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Volontari in Palestina: che cosa ci faccio io qui?

[Nota: traduzione di Gaia best writing paper Resta dall’articolo originale di Tanzil Chowdhury apparso su openDemocracy]

È molto difficile non mettere online canadian pharmacy in discussione l’importanza del proprio lavoro in un conflitto apparentemente irrisolvibile come quello israelo-palestinese, un conflitto la cui fine sembra sempre più lontana. Nei territori occupati, cittadini di tutto il mondo lavorano o prestano la propria opera come volontari, un motivo per cui ONG di buoni propositi si ritrovano semplicemente a porre soluzioni a breve termine ai problemi di queste aree, sostenendo involontariamente il perdurare del conflitto. Ho lavorato in un campo profughi e attualmente sono un volontario per un ente che si occupa del gemellaggio tra le scuole, quindi anch’io mi trovo ad affrontare questo dilemma esistenziale.

I volontari internazionali che lavorano in Palestina e gli enti a sostegno della Palestina in Israele (come Adalah ad Haifa) sono riusciti a sensibilizzare la gente circa l’austerità dell’occupazione e dello spossessamento subito dai palestinesi.

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Sono vari i ruoli a cui si può aspirare, ma in genere sono di natura “logistica”. Per esempio, quelli che riguardano la condivisione delle conoscenze (scambi di insegnanti tra scuole gemellate, come il lavoro che svolgo io), il monitoraggio dei diritti umani (per B’tselem, Amnesty International), il lavoro umanitario (per MSF e MAP), il giornalismo sul campo e le azioni dirette non violente (ISM e ICAHD). L’effetto provocato da questi progetti è il diffondersi di un senso di solidarietà, che fuor di metafora abbatte i muri dell’occupazione e apre alla globalità la lotta di un popolo isolato. Gli enti che lavorano sulla condivisione di competenze relative all’istruzione sono forse quelle più accessibili ai giovani volontari.

Con infrastrutture così fragili e indebolite dall’assedio dell’occupazione, i volontari in Cisgiordania e a Gaza costituiscono una risorsa per i palestinesi, in quanto portatori di conoscenza e nuove idee. L’obiettivo di queste missioni è di offrire le proprie competenze, in modo tale che i volontari, una volta arrivati in Palestina, chiedano “Come possiamo essere d’aiuto?”, e non dichiarino “Ecco come vi aiuteremo.” Può la presenza dei volontari comportare un danno? Quale effetto producono sulla realtà?

La domanda è sorta durante un progetto per il quale sto lavorando. Un insegnante, ateo convinto che aveva visitato le scuole, desiderava discutere, se non contestare – anche se animato da buone intenzioni – l’esistenza di Dio. Non è una novità che la società palestinese sia pervasa dalla religione e dall’identità religiosa. Alcuni scelgono di vivere privatamente la propria fede, senza che la religione influenzi il lavoro o l’attivismo sociale. Altri ritengono che la loro religione costituisca la base per la liberazione e un modello per la futura organizzazione sociale e politica. Grazie all’impegno dell’ala studentesca dei partiti islamici, tra gli altri, si sta diffondendo un notevole consenso culturale che porta la religione al centro della politica in maniera molto seria. I palestinesi discutono di questi argomenti in un modo sano e aperto, nei bar così come nelle università, e persone da tutto il mondo prendono parte alla discussione. Tenendo a mente questo contesto, il volontario straniero che fa la predica ai bambini palestinesi sui meriti dell’ateismo, li sta educando o invece sta utilizzando il canale dell’istruzione per promuovere le proprie opinioni e tentare di cambiare le persone?

Una cosa è certa: il concetto di base che unisce tutti gli attivisti non palestinesi è la consapevolezza del diritto inalienabile dei palestinesi all’autodeterminazione, in quanto solo loro possono decidere del loro futuro e come raggiungere il loro obiettivo, più simile in realtà a un bersaglio mobile. Questo si traduce nel fatto che noi volontari stranieri, sosteniamo persone con opinioni radicalmente lontane dalla nostra morale. Bisogna ricordare che il lavoro di un volontario non si basa sulla coincidenza delle opinioni, ma sull’empatia verso gli oppressi. Quindi è nostro dovere uscire dal terreno del dibattito politico, quando prestiamo il nostro operato, anche se può risultare difficile.

A questo si può arrivare, per esempio, cercando di non lanciarsi in dibattiti sui temi sociali. Forse la cosa più difficile da capire per i volontari stranieri è che il loro ruolo non consiste nel portare avanti la loro idea di progetto di liberazione, ma di fornire esclusivamente supporto logistico. I contributi di tipo politico in Palestina sono pervasi da un sentimento di superiorità morale e quindi non aiutano la soluzione del conflitto. Sebbene tutto questo possa essere difficile da accettare, i volontari internazionali devono comprendere che i loro sforzi per raggiungere la liberazione diventano più efficaci se si lavora fuori dalla Palestina. Bisognerebbe aiutare dall’esterno, facendo pressione sui nostri Paesi e Governi.

Detto ciò, l’insegnante ateo si trovava nella posizione di poter fare proseliti circa l’esistenza di Dio? Ovviamente la risposta è no, in quanto ciò viola i principi di autodeterminazione del popolo palestinese ed entra in una sfera nella quale non abbiamo diritto di entrare. Il nostro obiettivo è quello di sostenere coloro che promuovono il pensiero critico e accelerano il processo di liberazione, non di cambiare le persone. Le aule non sono luoghi in cui trasmettere messaggi demagogici e in cui mettere in discussione la saggezza tradizionale.

Le discussioni sui temi religiosi o sociali (come l’omosessualità) dovrebbero riguardare solo i palestinesi e non i volontari internazionali. È un loro dovere di cittadini, non nostro – e Al-Qaws, l’organizzazione palestinese LGBTQ dimostra che queste discussioni sono in corso nel Paese. Dobbiamo riconoscere che anche noi mettiamo in atto un’occupazione, quando occupiamo metaforicamente le aule o gli altri luoghi in cui i volontari prestano servizio.

In sostanza, il nostro lavoro come volontari dovrebbe puntare a risolvere l’asimmetria provocata da “soluzioni” imposte dall’alto, lavorando insieme ai palestinesi per il rafforzamento delle loro comunità. Dovremmo evitare di sentirci moralmente superiori e accettare che gli unici obiettivi per noi raggiungibili sono quelli a breve termine. Qualsiasi contributo significativo sul lungo termine – da parte di uno straniero – non può che arrivare dall’estero.

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