[Nota: Chi ha scritto questo articolo ha subìto pressioni da Israele e il divieto di entrare nei territori occupati. Per questo è preferibile che non compaia il suo nome. Riteniamo però che le testimonianze ed esperienze che ci sta inviando possano essere utili a comprendere come si vive davvero su quella terra]
Da tempo ero a conoscenza della presenza della comunità dei samaritani nella West Bank e appena ho avuto modo di visitarla l’ho fatto. Si tratta di un gruppo religioso israelita, che segue un’interpretazione originale della Bibbia, che ha più di 2500 anni, e che per 25 secoli si è rifiutato di mescolarsi con gli ebrei. I quattro principi di fede seguiti dai samaritani sono: un unico Dio, il Dio di Israele; un unico profeta, Mosè figlio di Amran; un unico libro sacro, la Torah tramandata da Mosè; un unico luogo sacro, il monte Gerizim. Tale comunità festeggia le sette festività nominate nella Torah: la pasqua ebraica; la festa degli azzimi; la festa delle settimane (Shavuoth); il primo giorno del settimo mese; il giorno dell’espiazione (Yom Kippur); la festa dei tabernacoli (Sukkoth); la festa della Torah.
Passeggiando per le strade del monte Gerizim ho sentito parlare in arabo e a volte in ebraico ma mai in aramaico. La curiosità mi ha spinto a fare alcune domande. Ho saputo così che tutti i samaritani posseggono tre passaporti, uno israeliano, uno palestinese e un terzo giordano. Inoltre la lingua parlata all’interno della comunità è quella araba, e di fatti si considerano palestinesi. Tutti, però, sin da piccoli sono obbligati ad imparare l’aramaico, le preghiere, le liturgie e tutto ciò che possa servire per essere un bravo samaritano.
Per essere samaritano, infatti, bisogna seguire leggi obbligatorie: vivere in terra d’Israele, senza lasciarne i confini storici oppure mantenendovi la residenza se si vive fuori di essa, partecipare al sacrificio di pasqua sul monte Gerizim, rispettare il sabato; osservare le leggi della purità e impurità come prescritto nel testo sacro. Chiunque non osservi uno solo di questi doveri non può continuare a vivere all’interno della comunità. Questa si è sempre attenuta al precetto biblico che imponeva il matrimonio solo tra persone della stessa religione. In effetti mi è stato riferito che tra la popolazione, che oggi conta un numero di 700 individui, vi sono numerosi portatori di handicap. Secondo alcune fonti nel 1948 la comunità samaritana contava 250 persone; nel 1969, 414 e nel 1996, 583.
L’obiettivo e il sogno più grande di arrivare ad un numero totale di 1000 persone, per ora sembra essere una meta irraggiungibile. In età da matrimonio ci si sposa solo con donne e uomini samaritani, o almeno questa era la prassi fino a qualche anno fa, oggi sembra che gli uomini possano sposare donne di altra fede ma rispettando alcune condizioni. La futura sposa deve vivere nel villaggio per due anni e durante questo periodo deve imparare la lingua, la preghiera e sottoporsi a diversi esami, anche di storia. Una volta superato l’esame può entrar a far parte della comunità. Certo risulta molto difficile che una donna di altra fede si converta. Aspetto non meno importante è che i samaritani non amano che gli venga detto che sono ebrei. Si ritengono l’origine di quello che oggi viene chiamato ebraismo ma sono stati per secoli allontanati, perseguitati e ritenuti degli eretici.
Penso sia importante sottolineare anche altri aspetti che sono emersi durante il mio viaggio. All’interno del villaggio vi è una sinagoga, che è permesso visitare solo durante il venerdi; all’interno del luogo sacro ciascuno, uomo o donna, deve entrare in stato di purità e deve essere vestito in modo adeguato, con un abito che compra le gambe fino alle caviglie e le braccia. Altra caratteristica importante sembra essere quella dell’Unità. Mi è stato raccontato di alcuni eventi accaduti durante la Seconda Intifada: due giovani presero parte agli scontri e furono arrestati, uno di loro è stato condannato all’ergastolo ed è tutt’ora nelle carceri israeliane. Per la comunità è stato un dramma perché la perdita di ogni singolo individuo per loro rappresenta fonte di grande dolore. Si tratta di una grande famiglia. Anche il luogo in cui vengono celebrate le feste e i matrimoni si presenta come un luogo spazioso in cui tutto viene condiviso. Non vi è matrimonio o festa, infatti, a cui non prenda parte tutta la comunità, che non è politicizzata e forse evita di esserlo proprio per paura di perdere i propri diritti. Da palestinesi vivono la propria giornata tra la città di Nablus, dove lavorano e il loro villaggio presso il monte Gerizim.
Mi sono recata sul punto più in alto del monte con una guida per visitare alcune rovine importanti dal punto di vista storico e religioso, ma non ero a conoscenza del fatto che tutta la zona è stata chiusa ed è sorvegliata dall’esercito israeliano e la si può visitare solo in determinate ore della giornata. Secondo alcuni abitanti questo gesto è dovuto al fatto che il governo israeliano tenta di impossessarsi della storia dei samaritani, volendo spacciarla per loro, almeno questo era l’intento iniziale. Dopo la fine della Seconda Intifada l’esercito israeliano ha abbandonato la zona ma da qualche anno, proprio sotto richiesta dei samaritani, la zona è tenuta sotto controllo. Il motivo è la continua presenza di palestinesi e non solo, che durante le ore notturne si recano sul monte per acquistare alcolici, la cui vendita è vietata a Nablus e crea disagio all’interno della comunità.
I samaritani, in sostanza vogliono cercare di preservare la propria storia, la propria cultura e religione venendo incontro a quelli che sono gli usi e costumi degli abitanti di Nablus, città a maggioranza musulmana con una piccola percentuale di cristiani. Non mancano dibattiti interreligiosi organizzati da associazioni locali e gli stessi musulmani si sentono molto vicini ai samaritani in quanto a rispetto dei precetti religiosi, come il divieto di non mangiare carne di maiale.
Questo viaggio rappresenta per me sempre di più un viaggio nel passato, alla riscoperta delle origini. E cresce la mia voglia di essere testimone di ciò che i miei occhi vedono e le mie orecchie sentono.