Almeno 10.000 morti, 20.000 scomparsi, 100.000 profughi, 10.000 mutilati. Sono cifre ufficiali ma incomplete. Impossibili da verificare al momento. Molto probabilmente cifre approssimative per difetto.
Sono i numeri che fanno intendere la drammatica situazione in Siria, dove la popolazione ormai da più di 13 mesi è ostaggio della reazione violenta del regime di Bashar al-Assad.
Ma sono anche i numeri della rivolta e, guardando avanti, della speranza che il massacro e il sacrificio possa servire a cambiare la storia del Paese.
La recente Risoluzione votata dall’Onu (finalmente superando il parere contrario di Cina e Russia) che ha autorizzato l’invio di 300 osservatori per tre mesi non rassicura i siriani preoccupati che ai rappresentanti delle Nazioni Unite venga impedito il movimento libero nel Paese e dunque l’accesso a informazioni non pilotate dagli uomini di Assad. La situazione, nonostante il cessate il fuoco firmato l’11 aprile scorso, non è tornata alla calma e anzi le armi non hanno mai spesso di sparare.
In questa timeline di Al Jazeera sono raccolti e sintetizzati gli eventi che hanno caratterizzato questa lunga “Primavera siriana”: dal 15 marzo 2011, “Giorno della dignità” quando scoppiarono le proteste a Damasco – poi diffuse in altre città – con la richiesta del rilascio dei prigionieri politici. Si cominciò quel giorno, con decine di arresti. Si è continuato, con migliaia di morti. A nulla è servita, lo scorso novembre, la sospensione della Siria dalla Lega Araba e il riconosimento da parte di quest’ultima del Consiglio Nazionale Siriano. Il CSN, autorità politica in esilio dall’inizio delle sommosse, è finora stato riconosciuto da una trentina di Paesi.
Al di là di quanto potranno fare e incidere gli osservatori dell’ONU, la testimonianza e la denuncia rimangono ancora affidate ad Organizzazioni non governative, come Amnesty International e agli attivisti locali. Negli ultimi 15 mesi Amnesty ha pubblicato cinque Rapporti sulla violazione dei diritti umani in Siria. Rapporti che sono stati elaborati soprattutto sulla base delle testimonianze dei rifugiati nei Paesi confinanti, Turchia, Libano e Giordania. I cinque Rapporti riguardano la tortura (inflitta con 31 metodi diversi); i maltrattamenti subiti negli ospedali da persone ferite negli scontri di piazza, ma anche le pressioni a cui sono sottoposti medici e infermieri, minacciati e costretti a negare le cure ai feriti o, addirittura, peggiorare il loro stato; la morte nelle carceri, in condizioni poco chiare. Gli altri due Report riguardano la situazione a Tell Kalakh, particolarmente presa di mira dalla reazione del regime e le violenze, psicologiche o anche fisiche, nei confronti dei familiari all’estero di persone coinvolte nelle proteste.
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Altra voce, forte e impavida, è quella degli attivisti in loco. I social network, se da un lato aiutano il governo siriano a monitorare e individuare chi partecipa alle proteste, tengono comunque viva l’attenzione all’estero su quanto accade.
“Negli anni Ottanta – ci spiega Aya Homsi, attivista siriana che vive in Italia – non esistevano i social media e non esisteva Al Jazeera e così il padre di Assad attuò la sua repressione, con migliaia di vittime, nel silenzio più totale“.
Aya amministra il Gruppo Facebook Vogliamo una Siria libera e spiega: “ci sono casi in cui l’identità delle persone va tenuta riservata così come stiamo attenti a non svelare gli intrecci familiari e le parentele. Un modo per tentare di tutelare le persone impegnate nella protesta in Siria o nell’organizzare manifestazioni di solidarietà qui in Italia come altrove“. Aya cita le parole di un amico morto poco tempo fa: “Tenete gli occhi aperti perché ora si chiuderanno i miei” e nelle brevi battute di questo video sottolinea quanto sia importante restare in contatto con le persone che stanno lottando laggiù e fare la propria parte laddove si vive.
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Ogni piccolo gesto ha valore per chi lì rischia la morte ogni volta che scende in strada a manifestare, dice Aya che qualche sera fa, insieme alla presidente della Sezione italiana di Amnesty International ha preso parte ad un incontro organizzato in un piccolo comune dell’Appennino bolognese – Monghidoro – da una organizzazione, il Tarlo, che lavora in loco per diffondere cultura e informazione.
Nel corso della serata è stata avanzata la proposta di farsi carico di un intervento presso il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che solo due anni fa ha insignito Bashar al-Assad dell’onoreficenza di “Cavaliere di gran croce decorato di gran cordone dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana”. “Siamo indignati e ci vergognamo del fatto che Napolitano non abbia ancora ritirato quest’onorificenza” ha detto qualcuno in sala. Un’opinione condivisa da molti ormai. Lo stesso Consiglio comunale torinese aveva pensato di intervenire chiedendone la revoca. Qualcuno ha anche aperto una
Intanto in Siria la lotta va avanti senza sosta e senza sosta proseguono le sparizioni e gli arresti degli attivisti.