La strategia africana degli U.S.A. sembra aver registrato, negli ultimi anni, l’evoluzione più significativa, sul piano quantitativo, ma soprattutto sul piano qualitativo, dai tempi della guerra fredda.
La nuova proiezione statunitense in Africa
Dalla creazione di AFRICOM, comando unificato per le operazioni in Africa, istituito dall’amministrazione Bush ed entrato a pieno regime poche settimane prima del successo elettorale di Obama, l’impegno, pur sotterraneo e parcellizzato sul terreno, dell’intelligence e dei militari statunitensi nel continente ha conosciuto un’escalation costante, sebbene poco evidente.
Si è giunti a parlare di “nuova via della seta”, per racchiudere in una definizione storicamente suggestiva, sebbene eccessivamente enfatica, lo stillicidio delle micro-operazioni poste in essere dall’amministrazione U.S.A. negli ultimi anni in Africa.
E’ fuor di dubbio, ad ogni modo, come emerga sempre più, tanto da occupare sempre più spazio sui media di oltreoceano, il crescente impegno statunitense nel continente. Trattasi, in particolare, dell’installazione di diverse basi di sorveglianza aerea poste tra la regione del Sahel e la zona equatoriale, aventi il compito di monitorare, attraverso velivoli di vario tipo, le attività, gli spostamenti e, quindi, le strategie dei diversi gruppi ribelli, islamisti ma non solo, operanti in ampie zone dell’Africa Sub-sahariana.
Alla radice di questa significativa evoluzione vi è senza dubbio l’attuale momento storico che vede, come in pochi altri passaggi storici, la ridefinizione delle priorità della politica estera e di difesa U.S.A., dopo il recente ritiro militare dall’Iraq, il prossimo addio all’Afghanistan e il crescente disimpegno dal continente europeo. Uomini e risorse, quindi, liberi da impiegare in nuove e più attuali missioni ed operazioni. Il tutto inserito in un quadro caratterizzato da importanti tagli al budget U.S.A. destinato alla difesa.
Perché l’Africa? E con quali obiettivi?
Il primo elemento che emerge alla nostra attenzione è senza dubbio l’attività globale di contrasto al terrorismo di matrice islamica. In tal senso, l’attuale politica di difesa e di intelligence dell’amministrazione U.S.A. si pone in perfetta continuità con le precedenti amministrazioni, soprattutto a partire dalle azioni terroristiche compiute, dalle organizzazioni islamiste nel continente africano negli anni ’90.
Ad ogni modo è un fatto che agli inizi del nuovo millennio la presenza militare degli U.S.A. nel continente africano era ridotta quasi a zero, riflettendo il progressivo disinteresse degli U.S.A., come delle altre grandi potenze occidentali, per un’area non più teatro del confronto-scontro bipolare della guerra fredda. Ed è probabile, altresì, che l’attuale presenza U.S.A. nelle sue diverse forme e modalità stia raggiungendo livelli paragonabili, se non superiori, a quelli che caratterizzarono proprio il periodo del confronto tra i due blocchi.
E’ fuor di dubbio, tuttavia, come i recenti sviluppi registratisi in tal senso, a partire dalla situazione somala, passando per la crescente minaccia costituita da AQMI (Al Qaeda nel Maghreb Islamico) in Nord-Africa e nel Sahel, sino ai recenti strascichi del conflitto libico, crisi maliana in primis, senza dimenticare l’escalation di Boko Haram in Nigeria, abbiano condotto i vertici militari e dell’intelligence U.S.A. quanto meno a più di una riflessione, se non ad un ripensamento, in merito alla propria politica ed alle proprie strategie nel continente africano.
E se nello scorso decennio Washington ha concentrato i suoi sforzi, soprattutto militari, contro l’estremismo islamico nella regione medio-orientale, e se, indubbiamente, tale zona occupa tuttora un ruolo centrale nella strategia militare statunitense, nondimeno oggi l’Africa costituisce, in tal senso, un’area di un’importanza strategica sempre più rilevante.
African solutions for African challenges?
Venendo alle modalità mediante le quali la strategia statunitense trova attuazione, nelle parole del comandante di AFRICOM, il generale Carter F. Ham, viene posta ripetutamente l’enfasi sul ruolo pressoché esclusivo di supporto svolto dagli U.S.A. rispetto ai partner africani, sottolineandosi diverse volte come l’impiego di grandi forze sul campo venga ritenuto non positivo ed anzi controproducente: “A large, permanent military presence in the continent of Africa, I think, is not what any of us desired”. In tal senso il comandante Ham cita, quale modello positivo, l’attuale missione dell’Unione Africana in Somalia (AMISOM), supportata dagli Stati Uniti sul piano logistico, dell’intelligence e dell’addestramento militare.
Ma il ripetuto accento posto sul ruolo di supporto svolto dagli U.S.A. in Africa e la correlata ed affermata consapevolezza dei possibili effetti negativi di una presenza militare attiva, nei vari luoghi sensibili per gli interessi di Washington, si scontra con l’attualità di un impegno che vede, in realtà, un impiego relativamente vasto di uomini e mezzi.
In altri termini, il reiterato motto “African solutions for african challenges” affermato da Obama sin dal celebre discorso di Accra del 2009, sembra null’altro che una retorica dichiarazione di intenti, a fronte di un accresciuto impegno militare nel continente.
Un impegno, ad ogni modo, perfettamente al passo con i tempi, incentrandosi su quella concezione della politica di difesa “offshore” dell’amministrazione statunitense, sempre meno caratterizzata da mega-basi, simili a cittadelle fortificate, e da presenze massicce di uomini concentrate in determinati Paesi, e sempre più connotata, al contrario, dall’ampio utilizzo dei mezzi navali ed aerei, e da un utilizzo rilevante di tecnologie molto avanzate. Una concezione mirabilmente descritta, pochi mesi or sono, da Tom Engelhardt su tomdispatch.com, dove venivano significativamente illustrati alcuni dei caratteri dell’attuale politica di difesa “offshore” dell’amministrazione U.S.A. Interessante, in particolare, appare la riflessione sulla sempre minore rilevanza attribuita alle frontiere nazionali, come l’eclatante esempio dell’operazione che ha condotto all’uccisione di Bin Laden dimostra in maniera evidente.
Ma è proprio l’escalation delle operazioni di questo tipo, aeree in particolare, attraverso l’utilizzo dei famigerati droni in medio oriente, Pakistan e Yemen in particolare, che solleva una questione di centrale e vitale importanza per il successo della strategia di Washington.
Nei due Paesi sopra citati, infatti, e nello Yemen in particolare, il massiccio e crescente ricorso agli aerei telecomandati per omicidi mirati ha recentemente prodotto un incremento dei sentimenti anti-americani e, per converso, un notevole aumento di popolarità per i gruppi qaedisti ivi operanti.
Di qui l’estrema cautela ed il riserbo tenuto sinora dall’amministrazione U.S.A. in merito alle nuove operazioni militari e di intelligence condotte in diversi paesi africani, e sub-sahariani in particolare, per quanto le stesse si limitino, ad oggi, a compiti di monitoraggio e sorveglianza, ad eccezione del caso somalo.
L’Africa vista da Washington
Non vanno sottaciuti, in tal senso, anche i persistenti contrasti tra i diversi rami dell’amministrazione U.S.A. e in particolare tra la Difesa e il Dipartimento di Stato: basti citare il caso della politica degli attacchi nello Yemen o, per restare nel continente africano, il complesso dibattito interno relativo alle recenti evoluzioni di Boko Haram in Nigeria e all’eventuale opportunità per gli U.S.A. di inserire tale movimento nella lista delle organizzazioni terroristiche.
Al centro di tale dibattito sta, innanzitutto, l’analisi sulla natura e gli obiettivi dei diversi gruppi, variamente afferenti al radicalismo religioso, per lo più islamico, operanti nel continente africano. Non appare, infatti, unanime il convincimento che tali gruppi pongano tutti serie minacce agli U.S.A. e agli interessi globali di Washington. Boko Haram, in particolare, ha sinora colpito in quasi tutti i suoi attentati obiettivi locali, regionali o nazionali.
Più in generale, diverse voci del Dipartimento di Stato hanno ammonito sui rischi di una sempre maggiore militarizzazione della presenza U.S.A. nel continente africano e sui correlati rischi di effetti controproducenti in termini di popolarità e quindi di stabilità degli stessi regimi amici di Washington.
[Nota: l’articolo originale di Silvio Favari è apparso su Equilibri.net e ripreso dietro autorizzazione].