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I fatti di Marikana raccontati dalla poesia

La tragica vicenda delle miniere di Marikana, una regione molto povera del Sudafrica, ha raggiunto in agosto le prime pagine dei giornali di tutto il mondo (vedi per esempio il New York Times, El Pais, Le Monde, ma anche il nostro Corriere della Sera) ma da allora in poi se ne è parlato sempre meno. Anche per rompere questo silenzio, la casa editrice Geko e la rivista BKO Magazine alcuni giorni fa hanno lanciato un’iniziativa, Marikana: a Moment in Time, offrendo a chi fosse interessato uno spazio per pubblicare poesie, racconti, articoli e commenti su questo tragico evento, che verranno raccolti in un volume i cui proventi andranno interamente alla comunità di Marikana. L’invito a partecipare al volume, per chiunque volesse (ovviamente gli interventi dovranno essere in inglese) scade a fine mese.

Approfittando della recente iniziativa della casa editrice vorremmo cercare di approfondire e di capire meglio quello che è accaduto e cosa ha significato per il Sudafrica. Marikana ha infatti rappresentato un momento di riflessione e di presa di coscienza per molti sudafricani (anche fuori dal Sudafrica. Vedi per esempio l’articolo South Africa’s ‘Marikana Moment’ scritto su The Nation da Mark Gevisser, importante giornalista sudafricano e autore di A Legacy of Liberation: Thabo Mbeki and the Future of the South African Dream): sia sui social media sia da parte di poeti, artisti ed intellettuali sudafricani, la reazione è stata molto forte.

Tra i promotori dell’iniziativa anche un italiano, Raphael d’Abdon, scrittore e anche ricercatore in letteratura sudafricana, che è nato a Udine ma attualmente vive a Pretoria, dove si occupa di poesia orale contemporanea, un genere molto vivo in Sudafrica (a novembre si terrà il Cape Town Spoken Word Festival, e non è neanche il primo in Sudafrica) soprattutto tra le nuove generazioni.

Subito dopo  il massacro, il 19 agosto, Raphael, ispirato da una fotografia che forse gli aveva richiamato alla mente altri massacri che hanno segnato la storia del Sudafrica, come Sharpeville o quando morì Hector Pieterson, ha dedicato anche lui una poesia alla popolazione di Marikana. Ci è sembrato giusto pubblicarla in una mia traduzione (l’originale lo trovate qui) subito prima dell’intervista

Andando a scuola

a marikana
ho visto bambini neri
che andavano a scuola,
fissare
i loro padri stesi,
corpi senza vita.
grumi di sangue
sotto le scarpe lucidate a specchio.
a scuola
tutti gli insegnanti erano al loro posto.
cosatu non aveva indetto alcuno sciopero.
“per cosa?”
l’insegnante d’inglese piangeva.
quello di matematica era ubriaco (al solito).
l’insegnante di storia ha parlato
della nuova costituzione.
quello di geografia della ricchezza
del sottosuolo africano.
al nymex
il valore del platino è schizzato
vertiginosamente,
però a pranzo
molti bambini
coi loro squallidi recipienti
aspettano ancora il cibo.
a stomaco vuoto
cantano tutti nkosi sikelel’,
e poi tornano a casa.
i corpi dei loro padri sono ancora lì.
appena un po’ più freddi.

Intervista a Raphael d’Abdon

Partiamo ovviamente da quello che e’ successo a Marikana. E’ vero che se ne e’ parlato, ma non sempre e’ facile capire dai media, specie occidentali, cosa e’ veramente accaduto, e soprattutto in che modo la gente in Sudafrica ha vissuto e percepito la cosa. In genere si tende a visioni stereotipate e sensazionalistiche. Potresti riassumere brevemente I fatti e raccontare un po’, anche sulla base di quello che e’ stato detto nei social media, come le persone hanno reagito?

Il massacro di Marikana è stato dipinto dai media come una vicenda complessa (e per molti versi lo è), ma i fatti sono in realtà molto chiari e si possono riassumere in poche righe: il 16 agosto 2012 nell’area adiacente la miniera di platino del sito di Marikana (di proprietà della multinazionale britannica Lonmin) un presidio di minatori che manifestava per ottenere un aumento del proprio salario mensile di 4000 rand al mese (all’incirca 400 €) è stato freddato da agenti della SAPS (South African Police Service) posti a difesa del sito minerario. Negli scontri hanno perso la vita 36 minatori, due poliziotti, 4 persone “non identificate” e due guardie di sicurezza private, mentre altri 78 tra agenti e minatori sono rimasti feriti. Le perizie mediche hanno poi dimostrato come molti minatori siano stati colpiti mortalmente alla schiena, mentre stavano fuggendo. In ogni caso, senza entrare nel dettaglio delle dinamiche della sparatoria, possiamo riassumere questo tragico episodio con una riflessione che ben illustra le linee essenziali di questo evento spartiacque nella storia del cosiddetto “post-apartheid”: minatori neri sottopagati e poliziotti (prevalentemente neri) sottopagati si sono fronteggiati in nome di una risorsa che nessuno di loro possiede. È evidente che ci troviamo di fronte a un caso esemplare di neocolonialismo, che ritrae in maniera paradigmatica le strutture di potere che caratterizzano il Sudafrica neocoloniale odierno.

Nei social media le reazioni sono state più o meno ovunque le stesse: rabbia, dolore, indignazione. Il dato più interessante però è che pochi hanno manifestato sorpresa per i fatti accaduti. In un certo senso la gente “sentiva” che una tragedia del genere “era nell’aria”. Gli osservatori più acuti e smaliziati, infatti, sanno molto bene che la polizia sudafricana non è nuova ad aggressioni armate di questo tipo, sebbene negli anni passati siano state condotte su scala più ridotta. Le statistiche ci dicono infatti che sono almeno 25 gli attivisti politici uccisi dalle forze del (dis)ordine dal 2000 ad oggi. Il nome più conosciuto tra queste vittime della violenza della polizia è probabilmente quello di Andiers Tatane, ma la lista è – sfortunatamente – molto più lunga. Personalmente, nei giorni successivi al massacro mi sono trovato a discutere su due fronti: da un lato i social media, appunto, dove interagivo con poeti, scrittori e attivisti sudafricani, in gran parte giovani o giovanissimi, i quali hanno reagito in generale come descritto sopra; dall’altro, ragionavo via email con studiosi e attivisti italiani, e devo confessare, con profondo rammarico, che alcuni di loro cercavano sostanzialmente di minimizzare l’accaduto, in certi casi arrivando persino a “intellettualizzare” le morti dei minatori. Questi commenti sono arrivati da intellettuali appartenenti alla “vecchia guardia”, individui che negli anni ‘60, ‘70 e ‘80 avevano lottato attivamente contro il regime dell’apartheid e che oggi, in nome di una cieca e – a mio giudizio – antistorica fedeltà all’ANC, continuano a difendere questo partito anche di fronte a situazioni oggettivamente indifendibili. Questo doppio approccio nei confronti del massacro di Marikana ha portato alla luce come da un lato ci siano giovani artisti molto attenti a quanto accade intorno a loro, con le idee ben chiare su quali siano le dinamiche di sfruttamento neocoloniale che caratterizzano il “Nuovo (?) Sudafrica”. Dall’altro invece ci sono studiosi che insistono ad interpretare la storia contemporanea di questo Paese utilizzando categorie politiche legate al passato, categorie obsolete che impediscono di decifrare correttamente le linee di conflitto che ancora attraversano questa tribolata società.

Alcuni giorni fa avete lanciato l’idea di un numero della rivista BKO Magazine, proprio sui fatti di Marikana. Potresti dirci qualcosa su che tipo di rivista si tratta e su come e’ nata l’idea di questo numero?

BKO è la rivista indipendente storica del movimento dei giovani spoken word artists sudafricani. In sostanza è uno spazio creativo nel quale si raccolgono le voci dei più brillanti artisti “underground” (poeti, musicisti, scrittori, pittori, fotografi, ecc.) di Johannesburg e di tutto il Sudafrica. Nata nel 2005, aveva chiuso i battenti per mancanza di fondi nel 2008, e grazie alla passione del poeta Phehello Mofokeng (che è anche il direttore della casa editrice Ge’ko) è riapparsa di recente con un numero dedicato alla poetessa Natalia Molebatsi. BKO è una rivista trimestrale che presenta di volta in volta il profilo di un artista di rilievo all’interno del panorama culturale urbano sudafricano, e pubblica poesie, interviste, articoli, commenti ecc. Nelle settimane precedenti alla carneficina io, Mofokeng e gli altri ragazzi della redazione avevamo già iniziato a mettere insieme il secondo numero della rivista, dedicato alla straordinaria cantautrice e poetessa Lilly Million. Come è facile immaginare, gli eventi di Marikana hanno messo in secondo piano tutti i progetti a cui stavamo lavorando, e l’idea iniziale della redazione è stata quella di far uscire un numero speciale sul massacro. In un secondo momento però, dopo attenta riflessione, abbiamo deciso di sviluppare la riflessione su questa tragedia in raccolta di più ampio respiro. Così abbiamo messo in rete il numero su Lilly Million, nel quale abbiamo incluso l’appello alla scrittura per il volume su Marikana, volume che vorremmo mandare in stampa in tempi molto brevi e che speriamo servirà non solo come testimonianza storica del drammatico evento, ma soprattutto come strumento di raccolta fondi da destinare alla comunità di Marikana.

BKO Magazine quindi lo si può definire una rivista di scrittura creativa che cerca di creare un tipo di letteratura impegnata, attenta ai problemi sociali e politici. Per cui l’idea di occuparsi di un evento come quello delle lotte sindacali dei minatori e del massacro di Marikana sembra particolarmente adatta. Vi e’ successo anche in passato di occuparvi di eventi sociali e del modo in cui venivano rappresentati artisticamente?

Concentrandosi principalmente sulla poesia e sulla musica “di strada”, BKO è per sua stessa natura una rivista che esplora temi di natura culturale, sociale e politica. Potremmo definirla un megafono che diffonde le storie che si ascoltano nei circuiti underground di musica e spoken word. Basta assistere a una sessione di open mic o di slam poetry per comprendere come non esistano temi tabù in queste arene di “discussione creativa”. Tutti i poeti presentati da BKO (Natalia Molebatsi, Afurakan, Kojo Baffoe, Lebogang Mashile, Myesha Jenkins, Lesego Rampolokeng, Lilly Million, ecc.) sono artisti profondamente impegnati a favorire la crescita culturale e la consapevolezza politica nelle loro comunità, e sono considerati dei punti di riferimento e dei “role models” da un’intera generazione di giovani poeti e musicisti “under 30”.

Ci puoi fare qualche esempio di scrittura creativa dedicata ai fatti di Marikana?

La prima che vorrei citare è la poesia What dark days, pubblicata nel blog della scrittrice, accademica, film-maker ed attivista Gillian Schutte.

La seconda è la mia poesia che è stata pubblicata pochi giorni dopo la tragedia sul quotidiano online Palestine Chronicle ed è anche stata letta dal mio maestro Lance Henson (medicine man e “dog soldier” cheyenne, nonché uno dei più importanti poeti nordamericani contemporanei) nella serata “100 Thousand Poets For Change” di Bologna. Si può vedere il filmato ripreso dalla poetessa Pina Piccolo, una delle organizzatrici del medesimo evento.

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=bdRJNEnnx7I[/youtube]

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