Patagonia, la rivolta di Aysén e i movimenti cittadini
Aysén è una delle ultime regioni del Sudamerica. È Patagonia, Patagonia cilena. Silenziosa quanto pacifica ma dove i suoi abitanti non si arrendono facilmente davanti agli ostacoli, il primo di questi è il rigido clima che tempra la vita quotidiana durante tutto l’anno. Essi pensavano di doversi battere soprattutto per la preservazione del territorio contro la indiscriminata costruzione di nuove centrali idroelettriche che stanno massacrando non solo il paesaggio del Sud, ma che minano anche una risorsa mondiale di ossigeno rinnovabile in cambio di profitti per un paio di multinazionali di energia (fra cui l’italiana Enel).
Invece un mese e mezzo fa ha avuto inizio un altro scontro diretto fra i cittadini e i rappresentanti del governo Piñera. Governo, che fedele alla sua linea, ha fatto orecchie da mercante alle richieste di equità nel trattamento nella gestione regionale delle risorse, ai richiami sulla forte tassazione sui beni di prima necessità, la mancanza di un’università nel territorio, sussidi alle abitazioni e ai trasporti, modifiche sulla legge di pesca e contro il rincaro sulla benzina. Perché la gestione del territorio cileno, molto lungo, stretto e di variegati climi, non supera le politiche di parzializzazione e centralizzazione dell’investimento pubblico sullo sviluppo. Si pensi solo all’inesistenza di una rete ferroviaria che potrebbe unire Nord e Sud. Forse fa comodo non rispondere alle questioni poste dalle regioni soprattutto nell’estremo Sud così come nell’estremo Nord, regioni che però producono introiti che sono preziosi all’ora dei conti nazionali: rame e litio al Nord, pesca e prodotti forestali e agricoli nelle zone meridionali, di esportazione e importazione.
È un fatto invece che i pescatori, i primi a sollecitare l’attenzione e un dialogo concreto con il Governo, facciano molta fatica a sopravvivere e a districare le reti del mestiere quotidianamente, dovendo rispettare l’attuale legge di pesca. Ma la rivolta patagona vede coinvolti i comuni cittadini di una comunità che ha dimostrato di essere molto unita, non solo a causa del numero ridotto di residenti, ma anche per una tradizione di condivisione e solidarietà nel privato come nelle imprese comuni.
Gli autotrasportatori si sono fermati inizialmente quasi un’intera settimana, bloccando l’arrivo di gasolio e provviste. Sulle reti sociali gli abitanti si interpellavano a vicenda per passaggi in macchina per attraversare il ponteggio che li unisce alla strada principale o si organizzavano riserve di cibo specialmente per i bambini e gli anziani. I disagi erano reali per tutti, ma primeggiava la pazienza in attesa di una risposta alle richieste messe sul tavolo delle trattative della Moneda, il Palazzo del Governo, a Santiago.
Nel frattempo compare un uomo che in pochi giorni diventa il simbolo e il mediatore della contesa Patagonia libera e il leader del Movimento per Aysén: Iván Fuentes. Dirigente dell’associazione di pescatori della regione di Aysén, 45 anni circa, una vita di lavori duri e grande capacità di dialogo, discorsi semplici senza peli sulla lingua.
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Fuentes si mette in prima fila quando arrivano con una inattesa irruenza e carica repressiva, almeno per i cittadini non abituati alla violenza, le Forze Speciali dei Carabinieri. In un numero notevolmente eccessivo sia alla densità geografica dove si svolge il conflitto sia alle manifestazioni di dissenso e protesta, in cui inizialmente si vedono in strada manifestanti pacifici, blocchi stradali e poco altro. Ma la miccia si accende e purtroppo la vicenda diventa violenta. Si brucia un bus di Carabinieri, da Santiago si emana la Legge di Sicurezza dello Stato, che aggrava le pene sui presunti agitatori, si arrestano una ventina di persone fra cui casalinghe e lavoratori, si contano centinaia di feriti, molti minorenni, un uomo perde la vista a un occhio e subisce lesioni gravi all’altro. A Coyhaique, capitale della regione, la gente si contatta tramite Internet per accertarsi della incolumità degli altri durante le retate e gli interventi delle forze militari o raccoglie fondi per mandare i feriti all’ospedale di Santiago. I carabinieri negano pubblicamente di aver utilizzato proiettili di piombo contro l’evidenza delle fotografie dei feriti e i video, testimoni gli osservatori dei diritti umani.
I patagoni si lamentano della mancata informazione sui media nazionali, sfidando e esecrando i giornalisti che non arrivano oppure che non raccontano i fatti veri, affidandosi piuttosto a Radio Santa María, un’emittente locale. Sperano nella fine del conflitto ma non demordono, in questo restano uniti sia i residenti che le varie associazioni, anche se qualche attrito compare durante i tavoli di trattativa. Oltre ai pescatori ci sono associazioni che difendono alcune categorie più fragili come gli invalidi o i pensionati, esigendo modifiche al sistema scolastico, modernizzazione delle strutture ospedaliere e delle normative che impediscono alla regione di crescere insieme al resto del Paese. Nonostante la validità delle richieste e la disponibilità al dialogo, le Forze dell’ordine si sono dimostrate spietate, ostacolando persino la strada alle ambulanze, e le forze politiche hanno sottolineato solo il vandalismo di alcuni, interrompendo gli incontri con assenze o rimandi.
Iván Fuentes ha fatto il giro dei media, rilasciando interviste e ribattendo i punti fermi da conseguire, altri volti noti si sono uniti alla campagna Tu problema es mi problema, Aysén también es Chile, patrocinando le sollecitazioni.
A fine marzo, sull’ultimo tavolo si è iniziato l’accordo: bonus casa e legno per le famiglie in difficoltà economiche, diminuzione del sovraccarico di tasse sulla benzina e sulle spedizioni. Ma restano molti punti da trattare a partire della riforma della legge sulla pesca, per attualizzarla e riuscire a beneficiare e a distribuire gli introiti fra i lavoratori e la catena che ci sta intorno. Ad oggi c’è polemica sulla mancata consultazione di gruppi di pescatori che denunciano arbitrarietà sulla proposta nuova che si sta per varare al Congresso. Bisognerebbe operare una vera riforma lungimirante per conservare i fondi marini, rispettare l’habitat e curare lo sfruttamento della produzione ittica e la manutenzione delle coste dopo l’utilizzo, mettendo in campo scienza e tecnologie nell’interesse di un bene comune non solo pasto per capitale straniero o nazionale, si tratta pur sempre di risorse ricche ma esauribili. Fatto sta che nonostante le consulte cittadine l’imposizione delle centrali idroelettriche va avanti.
Una cosa è chiara: la difesa dei diritti e le rivendicazioni su basi reali per un miglioramento degli orizzonti comuni si vogliono raggiungere dal basso e con l’azione dei suoi protagonisti che spesso sono uomini e donne con una lunga storia di lavoro e difficoltà alle spalle. Il governo non sembra essere intelligente e costerà fatica coinvolgerlo ma la meta, qui, diventa proprio la tenacia posta sui diritti di cittadinanza fondati sul dialogo e il riconoscimento delle autonomie e dei saperi.