Sul meccanismo della censura, ormai siamo tutti sufficientemente svezzati. Tutti sappiamo che in Cina l’informazione è tutt’altro che libera, obiettiva e pluralista.
Ma è davvero così? Non si tratta forse di una versione eccessivamente semplicistica? Recentemente due libri, scritti da due giornalisti italiani, si sono occupati seriamente e criticamente della questione.
In Cina.net, Ivan Franceschini analizza il mondo della rete: la nascita dei microblog (weibo), il popolo degli internauti cinesi (wangmin, letteralmente ‘popolo della rete’, sostantivo addirittura impiegato in alcuni contesti al posto di renmin, letteralmente‘popolo’: in pratica la parola più usata nella comunicazione degli ultimi sessant’anni di storia) e l’utilizzo della rete da parte delle strutture governative.
Descrive inoltre il fenomeno dei wumaodang (letteralmente ‘partito dei cinquanta centesimi’), professionisti della manipolazione online che vengono assoldati a basso costo da compagnie e organi di potere per correggere e intervenire sulle informazioni che corrono, fin troppo liberamente, sul web.
In Ho servito il popolo cinese invece, Emma Lupano racconta la sua esperienza di giornalista occidentale che, grazie al talento e alle intricate e misteriose reti delle guanxi (che potremmo tradurre con ‘conoscenze’), riesce per la prima volta a entrare a far parte della redazione di una delle principali testate cinesi e a collaborare attivamente dall’interno.
Espone in dettaglio che cosa ci si aspettasse da lei, quali fossero le sue mansioni e quali fossero invece gli inevitabili tabù che, proprio in quanto tali, non si dovevano esplicitare ma nondimeno erano comunque chiari e incontrovertibili.
Entrambi i libri, seppure da punti di vista diversi, sottolineano come oltre al meccanismo della censura e al divieto di scrivere di certi argomenti, esista il concetto di ‘artefazione’ della notizia: la notizia deve essere edulcorata, arricchita, rielaborata. Un piatto da servire freddo e con tanto di posate in accompagnamento.
Emma Lupano racconta ad esempio che una delle sue prime occupazioni, una volta arrivata in redazione, era quella di rivedere e correggere gli articoli dei colleghi: renderli accattivanti, interessanti, dare loro struttura, consistenza, gusto. Rendere leggibile e fruibile una poltiglia di informazioni e dati provenienti dall’alto e dal basso: un giornalista cinese sa perfettamente cosa scrivere, quello che non sa è semmai come farlo al meglio.
In effetti è interessante notare come spesso siano proprio i giornalisti stessi a essere i loro primi ‘organi censori’: la maggioranza di loro non ha affatto bisogno dell’ ‘armonizzazione’ (termine con cui ci si riferisce al processo di censura) da parte dell’ufficio governativo responsabile, semplicemente si limita a omettere ciò che non si può dire ancora prima dell’ intervento di quest’ultimo. In primis per tutelare sé stessi: ci sono casi eclatanti di giornalisti importanti retrocessi, licenziati o peggio per aver divulgato notizie che era bene restassero nascoste dentro bocche cucite e archivi sicuri.
Ma non è solo la ‘paura’ della sanzione a agire da deterrente, insieme ci sono motivazioni più complesse e altrettanto determinanti. Prima tra tutte la buona norma del sempre ‘caro’ buonsenso: “non si sputa nel piatto dove si mangia”.
Infatti in un Paese che sta affrontando, per la prima volta in questi anni, il serio problema della disoccupazione, trovare un posto (soprattutto per i giovani laureati che non riescono a essere assorbiti dal mercato) è sempre più difficile e ancora di più lo è mantenerlo: la competizione e la concorrenza in Cina sono altissime. Per continuare a lavorare, a scrivere e a mantenere il proprio status sociale, si scende a compromessi che il più delle volte non sembrano nemmeno tali.
A questo va aggiunta un’importantissima nota storica. Si potrebbe dire che storicamente in Cina ‘fare informazione’ equivalga a ‘fare educazione’: informare è ‘formare qualcuno su/in qualcosa’. Infatti i media e le principali testate giornalistiche nascono come metodo piramidale di divulgazione e di istruzione: le notizie partono da un vertice e si propagano verso il basso.
Si pensi per esempio alla radio che, in epoca maoista, veniva usata per raggiungere e educare le masse di contadini e proletari. Oppure ai quotidiani gestiti più o meno direttamente dal Partito: si scrive solo quello che si vuole che si sappia. L’informazione deve quindi essere in primo luogo socialmente utile, ‘didattica’ quasi. Un intento dichiaratamente ‘pragmatico’ dunque: si fa ciò che serve allo scopo e non sono concesse variazioni né tantomeno divagazioni sul tema.
E lo scopo non è quasi mai ‘l’arte per arte’, l’informazione per sé stessa. Si deve far sapere qualcosa perché è utile, importante, necessario. C’è un processo di selezione che deve tenere conto degli obiettivi, delle finalità e dei risultati veri o ipotetici della notizia comunicata. Scrivere è come fare tiro con l’arco: si devono considerare attentamente la traiettoria, il bersaglio e le possibili deviazioni.
Fare il giornalista, nell’ambito dell’ ambizioso progetto della costruzione di una ‘società armoniosa’, significa ricoprire un ruolo, una posizione, mettersi un habitus che comporta il rispetto di regole e giochi: il giornalista è investito di una certa dose di responsabilità sociale, prima che personale.
Questo tipo di ‘reponsabilità’ però non è necessariamente etica: è una responsabilità di ruolo, di posizione raggiunta e occupata. Seguendo una logica confuciana, riadattata a tempi e contesti contemporanei, per costruire e preservare una ‘società armoniosa’ (hexie shehui) è doveroso comportarsi in maniera conforme al proprio ruolo sociale. Una conformità che diventa dunque quasi ‘normativa’: la struttura di potere influenza e induce comportamenti che vengono introiettati e poi riproposti dal singolo. Sotto questo punto di vista, il fenomeno dell’autocensura non è poi tanto strano.
L’informazione quindi deve essere, per usare metaforicamente un termine molto di moda, ‘eco-sostenibile’: deve poter essere ammortizzata e sostenuta dall’ambiente sociale. Non deve presentare costi troppo alti, inutili dispersioni e sprechi ma deve essere utile a mantenere e costruire il tessuto sociale.
E in questo tipo di processo tutti sono resi collettivamente ‘partecipi’ e ‘responsabili’: chi controlla, chi scrive, chi legge, chi censura. Tutti collaborano (o dovrebbero) funzionalmente alla costruzione di un intento comune. Ma allora, per citare Gaber, davvero libertà è partecipazione ? Oppure la partecipazione attiva è davvero sinonimo di libertà?
In una società in continua fase di ‘ammodernamento’ come quella cinese, qual è il posto riservato alla libertà individuale, qual è lo spazio in cui è possibile comunicare ‘liberamente’ opinioni, fatti e riflessioni? E soprattutto, in ottica pragmaticamente cinese, qual è l’utilità sociale di un simile processo?
La risposta a questa domanda, per quanto scomoda e fastidiosa, fornisce un punto di vista nuovo: in Cina non ci si deve chiedere se la censura sia moralmente ‘giusta’ o ‘sbagliata’, ma se sia ‘socialmente necessaria’. Non ci si deve interrogare sulla possibilità di una totale libertà d’espressione, ma sulle regole del contesto in cui questa libertà possa venire esercitata o chiamata in causa.
Del resto anche l’informazione, citando Emma Lupano, deve ‘servire il popolo cinese’: sul come dovrebbe farlo, se ne potrebbe discutere.
Post di Rita Barbieri pubblicato su China Files e ripreso dietro autorizzazione.