In “Destinazione Freetown“, nuovo graphic novel della casa editrice Becco Giallo, Khalid è il protagonista immaginario di un viaggio di ritorno al proprio Paese, la Sierra Leone. Se l’Italia rappresenta la sconfitta del suo antico sogno, seguendo il suo percorso a ritroso esploriamo una terra affamata di futuro. Coautori ne sono Raul Pantaleo, architetto che ha partecipato alla costruzione di diversi ospedali d’eccellenza per Emergency, e l’illustratrice Marta Gerardi, entrambi membri del progetto collettivo Tamassociati. Lo sfondo reale del viaggio di Khalid sono infatti gli ospedali di Emergency realizzati in Sudan, Repubblica Centrafricana e Sierra Leone, che abbiamo modo di esplorare nel corso del suo tragitto.
Pubblichiamo due tavole che ci sono piaciute e a seguire una nostra intervista agli autori.
Nel seguito l’intervista (DG = Davide Galati; RP = Raul Pantaleo; MG = Marta Gerardi).
DG – Innanzitutto mi piacerebbe capire qual è la vostra modalità di collaborazione, considerato anche che questo non è il primo lavoro insieme (ho visto il vostro video “Una giornata infortunata“): a prima vista, parrebbe che Raul sia dedicato principalmente alle illustrazioni tecniche, come le schede progettuali degli ospedali di Emergency in questo lavoro. Mi chiedo però che tipo di osmosi si sia realizzata tra voi nel corso di questi anni e cosa vi siate dati reciprocamente, anche allo scopo di capire il metodo di lavoro di “Destinazione Freetown”.
RP – Il fumetto è uno strumento estremamente utile per raccontare la realtà africana. Apre su un immaginario poco conosciuto attraverso una dimensione in cui il linguaggio, i segni, le parole diventano universali, in cui le barriere tra conosciuto e sconosciuto riescono a disciogliersi in un unità che il fumetto riesce magicamente a trasmettere. Confidiamo che “Destinazione Freetown” riesca, così, a veicolare una diversa immagine dell’Africa.
Sono queste le considerazioni che ci hanno spinto a provare a mescolare le nostre esperienze con l’illustrazione. Il nostro rapporto di collaborazione è ormai di lunga data. Illustrazioni, corti, comunicazione dello studio e ora “Destinazione Freetown” sono il tassello di un lavoro che stiamo facendo da anni nel tentativo di sviluppare un linguaggio autonomo e innovativo nell’ambito della comunicazione sociale. Per quanto riguarda il nostro metodo di lavoro: personaggi , storie, scenografie, vengo decise insieme (normalmente in lunghe conversazioni con tutto lo studio all’ora di pranzo) poi ognuno sviluppa la sua parte. È un lavoro a più mani ma soprattutto a più teste, non esiste un reale confine tra narrazione ed illustrazione. Grafica e contenuti sono solo due declinazioni dello stesso discorso.
MG – In più posso aggiungere che Destinazione Freetown è stato un viaggio anche nella stesura della trama. Avevamo uno schema narrativo generale, ma poi tutti gli intrecci secondari che si sviluppavano li decidavamo passo dopo passo. Potevamo cambiare una scena all’ultimo secondo se ci veniva in mente qualcosa di migliore. Fino all’ultimo non sapevamo quello che sarebbe capitato a Khalid! Noi stessi siamo rimasti a lungo con il fiato sospeso… come d’altronde succede quando si intraprende un viaggio.
DG – E’ bello pensare al ritorno (per ora immaginario) di Khalid alla sua terra: le prospettive economiche dell’Africa subsahariana inducono peraltro qualche speranza che viaggi di ritorno al proprio Paese possano diventare reali, dato che il tasso di crescita economica di diversi paesi di quell’area è oggi tra i più alti al mondo. C’è però da chiedersi che forma stia assumendo questo sviluppo: in una vostra tavola dedicata a Khartoum si legge: “SVILUPPO, SVILUPPO È LA PAROLA D’ORDINE QUI, MA SVILUPPO VERSO DOVE?” Siete o ottimisti o pessimisti rispetto a queste dinamiche economico-sociali in atto?
RP – Non si tratta di essere ottimisti o pessimisti, le dinamiche socio/economiche in atto sono assolutamente imprevedibili, È necessario, invece, agire da cittadini consapevoli. Abbiamo una responsabilità collettiva verso le generazioni future che è quella di consegnare un mondo vivibile. È un’azione individuale che diventa collettiva ed è indipendente il luogo in cui ci si trova ad agire.
La modernità che sogniamo per l’Africa (e non solo per l’Africa) è una modernità che guarda al passato pensando al domani, ibridata da quegli elementi raccolti nella geografia di un luogo, dalla sua identità. con il nostro lavoro abbiamo provato ad immaginare uno sviluppo che soddisfi il desiderio di futuro di milioni di africani senza che questi vengano sradicati dal tessuto sociale ed economico in cui vivono, uno sviluppo che metta in risonanza la storia e le tradizioni africane con le nuove emergenze sanitarie, energetiche ed ecologiche di questo continente e di tutto il pianeta. Riflettere su queste problematiche, anche attraverso questo fumetto, ha significato riprendere il filo di un discorso sullo sviluppo che abbia un senso etico, poco importa che questo avvenga in Europa, in Africa o in qualunque altra parte del pianeta.
DG – Ragionando sul contributo che noi europei possiamo dare rispetto alla precedente questione e calandoci nello specifico dell’attività condotta da Raul Pantaleo in diversi Paesi africani, come si può costruire una relazione che non induca sudditanza e dipendenza? Che tipo di rapporto avete impostato con le comunità locali nella realizzazione e conduzione degli ospedali di Emergency, pensando alla necessità di trasferire loro delle competenze che permangano e un reale empowerment?
RP – Ci sono due parole che sintetizzano il nostro modo di operare: rispetto e buon senso. Secondo la nostra esperienza a partire da questi principi è pensabile un modello di cooperazione inclusivo e equo. I luoghi in cui abbiamo abbiamo lavorato e che abbiamo mostrato nel fumetto sono aree complesse dal punto di vista sociale e difficili dal punto di vista ambientale. Sono zone spesso colpite da povertà e guerra; dove elettricità, acqua corrente, scuole, strade, sanità sono spesso ancora un miraggio. Nel burocratico linguaggio dei media sono genericamente definiti: “Paesi in via di sviluppo” o “terzo mondo”, “Sud del mondo” o “emergenze umanitarie”. Sono paesi misurati con i freddi numeri delle statistiche e delle classifiche dei più miserabili. Ma la povertà vera non è solo il vivere con meno di due dollari al giorno, è anche essere sradicati dalla propria cultura e tradizioni dal proprio sistema economico, soprattutto non potere decidere del proprio futuro. Se vogliamo parlare in modo laico di “Sud del mondo” non dobbiamo dimenticare che carestie, guerre tra poveri, inutili barbarie, sono state spesso causate da politiche di sviluppo e cooperazione errate (a volte volutamente sbagliate) o di indebite ingerenze dai potenti nelle politiche interne di questi paesi. “Portare aiuti” con l’arroganza di credersi “nel giusto”, generosi, buoni significa ignorare che quello che oggi l’occidente offre all’Africa non è altro che una forma di risarcimento. Ha poco a che fare con la generosità. È solo il minimo da rendere a queste popolazioni rispetto a quanto gli è stato sottratto, prima con il colonialismo ora con l’economia globalizzata, in termini di diritti, materie prime, risorse umane. Quando parliamo di aiuto umanitario non è il caso di parlare, di anime belle, nobiltà, parliamo più onestamente di giustizia. Questo continente ha bisogno di rispetto, dell’abbandono dei facili pietismi che spesso accompagnano la cooperazione. Necessita del superamento di quell’arroganza occidentale di chi viene a portare aiuti ai “poveri Africani”. Ha bisogno di essere trattato alla pari e di condividere la modernità che ha pervaso ormai quasi tutto il pianeta. La vera urgenza, a nostro avviso, è porre fine all'”estetica del dolore” affermatasi nell’immaginario occidentale quando si parla d’Africa. Fare cooperazione, secondo l’esperienza fatta con questi progetti di Emergency, ha significato porre sempre al primo posto il rispetto della dignità delle persone trattandoli come uguali. Da qui il nostro principio progettuale di creare dei luoghi in cui ci piacerebbe stare e di conseguenza essere curati. Questa è la ragione per cui i luoghi che abbiamo mostrato sono luoghi d’eccellenza sia dal punto di vista sanitario che tecnologico ed ecologico. Motore di sviluppo in cui la re-distribuzione della ricchezza diventi una base di giustizia sociale.
molto bello e molto vero, centratissima “l’estetica del dolore” ma difficile da sradicare
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