Dopo la tempesta mediatica la questione Kony resta

[Nota: Traduzione di Giorgio Guzzetta dall’articolo originale di Jasmine-Kim Westendorf apparso su openDemocracy]

Nelle scorse tre settimane, più di 85 milioni di persone hanno visto l’ormai famoso video Kony 2012, disponibile anche con i sottotitoli in italiano.

Una valanga di reazioni negative ha invaso i media: critiche sulle motivazioni di Invisible Children, l’associazione americana che ha sponsorizzato la campagna, proteste perchè il video non riflette la complessità del conflitto in Nord Uganda, rabbia per la richiesta di un intervento militare americano in un paese straniero, indignazione per quello che viene considerato un atteggiamento da “Buon Samaritano bianco“, frustrazione e gelosia da parte di chi lavora e ha lavorato per anni nelle zone coinvolte e si sente offeso dalla definizione di “invisibile”, e preoccupazione per il diffuso comportamento “clicca e  non pensare” di milioni di utenti Facebook a cui “piace” il video, etc.

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=7DO73Ese25Y[/youtube]

Quello che si è perso in questo turbinìo di reazioni è una reale discussione del ruolo devastante che il Lord Resistance Army (LRA) continua ad avere nei conflitti in Africa Centrale, e il ruolo importante che la comunità internazionale potrebbe e dovrebbe svolgere nel fronteggiare la milizia. Non si tratta qui di difendere il video dalle numerosissime e validissime critiche, ma di mettere in risalto aspetti importanti che rischiano di passare sotto silenzio se ci si limita a queste critiche, particolarmente in un momento in cui il dibattito, dopo l’ubriacatura mediatica iniziale, comincia ad interessarsi della questione del “Che fare?”.

Due aspetti problematici non hanno ricevuto l’attenzione che meritavano. Prima di tutto il fatto che il video non descrive accuratamente la situazione attuale, il modo di agire dell’LRA in questo momento e i pericoli per l’Uganda del Nord. Secondo, la tendenza a respingere qualunque discussione su interventi esterni nel conflitto come neo-coloniali o imperialisti.

Non c’è dubbio che il film non mostra la reale situazione dell’Uganda del Nord, il cui sottosviluppo oggi è dovuto più alla negligenza del presidente ugandese Museveni che agli attacchi dell’LRA, e non riesce a cogliere la realtà della devastazione e del terrore che i ribelli di Kony causano alle comunità centrafricane, usando le stesse tecniche di brutalizzazione e mutilazione in passato usate contro gli Acholi dell’Uganda del Nord.

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=3MINTgJ8feI[/youtube]

Dopo il fallimento dell’ultimo processo di pace nel 2006, in gran parte causato all’incapacità del governo di offrire un’amnistia a Kony a causa della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia, il ribelle si è ritirato con il suo esercito nella giungla che costeggia il Sud Sudan, le regioni orientali del Congo e della Repubblicana Centrafricana, una zona molto più sicura. Da allora, l’LRA è diventato una banda di terroristi che agiscono in un’area già colpita da numerose e violente guerre civili, complicando le dinamiche di conflitti preesistenti e destabilizzando processi di consolidamento e la pacificazione già di per sé estremamente fragili, come nel caso del Sud Sudan.

Due settimane fa, migliaia di persone sono fuggite durante una serie di attacchi dell’LRA nelle province orientali del Congo, aggiungendosi ai 320.000 rifugiati (dal 2008). Di questi, 30.000 hanno trovato rifugio nella Repubblica Centrafricana e nel Sud Sudan, paesi che stanno ancora cercando di trovare un equilibrio pacifico dopo decenni di guerra civile, aggiungendo ulteriore tensione per la scarsità di risorse e rischiando di innescare nuovi conflitti. Anche in Sud Sudan gli attacchi dell’LRA si sono fatti sentire, provocando innumerevoli vittime, il rapimento di moltissimi bambini, e la migrazione forzata di 68.000 sudanesi (nel 2009 soltanto), incrementando così in maniera significativa l’insicurezza nel paese.

Certo, è anche vero (come dicono alcuni critici della campagna Kony 2012) che queste cifre impallidiscono al confronto con il numero di morti per malaria e altre malattie facilmente curabili, ma non dimentichiamo che morti e migrazioni di questo livello, che per di più sono dovute alla violenza di un gruppo di bambini soldato guidati da un brutale signore della guerra, non rappresentano solo un rischio significativo dal punto di vista militare, ma un enorme problema umanitario in una regione già sofferente di per sé.

Questo ci porta al secondo problema sollevato dai critici di Kony 2012, i quali respingono l’idea di un coinvolgimento internazionale nella cattura di Kony come una forma di neocolonialismo motivato dal complesso del “Buon Samaritano bianco”, o dal desiderio di mettere le mani sul petrolio ugandese, la cui presenza è stata scoperta recentemente.

I disastrosi interventi in Afghanistan ed Iraq fanno si che qualsiasi ipotesi di intervento militare in paesi stranieri venga immediatamente bollata come neocoloniale e interessata. Per cui si tende sempre a rifiutarla aprioristicamente.

Il problema di un simile atteggiamento è l’opposizione a qualsiasi discussione su possibili interventi in qualsiasi contesto e forma. Si rischia quindi di annullare anni di sforzi collaborativi a livello internazionale che hanno creato norme e leggi sui diritti umani e sulle regole delle guerra.

Joseph Kony è stato dichiarato colpevole di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità. Quest’accusa non è una forma di imperialismo occidentale, un’imposizione dei “nostri” valori ad altre culture, ma si basa su standard accettati a livello globale, anche da molti Stati africani che hanno firmato lo Statuto del Tribunale Penale Internazionale.

Chiaramente, è importante non ignorare le accuse di neocolonialismo e le motivazioni economiche di un possibile intervento; non bisogna però neppure ignorare che la validità delle stesse va verificata e giudicata caso per caso, a seconda dei diversi contesti e tenendo conto anche dei possibili vantaggi che se ne possono ricavare. In questo caso in particolare, nessuno propone un dispiegamento militare completo per combattere l’LRA sul campo, ma un appoggio a iniziative locali o regionali per la cattura di Kony e lo smantellamento del suo esercito.

Si tratta di qualcosa di totalmente diverso in cui soldati occidentali possono svolgere un ruolo significativo. Anche se interventi di questo tipo da parte della comunità internazionale non sempre hanno funzionato, tuttavia bisogna riconoscere che si tratta di operazioni complesse che, se condotte in maniera appropriata, possono avere effetti positivi sul processo di pacificazione.

I militari occidentali, come per esempio i 100 soldati di supporto che sono stati affiancati all’esercito ugandese, hanno le capacità logistiche per catturare Kony e suoi uomini di punta nella giungla. Si tratta di una missione poco impegnativa, facilmente organizzabile, e potenzialmente molto efficace. Si sono già ottenuti alcuni risultati che anni di negoziazione non erano riusciti a raggiungere: Kony e l’LRA hanno lasciato libere le loro ‘mogli’ e i bambini rapiti, in quanto impedivano alla milizia di muoversi nella giungla abbastanza rapidamente da tenere lontani i militari ugandesi che li stavano inseguendo con l’aiuto degli americani. Missioni come questa difficilmente causano lo stesso tipo di problemi causati da interventi molto più complessi come quelli nei Balcani, e neanche richiedono la fornitura massiccia di risorse militari e armi all’esercito ugandese, con le conseguenze che ne deriverebbero sul piano dei diritti umani.

Secondo alcuni l’LRA è un problema prettamente ugandese e richiede una soluzione ugandese, per cui la comunità internazionale non dovrebbe, in effetti, cedere alla tentazione del “Buon Samaritano bianco“, e rimanerne fuori. L’LRA non combatte più un conflitto politico contro il governo ugandese, ma è diventata una milizia chiusa in una spirale di violenza che si auto-alimenta e non è più guidata da fini politici.

Questo è diventato ormai un problema regionale, che non solo alimenta conflitti locali ma anche una crescente crisi umanitaria. Si può perciò parlare di un problema internazionale. Dopo i genocidi in Rwanda e in Yugoslavia, il mondo ha dichiarato che “mai più” rimarremo a guardare mentre persone innocenti sono vittime di violenze che siamo in grado di controllare e fermare. Recentemente, Gareth Evans, ex-direttore dell’International Crisis Group, si è dedicato a concepire e promuovere l’idea della “Responsabilità di proteggere”: quando un numero elevatissimo di persone sono uccise con la complicità di un governo, o quando manca la volontà del governo di proteggerli, la responsabilità passa alla comunità internazionale. Quest’idea, unitamente alla convinzione del valore intrinseco della vita umana (che sta alla base della dottrina dei diritti umani), rende più difficile respingere le ipotesi di intervento internazionale nei conflitti sulla base dell’accusa di neocolonialismo.

Rimuovere Kony non risolve certo, come vorrebbero i promotori della campagna Invisible Children, i problemi e i conflitti nella regione centrafricana. Ma eliminerebbe comunque LRA, uno dei più pericolosi esempi di signori della guerra e di miliziani nella regione. Si tratterebbe semplicemente di un primo passo verso la pacificazione, che dovrebbe essere seguito da un complesso processo di peace-building, di riconciliazione, di amministrazione della giustizia, ma comunque rimane un importante passo nella costruzione della pace.

Nel criticare, giustamente, la campagna Kony 2012, non bisogna dimenticare questi aspetti. La comunità internazionale può aiutare il processo di pace nella regione, anzi ha il dovere di farlo, alla luce della devastazione e sofferenza umana causata da un conflitto che ha tormentato la regione dalla decolonizzazione in poi.

Questo non vuol dire che appoggiare la campagna Kony 2012 sia la cosa giusta da fare, ma non è giusto nemmeno ignorare i problemi che il dibattito ha sollevato. Come comunità internazionale, l’imperativo è continuare a discutere su questi problemi, e cercare il modo in cui possiamo impegnarci a favorire il processo di pacificazione. Migliaia di vite in Africa centrale dipendono da quello che saremo in grado di fare.

Jasmine-Kim Westendorf è un dottorando a La Trobe University in Australia, dove fa ricerca sui processi di pace durante le guerre civili. Tra i fondatori della Melbourne Free University e del Democracy Project. La si può contattare attraverso il social network pcdn (peace and collaborative development network)

Giorgio Guzzetta

Accademico errante, residente a Roma dopo vari periodi di studio e lavoro all'estero (Stati Uniti, Inghilterra e Sudafrica). Si è occupato di letteratura italiana e comparata, globalizzazione culturale, Internet e nuovi media. Occasionalmente fa traduzioni dall'inglese e dal francese.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *