Bambini con il fucile, dall’Africa al resto del mondo

Usare i bambini per combattere, uccidere ed essere schiavi. E anche le bambine, in Africa come in Russia.
È uno dei peggiori crimini contro l’umanità. Il numero esatto è impossibile calcolarlo, ma bambini – a volte anche di soli nove anni – imbracciano fucili in troppi angoli del mondo.

L’Africa detiene il primato, ma bambini soldato sono coinvolti in conflitti e guerriglie in Afghanistan, Bangladesh, India, Indonesia, Nepal, Filippine, Tailandia. E poi in Medio Oriente: Iran, Iraq, Israele, i Territori Occupati e in gruppi tribali nello Yemen. Nell’America Latina, in Colombia, si calcola che almeno 14.000 bambini combattano in organizzazioni politiche armate e paramilitari. E anche l’Europa non si distingue in meglio. Secondo Child Soldiers International, ragazzi al di sotto dei 18 anni sarebbero utilizzati in Turchia e in gruppi armati nella Repubblica Cecena.

Quasi tutti i Paesi del mondo sono coinvolti e persino l’Australia, dove non è previsto l’arruolamento obbligatorio, consente comunque ai ragazzi di 17 anni di arruolarsi volontariamente. Mentre nel Regno Unito l’arruolamento volontario è possibile già dai 16 anni di età. Qui l’ultimo Global Report (che risale al 2008) a cura della Coalizione per fermare l’uso dei bambini soldato. Vi sono anche inserite le norme e i Trattati internazionali che vietano l’uso dei bambini e ragazzi di meno di 18 anni nelle forze armate.

In questo quadro la Birmania è un caso particolare perché qui è la stessa giunta militare, che ha guidato il Paese dal 1962 (anno del colpo di Stato) al 2010 quando sono state indette le prime elezioni democratiche, ad armare i ragazzi al di sotto dei diciotto anni. Alcuni ragazzi hanno raccontato di essere stati costretti a mentire sulla loro età e a dichiarare il falso nel formulario per il reclutamento militare. Le numerose e massicce proteste da parte delle Organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti dell’Infanzia e nella protezione dei diritti umani, hanno portato a un risultato. Seppure si aspetta a cantare vittoria.
Qualche giorno fa il Governo di Burma ha siglato un accordo con il coordinatore regionale delle Nazioni Unite e il rappresentante dell’Unicef. The Joint Action Plan prevede l’immediato rilascio di ragazzi in uniforme al di sotto dei diciotto anni, non solo da parte del Governo ma anche di gruppi etnici armati. Prevede inoltre l’impegno ad abolire l’utilizzo di ragazzi ancora non diciottenni nell’esercito.

Ma, come dicevamo, c’è chi non è convinto che il Piano sarà realmente implementato. “Non credo che smetteranno di usare bambini nelle forze militari. Anzi, stanno continuando a reclutarli” ha detto l’attivista e avvocato Aye Myint, che da tempo conduce la sua battaglia per liberare i ragazzi finiti con un fucile tra le mani. Grazie alla sua collaborazione con l’International Labour Organization, negli ultimi cinque, sei anni almeno 10.000 bambini sono “tornati in libertà”. Eppure sono ancora troppi i ragazzi che prestano servizio nel Tatmadaw, l’esercito birmano. Quale può essere la strada per fermare questi terribili abusi? Forse si potrebbe cominciare da quella che porta al guadagno. Ed evitare di alleggerire le sanzioni ancora in vigore, che permetterebbero ad imprese occidentali di investire in un Paese che ha tanto in spregio i diritti umani.

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Eppure tale crimine continua ad essere associato quasi esclusivamente all’Africa. Almeno nell’immaginario collettivo. Forse anche per i famigerati warlord e perché al momento tutte le indagini della Corte Penale Internazionale, riguardano crimini compiuti in sette Paesi africani: Repubblica Centrafricana, Costa d’Avorio, Repubblica Democratica del Congo, Darfur, Sudan, Uganda, Kenya, e Libia. Tra i crimini, il rapimento di bambini e bambine, la loro riduzione in stato di schiavitù e l’obbligo a partecipare ad azioni di guerriglia.
Inoltre, va ricordato che tra i venti mandati di arresto rilasciati dalla Corte c’è anche quello nei confronti di Joseph Kony leader dell’LRA (Esercito di Liberazione del Signore) in Uganda. Ed è stato anche un africano il primo imputato della CPI, il congolese Thomas Lubanga, fondatore e leader del gruppo ribelle filo-ugandese dell’Unione dei Patrioti Congolesi (UPC) e figura chiave nella Seconda Guerra del Congo, teatro di sistematiche violazioni dei diritti umani. Tra le accuse che gli sono state rivolte quella di “aver coscritto e arruolato bambini sotto l’età di 15 anni e averli utilizzati per partecipare attivamente alle ostilità“. Lubanga è stato processato in primo grado lo scorso marzo e il nuovo verdetto è atteso per il 10 luglio.

Inoltre, dal 24 novembre 2009 si sta svolgendo il processo a Germain Katanga e Mathieu Ngudjolo Chui (Repubblica Democratica del Congo), accusati di reclutare bambini al di sotto dei 15 anni per utilizzarli in azioni di guerriglia contro civili disarmati, di stupro, omicidio e riduzione in schiavitù. Qui, l’elenco dei procedimenti in corso alla CPI.

Se le condanne potessero bastare e fare da esempio, allora basterebbe anche accelerare i processi, ma è chiaro che non è così.

Antonella Sinopoli

Giornalista professionista. Per anni redattore e responsabile di sede all'AdnKronos. Scrive di Africa anche su Nigrizia, Valigia Blu, Ghanaway, e all'occasione su altre riviste specializzate. Si interessa e scrive di questioni che riguardano il continente africano, di diritti umani, questioni sociali, letteratura e poesia africana. Ha viaggiato molto prima di fermarsi in Ghana e decidere di ripartire da lì. Ma continua ad esplorare, in uno stato di celata, perenne inquietudine. Direttore responsabile di Voci Globali. Fondatrice del progetto AfroWomenPoetry. Co-fondatrice e coordinatrice del progetto OneGlobalVoice, Uniti e Unici nel valore della diversità.

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