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La lezione delle Maldive al Medio Oriente

[Traduzione di Beatrice Borgato e Simone Tartari con Tamara Nigi, dell’articolo originale di Andrew Wigley per openDemocracy.net]

Il colpo di stato nelle Maldive non è di buon auspicio per la democrazia in Medio Oriente e Africa settentrionale. Andrew Wigley sostiene che il processo di democratizzazione di un paese che esce da un regime autoritario può richiedere decenni.

Per essere un colpo di Stato, il rovesciamento del Presidente delle Maldive Mohamed Nasheed, il primo ad essere stato eletto democraticamente nel Paese, non è apparso particolarmente spettacolare nella sua dinamica. Nasheed ha annunciato improvvisamente il suo ritiro; sarebbe stato sostituito dal suo vice, Mohammed Waheed Hassan. Il tutto senza ricorso a carri armati, con poche persone rimaste coinvolte – se si esclude lo stesso Presidente – e senza comportare più di tanto stupore e paura.

Fine della storia? Non proprio. I golpisti, che a quanto pare erano una coalizione composta da militari, politici e capitani d’industria, hanno creduto di poter mettere a tacere Nasheed e continuare a governare una nazione così isolata e geopoliticamente insignificante, senza destare troppo l’attenzione della comunità internazionale. A giudicare dalle prime avvisaglie, si sbagliavano.

I golpisti hanno sottovalutato la possibile reazione di Nasheed. La sua prima stoccata è arrivata due giorni dopo le sue dimissioni, con la pubblicazione di un articolo nella pagina “op-ed” del New York Times (n.d.t. articolo firmato da un opinionista esterno), dove ha raccontato della corruzione che 30 anni di regime autoritario hanno lasciato in eredità al piccolo Stato dell’arcipelago dell’Oceano Indiano. “Non sempre la scomparsa del dittatore è sufficiente ad abbattere anche i regimi”, ha scritto. Gli Stati Uniti hanno agito tempestivamente inviando il vice segretario di Stato nella capitale Malé, per esprimere le preoccupazioni del governo americano ed esercitare pressioni per l’apertura di un’inchiesta ufficiale sull’accaduto.

Oltre alle immagini spettacolari di atolli corallini e spiagge incontaminate , le Maldive godono di un patrimonio storico-culturale antico e importante. La sua nascita come Sultanato, infatti, risale al 1153, mentre dal 1887 al 1965 le Maldive diventano protettorato britannico entrando in seguito nel Commonwealth, di cui ancora oggi fanno parte.

La storia postcoloniale del Paese è dominata da Maumoon Abdul Gayoom che, dopo un periodo d’instabilità, riesce a conquistare il potere nel 1978 e lo mantiene per tutti gli anni ‘80, respingendo ben tre tentativi di golpe. Molte potenze straniere hanno visto in Gayoom un Presidente capace di dare una stabilità e una leadership forte al Paese. Indubbiamente così è stato. Gayoom è rimasto alla guida del Paese per 30 anni ed è tornato a governare incontrastato non meno di sei volte.

Accreditato da alcuni per la costruzione del moderno settore turistico dell’arcipelago, è considerato da molti un capo autoritario responsabile di aver promosso un sistema repressivo che esige l’obbedienza alla legge mostrando scarsa attenzione nei confronti dei diritti umani.

Un maldiviano gay di mia conoscenza è stato fra le vittime del regime di Gayoom. Dopo aver ricevuto il permesso di studiare all’estero, poco prima della partenza è stato arrestato per infondate accuse di sodomia. A causa delle infauste convenzioni sociali del regime di Gayoom, è stato incarcerato e maltrattato, e poi condannato a due anni di reclusione.

I turisti, perlopiù ignari della situazione, hanno continuato a godersi le vacanze alle Maldive contribuendo all’enorme crescita economica. Il turismo, da solo, rappresenta quasi un terzo del PIL nazionale. E’ proprio questo il tallone d’Achille dei golpisti.

Il successo di un’offerta turistica su larga scala, specialmente in una fascia alta del mercato come nel caso delle Maldive, dipende da molti fattori: stabilità politica, sicurezza personale, salute e benessere. Se viene a mancare anche uno solo di questi fattori, le conseguenze potrebbero essere molto gravi. Il Governo britannico ha già raccomandato a viaggiatori e turisti di evitare, se possibile, visite alla capitale Malé. Le raccomandazioni turistiche dei consolati e la shuttle diplomacy (n.d.t. negoziato diplomatico in cui le parti non si parlano mai direttamente ma lo fanno attraverso un mediatore estraneo che le incontra in separata sede) non sono certo utili a riempire gli alberghi.

Detto questo, solo gli osservatori più attenti si sono accorti del golpe maldiviano, oscurato dagli ormai tragici avvenimenti in corso in Siria. Eppure, il golpe a Malé, visti i pochi giorni che lo separano dal primo anniversario delle dimissioni di Hosni Mubarak in Egitto, riguarda molto da vicino la Primavera Araba. Dalle Maldive giunge dunque il messaggio che una volta sfumata l’euforia per la destituzione del dittatore, la nazione ha davanti un lungo cammino, guidata da una nuova aspirante classe politica che comincerà a spazzare via le vestigia del vecchio sistema corrotto.

Come ha raccontato Mohamed Nasheed un paio di settimane fa, la dittatura cui lui è subentrato nel 2008, ha lasciato in eredità alla nascente democrazia maldiviana un Tesoro saccheggiato, un deficit di bilancio mastodontico e un sistema giudiziario corrotto. Inoltre, l’ex Presidente Gayoom aveva scelto accuratamente i membri della magistratura del Paese, che in seguito avrebbero protetto gli interessi della sua famiglia e dei suoi alleati politici, molti dei quali sono poi stati accusati di appropriazione indebita, corruzione e violazione dei diritti umani.

La lezione, perciò, è duplice:

– In primo luogo, in relazione alle democrazie musulmane emergenti dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente, gli eventi delle Maldive sono un monito per coloro che hanno combattuto e deposto i leader populisti, un appello a rimanere vigili e controllare la situazione. Si tratta di un processo continuo e a lungo termine. Non ci si può permettere di mollare.

– In secondo luogo, c’è, da parte dell’Unione Europea, degli Stati Uniti e degli altri attori che hanno sostenuto il cambio di regime nella regione, la necessità di mantenere un impegno che vada ben al di là dell’operazione mediatica, che si limita a qualche foto scattata in occasione della visita, organizzata in tutta fretta, dell’impaziente primo ministro. E’ fin troppo facile, una volta che i turisti saranno tornati a soggiornare in Paesi come le Maldive, la Tunisia e l’Egitto, assumere che sia tutto a posto.

Forse non sapremo mai cosa ha spinto Nasheed a lasciare l’incarico. Ma se il processo democratico di una nazione piccola come le Maldive, dove esercito e forze dell’ordine sono in numero trascurabile, continua a vacillare a quattro anni di distanza dalla cacciata radicale di una generazione di dittature, allora il processo di depurazione di società complesse come quelle mediorientali e nordafricane può impiegare decenni.

Ad un anno dallo scoppio delle rivolte in tutto il mondo arabo, il Presidente maldiviano destituito ci fornisce una lungimirante valutazione sulle sfide a venire: per cacciare il dittatore basta un solo giorno, ma ci possono volere anni per eliminare le tracce persistenti del suo regime.

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Andrew Wigley è un esperto di affari pubblici che ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti e in Medio Oriente. La sua carriera è iniziata con un incarico per il partito Liberal Democratico, prima a Londra e poi a Bruxelles. Attualmente sta svolgendo un dottorato di ricerca in storia dell’Africa alla Stellenbosch University in Sud Africa.

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