A più di un anno dallo scoppio della rivolta popolare che ha dato il via alla primavera araba, la Tunisia deve affrontare ancora un’altra difficile sfida. A minacciare il (di per sé) complesso iter di normalizzazione e democratizzazione gradualmente in atto nel paese è la profonda crisi economica ereditata da decenni di corruzione del regime benalista e aggravata dal recente clima di instabilità interna. Peraltro, la destituzione di Zine el-Abidine Ben Ali, anziché migliorare le cose, ha acuito le incognite su quello che sarebbe stato il futuro socio-politico nazionale, inducendo di fatto numerosi investitori e aziende straniere ad abbandonare il mercato tunisino. Con le ovvie e immediate conseguenze in termini di aumento della disoccupazione e diminuzione del tasso di crescita del Pil. Dalle storiche elezioni – le prime democratiche della sua storia – dello scorso 23 ottobre, Tunisi ha cercato di riorganizzarsi e avviare il rilancio del Paese a cominciare proprio dal settore economico. Il recupero dell’economia tunisina è non solo una delle manovre maggiormente attese dal nuovo governo, è in particolare il principale banco di prova su cui misurare la capacità del partito leader, al Nahda, di guidare, in senso moderno e realmente democratico, il passaggio a una nuova Tunisia. Il movimento di ispirazione islamica guidato da Ghannouchi promette di dare priorità assoluta alla questione economica, facendo affidamento anche sui tradizionali valori morali e religiosi, ma assicura al contempo che questo non comporterà alcuna trasformazione del paese in senso secolare. Il fatto che proprio in Tunisia stia avvenendo la prima, più veloce e più facile transizione del mondo arabo lascia ben sperare. Il primato e l’eccezionalità del caso tunisino rimane dunque un fattore incoraggiante, nonostante il quadro macroeconomico attuale rimanga piuttosto allarmante.
Criticità del quadro macroeconomico
Inevitabilmente gli eventi dello scorso anno hanno prodotto effetti negativi sul sistema finanziario e commerciale tunisino, con probabili ripercussioni procrastinabili almeno fino al 2013. In generale, tutte le attività economiche localizzate nel paese hanno risentito dell’ondata di proteste, scioperi e sit-in nelle fabbriche che hanno accompagnato la transizione – per quanto ordinata – dalla caduta della dittatura benalista, attraverso il governo provvisorio, fino alle elezioni democratiche. Si stima che, dal gennaio del 2011, la Tunisia abbia registrato perdite per almeno 8 miliardi di dollari. La crisi ha investito ogni comparto strategico dell’economia nazionale, dai servizi, all’agricoltura e alla pesca. In calo anche il turismo, una delle principali voci del Pil, le cui entrate sono diminuite lo scorso anno del 33% rispetto all’anno precedente. Lo stesso dicasi per gli investimenti domestici ed esteri. Questi ultimi, in particolare, secondo i dati diffusi dal Fondo Monetario Internazionale, solo nel biennio appena passato, avrebbero subito una contrazione del 29,2%, passando dal valore di 2 miliardi e 147 milioni a un miliardo e 711 milioni nel 2011.
E il dato è ancora più preoccupante se lo si associa alla chiusura di circa 150 aziende straniere operanti sul territorio, scoraggiate dall’instabilità sociale e dai rischi alla propria sicurezza. Né, ancora una volta a causa delle proteste dei lavoratori, il paese ha potuto approfittare della crescente richiesta di minerali (e del relativo aumento dei prezzi) da parte del mercato asiatico, soprattutto per quanto riguarda la produzione di fosfati. Complessivamente negativo, quindi, il ritmo di crescita del paese che, nonostante una breve impennata del Pil dell’1,2% – dovuta a un’ottima performance del settore agricolo nell’alta stagione -, ha altresì subito gli effetti della crisi dell’Euro e, dunque, di un calo dell’interscambio con l’Unione Europea, uno dei suoi principali partner commerciali. In conclusione, il 2011 si è chiuso con una sostanziale stagnazione del Pil, rispetto a un tasso di crescita dell’anno precedente assestato al 4%. A tutto ciò si aggiungano fattori critici propriamente strutturali dell’economia tunisina, quali la forte corruzione e il clientelismo a tutti i livelli di potere e la scarsa elasticità del mercato del lavoro. Senza tralasciare l’iniqua distribuzione di ricchezza sia a livello sociale che geografico-territoriale (essendo le zone costiere molto più avanzate e ricche di quelle interne, ancora fortemente rurali). Come se non bastasse, con circa 700.000 persone senza lavoro, anche la disoccupazione è a livello di allarme: dal tasso del 13% del 2010 si è raggiunta la soglia del 16,3% nell’anno appena trascorso.
Misure d’urgenza e riforme necessarie
A fronte di un quadro economico così compromesso, il Governo, guidato dal primo ministro Hamadi Jebali, ha già adottato le prime misure precauzionali. Massima attenzione è stata riservata anzitutto al problema della disoccupazione per la cui soluzione si è fatto ricorso a provvedimenti e correttivi sia di breve che di medio-lungo termine. Al di là dell’immediata destinazione di un sussidio ai giovani diplomati, è affidata soprattutto all’attuazione di un imponente piano di finanziamenti al settore pubblico la finalità di riassorbire parte dell’ampia disoccupazione strutturale e la predisposizione di nuovi posti di lavoro. La strategia approntata dal nuovo esecutivo punta altresì al sostegno finanziario internazionale, con riscontri fino ad ora positivi.
Invero, in occasione dell’ultimo vertice del G8, tenutosi a Deauville, è stata già accreditata alla Tunisia una prima tranche di aiuti, da condividere con l’Egitto, pari a circa 40 miliardi di dollari, ripartiti tra stati membri del G8 (10 miliardi), organizzazioni economiche multilaterali, quali ad esempio la Banca Mondiale e la Banca Islamica di Sviluppo (20 miliardi) e Paesi del Golfo (10 miliardi). Un ulteriore finanziamento di 400 milioni di euro è atteso da parte dall’Unione Europea. Accordi bilaterali sono inoltre stati conclusi con altri governi, primi tra tutti Stati Uniti e Turchia, recentemente impegnatisi a elargire in favore di Tunisi rispettivamente investimenti e crediti per il valore di 100 e 500 milioni di dollari.
Ma perché i finanziamenti esteri vengano gestiti senza sprechi e inefficienze è soprattutto essenziale una radicale trasformazione della società tunisina. La rottura con il recente passato rappresenta, infatti, il primo passo in direzione della rinascita del paese. In proposito, il partito islamico al Nahda ha dichiarato di volersi concretamente impegnare nella lotta a ogni forma di corruzione e nella realizzazione di forme di governance che garantiscano il rispetto dei principi di trasparenza ed efficienza. E ha annunciato tra le priorità ormai indifferibili la ristrutturazione del sistema bancario, l’ammodernamento delle infrastrutture locali e la riforma del mercato del lavoro.
Prospettive future di ripresa
Il governo tunisino si pone obiettivi ambiziosi e promette una crescita del Pil intorno al 4,5% a partire già dal prossimo anno. Il moderato e discontinuo recupero raggiunto nel quarto trimestre del 2011 – in concomitanza con l’avvio della graduale stabilizzazione interna – ha certamente prospettato margini di positività ma, perché una ripresa sia davvero possibile, Tunisi deve anzitutto tornare rapidamente ad attrarre capitali dall’estero. Del resto, nonostante il contesto socio-politico interno rimanga ancora confuso e relativamente precario (soprattutto in vista delle future elezioni presidenziali e parlamentari attese a giugno del prossimo anno), permangono nondimeno condizioni favorevoli agli investimenti stranieri. La Tunisia garantisce, infatti, accesso libero al mercato dell’Unione Europea, ampia disponibilità di manodopera qualificata e a basso costo, un sistema economico liberale e un apparato amministrativo semplificato e in continuo miglioramento. Una recente normativa, entrata in vigore nel 2007, prevede altresì una serie di incentivi e tagli fiscali in favore di tutte le aziende estere interessate a investire nei vari comparti economici nazionali, specialmente nelle aree disagiate. Senza tralasciare che il sistema bancario e finanziario tunisino, peraltro in fase di ulteriore ristrutturazione, rimane uno dei più avanzati del Maghreb e dell’Africa, in generale.
Non a caso, il Fondo Monetario Internazionale prevede che l’aumento del Pil tunisino possa raggiungere entro il 2016 persino la soglia del 7%. Tuttavia, nonostante si intravedano le potenzialità indispensabili a generare questo eccezionale risultato, l’effettivo rilancio del sistema economico nazionale dipende in larga misura dalla concreta (e corretta) attuazione delle linee di politica economica annunciate da al Nahda. Il piano di riforme pensato da Tunisi appare consapevole dei limiti, degli elementi di debolezza interni e dei preoccupanti segnali di continuità con il passato. Tra i nodi più problematici per la nuova Tunisia residua la rigidità del mercato del lavoro: una disoccupazione molto diffusa specialmente tra le fasce giovanili e istruite (pari al 25% di coloro che sono in possesso di un titolo di studio superiore) e la scarsità di sbocchi occupazionali, unitamente a un sistema educativo alquanto antiquato, rendono il quadro ancora più complesso.
Ad ogni modo, la variabile principale resta il ritorno a una situazione socio-politica stabile, condizione necessaria al ripristino di un clima di fiducia interno e internazionale e, quindi, all’incoraggiamento degli IDE. La Tunisia si trova a scontare purtroppo anche una congiuntura economica internazionale – caratterizzata dal rallentamento dell’eurozona -, particolarmente sfavorevole al suo recupero. I legami commerciali con l’Europa, soprattutto con Francia, Italia e Spagna, sono comunque storicamente forti ed è probabile che non subiranno ulteriori scosse. Ciò che è di difficile previsione è invece quale sarà il definitivo assetto della società tunisina dopo le elezioni e l’orientamento che il partito islamico attualmente al potere saprà dare al paese.
[Nota: l’articolo originale di Gabriella Isgrò è apparso su Equilibri.net e ripreso dietro autorizzazione].