Sudan, dove la protesta viene punita con la violenza sessuale

[Nota: Traduzione di Manuela Beccati, dall’articolo originale di Nazik Kabalo, pubblicato su openDemocracy.]

 

Tahany Hassan, una studentessa liceale 17enne, è stata colpita alla testa e uccisa il 31 luglio scorso da un poliziotto sudanese a Nayala, nel Darfur meridionale, mentre, insieme a altre centinaia di studenti delle scuole superiori,  stava protestando per il forte aumento delle spese di trasporto  (che per la maggior parte di loro significa l’impossibilità di andare a scuola). A Khartum, Port Sudan, Alobaied e molti altri Stati sudanesi, decine di donne sono state picchiate, arrestate, aggredite verbalmente o violentate. Erano scese in piazza per contestare il Governo che nega alla popolazione sudanese i diritti umani fondamentali.

Questa tragica morte è l’ultima di una lunga serie di episodi di violenza nei confronti delle donne sudanesi. Nelle ultime due settimane, dodici attiviste sudanesi sono state rilasciate dopo esser state chiuse in piccole celle maleodoranti per circa due mesi. Per gran parte della durata della loro detenzione, nessuno è stato a conoscenza di dove si trovassero. Le detenute erano completamente isolate dal mondo, perchè i servizi di sicurezza sudanesi e di intelligence nazionale, i NISS, avevano negato loro  qualsiasi contatto con le famiglie e gli avvocati. Questa la dichiarazione di una di loro dopo il rilascio: “la loro intenzione era quella di distruggerci psicologicamente con trattamenti disumani, non potevamo nemmeno andare in bagno quando ne avevamo bisogno: gli animali possono, noi non potevamo.

Per sei settimane studenti, avvocati, medici, donne e attivisti hanno manifestato contro le politiche del Governo sudanese. Sono state le studentesse di Khartum, il 16 giugno, ad accendere la protesta, che si è poi diffusa in tutto il Paese. La  scintilla è scaturita dalle misure di austerità del Governo e i prezzi elevati, ma poi le proteste sono continuate in un crescendo di partecipanti e richieste da parte della popolazione, tra cui, seguendo l’esempio della primavera araba, il rovesciamento del regime. Il mondo ha seguito #SudanRevolt attraverso i social network, dove molte attiviste lanciavano notizie dai loro profili su Twitter e Facebook.

Il Governo sudanese adesso sa che le donne non sono state solo la scintilla della rivolta o semplici manifestanti, ma che si stavano mobilitando dietro le quinte e in prima linea nei partiti politici, nei movimenti giovanili e nella società civile. Il 18 marzo, il quotidiano Akhir Lahza ha scritto che Nafie Ali, leader del partito al Governo e alto consulente del presidente, nel corso di una riunione di donne membri del suo partito ha detto: “tutte sapete di quelle attiviste che lavorano con le organizzazioni internazionali e che stanno mettendo in atto piani distruttivi contro la comunità”.

Le militanti sudanesi stanno combattendo su più fronti sfidando gravi minacce. All’interno di organizzazioni della società civile, partiti politici e movimenti per i diritti, chiedono che le strutture della comunità sudanese siano cambiate radicalmente, e siano trovate nuove condizioni di convivenza pacifica tra i diversi membri di gruppi religiosi, etnici e politici.

Una sfida possibile grazie all’intenso lavoro di tanti gruppi femminili che operano all’interno di movimenti pacifisti e nonviolenti e tra i sopravvissuti della più lunga guerra civile di tutto il continente africano – un conflitto interno durato 50 anni tra i sudanesi non musulmani del Sud e i sudanesi arabo-musulmani del Nord . Donne che hanno capito che le complicate ragioni per questa guerra vanno oltre la semplice classificazione tra arabi, africani, musulmani, avendo anche a che fare con una cultura profondamente razzista e discriminatoria all’interno della comunità sudanese, che però rimane in silenzio.

Le donne sono state le principali vittime di questa silenziosa discriminazione razzista, religiosa ed etnica, che si aggiunge alla tradizionale forma di discriminazione di genere contro di loro. E la prova di tutto questo è data dalla realtà di tutti i giorni. Migliaia di donne del Darfur sono state violentate negli ultimi dieci anni e questo dramma continua persino dentro i campi degli IDP [Internally Displaced People, sfollati interni]. Nel conflitto appena scoppiato sulle montagne di Nuba, dove scorre il Nilo Azzurro, lo stupro è ancora usato come arma di guerra dai membri delle forze di sicurezza governative sudanesi.  E non solo nelle zone di guerra, ma anche nelle aree di detenzione. Emblematico è il caso di Safia Ishaq, che è stata violentata nel marzo dell’anno scorso dopo una manifestazione a Khartum. Safia ha accusato e denunciato i membri del servizio di sicurezza. Molte giornaliste si sono occupate del suo caso, chiedendo un’indagine completa e indipendente, ma il Governo sudanese ha reagito facendo causa alle giornaliste e due di loro – Amal Habani e Fatima Gazaly – sono state incarcerate. Dopo di che gli è stato vietato di continuare a seguire il caso.

Durante le proteste del giugno scorso le manifestanti sono state sottoposte a varie forme di violenza e intimidazione. Una studentessa e una delle organizzatrici della protesta hanno detto  che “i membri delle forze di sicurezza e gli uomini della polizia si slacciavano i pantaloni di fronte alle manifestanti mentre era in corso la protesta fuori l’Università di Khartum”. Alcune detenute, dopo esser state rilasciate, hanno dichiarato di aver subito abusi verbali e che gli interrogatori sono stati una lunga serie di intimidazioni. “Non siete brave donne se lasciate le vostre case per andare a protestare”, gli dicevano gli agenti.

Coloro che hanno partecipato alla manifestazione di piazza “No all’oppressione femminilesono state arrestate. Ci sono poi molte altre organizzazioni femminili e attiviste che lavorano insieme ai dirigenti locali, agli studenti e ad altri giovani nelle baraccopoli, attorno alle grandi città dove la guerra ha condizionato la vita degli abitanti. In queste aree hanno tenuto riunioni di formazione sulla pace e la nonviolenza, workshop di sensibilizzazione sui diritti umani e delle donne. Un lavoro importante, svolto in sordina da organizzazioni di cui non è prudente svelare il nome, che sta creando le basi di una diversa consapevolezza tra la comunità. Una consapevolezza che riguarda l’essere più coinvolti nella ricostruzione delle proprie esistenze e del proprio Paese sulla base del rispetto dei diritti umani e della fine della discriminazione e violenza contro le donne e contro chi vive condizioni di emarginazione.

L’emarginazione e l’esclusione dalla partecipazione ai processi economici, sociali e politici in Sudan, sono il prodotto del razzismo e della discriminazione di genere, etnica e religiosa: ed è ciò che sta alimentando la guerra senza fine in Sudan. Le donne all’interno dei partiti politici e della società civile hanno sempre invocato la pace e la fine della guerra. A luglio 2011, a tre settimane dall’inizio del conflitto sulle montagne di Nuba, otto donne sono state incriminate per aver manifestato contro le atrocità commesse nella regione e per aver chiesto la pace. Ero una di loro. Abbiamo condotto una campagna contro la guerra e raccolto aiuti per le persone che sono state attaccate e cacciate dai luoghi dove vivevano dalle forze di sicurezza. Quello che volevamo era solo rompere il silenzio sui crimini commessi dal Governo contro il popolo del Sudan.

A Khartum sono stati accolti 9 milioni di profughi, ma dopo la secessione non si sa più quanti siano. Le donne che cercano di guadagnarsi da vivere hanno solo la possibilità di fare lavori di bassa manodopera – soprattutto preparazione di cibi e bevande, e in quanto profughe non sono protette dalla legge. Inoltre, hanno l’obbligo di coprirsi i capelli se lavorano in strada, e spesso subiscono molestie sessuali non solo da parte di uomini che sono lì per acquistare la loro merce, ma anche dalle forze dell’ordine.

Il Sudan, dopo l’indipendenza del Sud, sta affrontando la sfida della propria identità e  rinascita. E mentre si combatte, i movimenti politici e giovanili esigono il cambiamento. Le donne sono al centro di questo processo – chiedono più diritti e lottano contro la violenza e la discriminazione non solo nei confronti della popolazione femminile, ma di tutti i sudanesi, e premono per una maggiore partecipazione politica nel processo decisionale.

Nei mesi scorsi il Sudan ha eletto la prima donna alla presidenza di un partito politico, Hala Abd Alhalim of Haq.  E i giovani a capo dei movimenti politici chiedono il cambiamento del regime e una nuova Costituzione, in particolare, che il 35% delle donne sia eletto e destinato a cariche istituzionali. Le donne che difendono i diritti umani e gli attivisti sostengono i sindacati dei lavoratori e delle professioni, e a capo dei movimenti per i diritti ci sono donne avvocato, medico e giornaliste. Le donne sudanesi chiedono la rinegoziazione della distribuzione del potere nel Paese e nelle loro rivendicazioni, in molte regioni del Sudan, sono affiancate da categorie finora ai margini della vita politica e sociale del Paese.

È il motivo per cui il Governo sudanese mostra tale violenza contro le donne attiviste. Le considera, infatti, nemiche il cui scopo è “distruggere la comunità”. Ma mentre alcuni stanno combattendo con le armi nelle zone di guerra del Sudan per conquistare diritti, partecipazione politica e condivisione del benessere e del potere della nazione, queste donne hanno scelto altre armi per raggiungere i medesimi obiettivi. Per superare gli ostacoli usano la determinazione, la consapevolezza, la solidarietà e il coraggio.

 

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