso l’esperienza sovietica, e le prospettive marxiste di classe, dominavano il pensiero degli intellettuali di sinistra. Il crollo dell’Unione Sovietica mandò in frantumi le loro certezze minando le fondamenta analitiche della loro visione alternativa del mondo. Ma fu ancora più fatale la loro incapacità di impegnarsi sulle conseguenze del crollo sovietico, e di porre domande pertinenti. Come spiegare il crollo di un tale Stato senza un’evidente pressione interna o esterna; che cosa rivela la sua fine sull’esperienza storica sovietica, perché la classe operaia non si è mobilitata per difendere i propri diritti sociali quando una politica di apertura lo permetteva, perché la classe operaia russa non opponeva resistenza oltre il livello della singola fabbrica contro la privatizzazione massiccia avvenuta sotto Boris Eltsin?
Il crollo dell’Unione Sovietica avrebbe dovuto altresì condurre alla messa in discussione del modello di progresso che i sovietici avevano stabilito, basato sulla conquista dello Stato da parte di una piccola avanguardia come fondamento di sviluppo socio-economico; e dei regimi “progressisti” nel “terzo mondo” compresi quelli, come in Libia e in Siria, disposti a infliggere un bagno di sangue piuttosto che abdicare.
L’eredità dell’arrugginirsi silenzioso dei vecchi strumenti di analisi (tra cui la lotta di classe, e i lavoratori come classe rivoluzionaria) consiste nel lasciare la dimensione geopolitica come unico quadro di analisi utilizzabile. Il mondo è di nuovo immaginato in termini di quasi-guerra fredda, con una mentalità che fa eco alla visione di alcuni falchi di Washington. L’invasione americana dell’Iraq e la politica degli Stati Uniti in Siria sono visti negli stessi indistinti termini. Questa visione anti-imperialista ha anche il difetto di non riuscire a trovare un degno avversario dell’imperialismo occidentale: la Russia di Vladimir Putin può essere considerata “progressista” tanto quanto la Siria o l’Iran (il macabro record del baathismo siriano comprende l’invasione del Libano nel 1976 per sostenere i falangisti di destra e reprimere i guerriglieri palestinesi e la sinistra libanese, un esempio tra tanti altri).
Il conflitto siriano sta evolvendo in un contesto internazionale, la comprensione del quale richiede di andare al di là di una dogmatica, semplicistica lettura geopolitica come quella di coloro che, à la Godot, osservano “aspettando l’invasione imperialista”, che sarebbe commedia nera se non fosse una tragedia. Nel frattempo, i massacri continuano.

http://www.youtube.com/watch?v=WfSPkThgS4s

Davide Galati

Nato professionalmente nell'ambito finanziario e dedicatosi in passato all'economia internazionale, coltiva oggi la sua apertura al mondo attraverso i media digitali. Continua a credere nell'Economia della conoscenza come via di uscita dalla crisi. Co-fondatore ed editor della testata nonché presidente dell’omonima A.P.S.

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