Lavoro minorile in Africa, le ‘curiosità’ di una bambina italiana

Qualche giorno fa mi ha contattato una bambina di 12 anni. Si chiama Francesca Marziano e frequenta la III F alla scuola media Rolandino de’ Passeggeri di Bologna. La sua insegnante aveva dato agli alunni il compito di fare una ricerca sul lavoro minorile in Africa e lei si è ricordata di avermi incontrata una o due volte e delle mie attività e rapporti con l’Africa. Pubblichiamo quest’intervista semplicemente perché dà la misura della sensibilità e dell’attenzione che  bambini e ragazzi possono avere nei confronti di tematiche così importanti. Devo ammettere che alcune delle domande che Francesca mi ha rivolto  mi hanno spiazzato, sia per il modo diretto di porle e per la loro schiettezza, sia perché mi hanno indotto a pensare alla questione, non da giornalista, ma da persona che ha l’occasione di guardare a quel fenomeno più da vicino. Cosa ne penso io davvero? Le domande di Francesca sono un esempio di sensibilità, di capacità di sintesi e di piglio giornalistico direi. Una buona promessa per un citizen journalism che non guarda alla facciata ma alla sostanza.

 

Cosa è il lavoro minorile visto con i tuoi occhi?

Non mi ero mai posta questa domanda. Mai in un modo così diretto e semplice. Quindi grazie Francesca, perché mi induci a riflettere. Mi è capitato di scrivere articoli su questo tema e in quel caso ho cercato di documentarmi e presentare dati, studi, analisi sul fenomeno. Cercando di essere chiara e di dare al lettore anche il quadro delle Convenzioni internazionali e delle normative locali nate a tutela dell’infanzia e dell’adolescenza. Mi è capitato di vedere film che parlavano dello sfruttamento di bambini in condizioni terribili, tali qualche volta da provocare la morte. E in quel caso mi sono commossa e indignata. Ma una domanda così diretta non me l’ero mai posta. Rispondo così: il lavoro minorile è qualcosa di odioso ed esecrabile quando il bambino è chiaramente una vittima degli adulti e di un sistema di sfruttamento delle risorse a vantaggio di pochi (come per esempio il lavoro nelle miniere d’oro); ma è qualcosa di “normale” in società dove i bambini crescono come grandi fin dai primi anni di vita per contribuire alle modalità di vita quotidiana della famiglia. Secondo me non è poi tanto difficile, quando osservi le cose dal di dentro, capire se un bambino è felice o infelice. Può essere felice anche se lavora perché quello è il suo ruolo nella sua società. L’importante è che abbia anche spazi per essere un bambino, cioè per studiare, giocare, divertirsi.

Che clima c’è in una famiglia africana?

Dipende dal tipo di famiglia. Anche in Africa ci sono famiglie agiate e in quel caso i bambini fanno la vita simile a quella di altri bambini del mondo. La mattina vanno  a scuola, qualche volta mangiano lì e poi quando tornano a casa fanno i compiti e guardano anche la televisione. E i genitori vanno al lavoro, spesso sia la madre che il padre. In questi casi il clima è sereno, rilassato e non si ha molta paura del domani.

Ma ci sono poi situazioni molto più difficili. Come quelle di milioni di persone che vivono nei villaggi e che non hanno né luce, né acqua, né servizi igienici, né accesso ai servizi primari come la scuola o gli ospedali. Lì il principale obiettivo è la sopravvivenza e soddisfare i bisogni basilari: mangiare, lavarsi, cercare di non ammalarsi. In quelle famiglie nell’aria si avverte stanchezza, qualche volta apatia e indolenza, monotonia e mancanza di speranza di un futuro diverso.

Come vivono i bambini africani?

Come dicevo, dipende se sono bambini nati in famiglie dove i genitori hanno una posizione sociale medio-alta e un lavoro. Questi conducono una vita simile a quella di un bambino europeo. Dei 20 Paesi più poveri al mondo, secondo il Fondo Monetario Internazionale, 18 sono Paesi dell’Africa Subsahariana. Qui i bambini che vivono le condizioni di maggiore povertà e, in certi casi, di povertà estrema, vale a dire nell’impossibilità di vedersi garantiti i servizi minimi di sostentamento come acqua, cibo, indumenti e abitazione, abitano nei villaggi. C’è infatti grande differenza in Africa tra le condizioni di vita cittadine – che seppur caotiche garantiscono alcuni servizi – e quelle dei villaggi. I bambini che abitano nei villaggi vivono in capanne di fango o case fatte di mattoni e lamiere. Si alzano la mattina all’alba per andare a prendere l’acqua al ruscello per tutta la famiglia, questo è infatti un compito che spetta alle donne e ai bambini. Alcuni di loro vanno a fare qualche lavoretto, tipo vendere frittelle che la mamma ha preparato. Poi vanno a scuola, perché la scuola in molti Paesi è obbligatoria fino al liceo. Alcuni però disertano le lezioni perché devono, appunto andare a lavorare per mantenere sé stessi e la propria famiglia che non può permettersi di pagare le tasse scolastiche o la divisa (che è obbligatoria). A volte non mangiano se non nel pomeriggio quando tornano a casa. Se sono fortunati fanno un paio di pasti al giorno, altrimenti uno. Ma mangiano sempre lo stesso cibo, di solito quanto si produce nei campi e quel poco che la madre può permettersi di comprare al mercato. Giocano con quello che hanno, facendo cadere la frutta dagli alberi, facendo nascondino, inventando giochi.

Hai mai visto bambini piccoli a lavoro?

Ho visto bambini lavorare tante e tante volte. È impossibile andare in Africa e non vedere bambini che svolgono una qualche attività. Quello che per noi è criticabile e ingiusto in alcuni Paesi è normale ed è il solo modo di sopravvivere. Anche i Paesi africani, naturalmente, hanno delle legislazioni che tutelano i bambini e vietano il lavoro minorile, in special modo i lavori pesanti in una certa fascia d’età. Ma poi la realtà è quella del bisogno e anche una certa cultura è difficile da scardinare. Per esempio è del tutto normale mandare i bambini a fare delle commissioni e aspettarsi che eseguano senza fiatare.

Che tipi di lavori svolgevano?

Per fortuna non ho visto i bambini lavorare nelle miniere o imbracciare un fucile. Anche questo è considerato un lavoro. In questo caso comunque ho incontrato e parlato – in Uganda – con ragazzi che erano stati costretti a diventare soldato. Quelli che ho incontrato io sembravano fiduciosi dell’avvenire perché avevano trovato delle organizzazioni umanitarie che li stavano aiutando sia con un percorso psicologico che con aiuti materiali, tipo corsi scolastici o il “regalo” di una vacca da pascolo che in certi Paesi rappresenta una ricchezza.

Per il resto ho visto bambini lavorare nei campi, e portare pesi sproporzionati. Li ho visti andare e tornare dalla fonte d’acqua con i secchi o le taniche sulla testa più e più volte al giorno. Ho visto sia i bambini che le bambine più grandi fare da genitori ai fratelli più piccoli dando loro da mangiare e portandoseli sulle spalle come si usa fare in Africa. Ho visto bambini andare a pesca, badare alle bestie e lavare cumuli di panni sporchi al fiume per tutta la famiglia. Ho visto bambini vendere frutta e sacchetti d’acqua ad ogni angolo di strada e sotto al sole tutto il giorno. Ho visto bambini spaccare le pietre nelle cave dove lavoravano tutto il giorno insieme alle mamme…

Tu collabori con associazioni che si occupano di questo problema nello specifico, me ne potresti citare alcune?

Io rappresento in Italia un’Associazione che opera in Ghana e che si chiama Ashanti Development. In realtà non ci occupiamo di lavoro minorile anche se in effetti è come se lo facessimo indirettamente. I nostri progetti vanno dal microcredito alle donne, alla costruzione di latrine, alla realizzazione di centri medici e scuole. Inoltre facciamo attività educative e medico-sanitarie. Fare queste cose significa migliorare le condizioni di vita generali di chi vive in un villaggio. Se una mamma ha i soldi, attraverso il microcredito, per avviare una piccola attività lavorativa è chiaro che anche i suoi figli ne saranno avvantaggiati. Se riusciamo a fornire l’acqua i bambini andranno meno al ruscello, se gli diamo più educazione forse un giorno potranno cercare e trovare un lavoro. Etc. etc.

I genitori, se i figli vanno a lavorare si oppongono in qualche maniera o restano indifferenti?

Come dicevo il sistema familiare e la struttura sociale in certi contesti favoriscono e giustificano il lavoro dei bambini. Sono gli stessi genitori a educare  bambini in questo modo. Si pensa che ognuno debba fare la sua parte, anche se è piccolo.

Ai bambini che lavorano viene  totalmente  negato il gioco e lo svago?

Dipende da dove vivono e in che condizioni. In situazioni estreme, ci sono casi di bambini addirittura “venduti” dai genitori e costretti a lavorare come in una catena di montaggio per ore – come il caso dei pescatori nel Volta Region in Ghana. In questi casi i bambini sono troppo stanchi per giocare. Hanno solo necessità di mangiare e dormire. In altri casi i bambini riescono anche a fare le cose che fanno tutti bambini, tipo giocare e divertirsi, appunto, dopo aver fatto le faccende a loro riservate. Dei bambini che ho incontrato alcuni, anzi molti, avevano gli occhi tristi e il volto stanco. Non penso avessero tanto tempo per pensare al gioco.

Le famiglie che hanno bambini che lavorano riescono a sopravvivere meglio, avendo un altro “reddito” per quanto minimo di cui usufruire?

Questa è una domanda davvero intelligente. Il problema è appunto anche questo: se vale la pena rinunciare all’infanzia per ammazzarsi di fatica. Il fatto è che, ripeto, in certe culture e ambienti sociali, non è una scelta ma un modo di vivere strutturato in tal modo. Comunque direi che sì, fondamentalmente le famiglie con i bimbi che lavorano stanno meglio, anche se è difficile usare questo termine, visto che, come tu stessa suggerisci nella domanda, si tratta di sopravvivenza. Insomma con il lavoro dei bambini si arricchiscono solo le multinazionali – rifaccio ancora l’esempio delle miniere d’oro e di diamanti in Sud Africa o Sierra Leone – certo non si arricchiscono le famiglie. Queste, del lavoro dei bambini hanno bisogno per mangiare. Le situazioni più drammatiche per i bambini sono spesso quelle che li vedono coinvolti in lavori pericolosi e pesanti a causa dell’avidità del mondo occidentale. Ho fatto l’esempio delle miniere di diamanti, ma c’è anche quello dell’estrazione dei minerali utilizzati per le componenti elettroniche che serviranno per i nostri telefonini e computer. Spesso l’Occidente e noi tutti ci commuoviamo ma chi è disposto a cambiare il proprio stile di vita per cambiare il mondo? È molto importante che la scuola vi stimoli a fare ricerche e approfondire questi argomenti per stimolare la vostra sensibilità e conoscenza .

Sei a conoscenza di qualche progetto che le associazioni stanno attuando?

Di progetti ce ne sono tantissimi, da quelli messi in atto periodicamente dall’ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) a quelli dell’Unicef e di tante altre grandi o piccole Organizzazioni non Governative, Onlus e Associazioni.

Quello che penso è che bisognerebbe però sempre agire rispettando la cultura locale perché, in caso contrario i progetti falliscono e una volta terminati e andati via gli occidentali le cose rischiano di tornare come prima. Inoltre se non si creano le condizioni perché la società fornisca alle famiglie la possibilità di trovare un lavoro e avere accesso ai servizi, i singoli progetti rischiano di non dare i risultati sperati. È un po’ come voler svuotare l’Oceano con un secchio, l’Oceano rimarrà sempre lì.

 

Antonella Sinopoli

Giornalista professionista. Per anni redattore e responsabile di sede all'AdnKronos. Scrive di Africa anche su Nigrizia, Valigia Blu, Ghanaway, e all'occasione su altre riviste specializzate. Si interessa e scrive di questioni che riguardano il continente africano, di diritti umani, questioni sociali, letteratura e poesia africana. Ha viaggiato molto prima di fermarsi in Ghana e decidere di ripartire da lì. Ma continua ad esplorare, in uno stato di celata, perenne inquietudine. Direttore responsabile di Voci Globali. Fondatrice del progetto AfroWomenPoetry. Co-fondatrice e coordinatrice del progetto OneGlobalVoice, Uniti e Unici nel valore della diversità.

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