Tribalismo in Kenya: retaggio del colonialismo

[Traduzione di Paola D’Orazio dell’articolo originale di Alan Masakhalia per openDemocracy.net]

In Kenya il fenomeno del tribalismo non è un fatto storicamente determinato, vale a dire che esso non può essere fatto risalire ad antichi rancori o a guerre derivanti da scontri tra culture nel corso dei secoli. Infatti, i più grandi gruppi che per lungo tempo si sono scontrati – “gli occidentali” (Luo, Luhya, Kalenjin, Kisii) della parte occidentale del Paese e i GEMA (di cui fanno parte i popoli Kikuyu, Embu e Meru) residenti nella regione montana – non hanno avuto molti contatti prima dell’arrivo dei coloni nel Paese. E’ sulla base di questa evidenza che si può affermare che il tribalismo è un fenomeno relativamente recente in Kenya: è un prodotto dei tempi moderni derivante dalla colonizzazione, dall’urbanizzazione e dalla cultura politica che si è venuta formando nel Kenya nato dopo la dichiarazione d’indipendenza.

Prima dell’arrivo dei coloni le tribù keniote vivevano nelle rispettive zone di appartenenza, ciascuna fedele alla propria cultura, alla propria lingua, alle proprie usanze, ai propri miti ecc..  Per lungo tempo le comunità hanno vissuto libere le une dalle altre, al sicuro dai conflitti intorno all’acqua e ai pascoli per il bestiame.

Insieme agli inglesi, tuttavia, giunse in Kenya anche il principio del divide et impera. I colonizzatori ingigantirono le differenze fra le varie comunità e tribù, contribuendo alla nascita di contrapposizioni che portarono ciascuna comunità a diffidare delle altre e a combatterle, il che costituì terreno fertile per lo sviluppo degli stereotipi  negativi sulle tribù che si sarebbero in seguito radicati nella credenza popolare. Per esempio, ai Kiluyu fu trasmessa quella secondo cui i Luo, che si nutrivano di pesce, erano indolenti, non circoncisi e inaffidabili, mentre ai Luhya gli appartenenti alle comunità GEMA venivano descritti come orditori di complotti, mentitori, infidi, arroganti e così via.

Questa situazione di reciproca diffidenza tribale continuò fino all’indipendenza, proclamata nel 1963, quando sfociò nella lotta per il potere tra i due partiti maggiori: il KADU (Kenya African Democratic Union –  Unione Democratica Africana per il Kenya) e il KANU (Kenya African National Union – Unione Nazionale Africana per il Kenya). Il KANU era un partito dominato principalmente da due tribù, i Kikuyu e i Luo, mentre il KADU era una coalizione di altre piccole tribù che temevano la dominazione dell’alleanza Kikiyu/Luo sotto l’egida del KANU.

Il KADU si fece promotore del “majimbo”, un sistema di governo di tipo federale che – secondo la loro visione – avrebbe rappresentato l’unico modo per proteggere le tribù più piccole dalla dominazione delle tribù più grandi (Kikuyo e Luo, appunto). Tuttavia vinse il KANU, il federalismo fu messo da parte e il Kenya adottò un sistema di governance accentrato.

L’alleanza tra i Luo e i Kikuyu durò poco, poiché Mzee Jomo Kenyatta (dell’etnia Kikuyu) divenne presidente e la sua amministrazione iniziò a concedere privilegi al popolo Kikuyu. Tale favoritismo si tradusse ben presto in una maggiore spesa pubblica per le infrastrutture sociali nella regione abitata dai Kikuyu stessi, benefici illegali per gli affiliati di quella tribù, accesso privilegiato alle professioni statali e parastatali, mentre i Luo, nonostante avessero un loro candidato alla vice-presidenza del Paese, subirono molte discriminazioni e le loro segnalazioni dei soprusi ebbero come unico effetto intimidazioni, quando non addirittura degli attentati.

Sotto il governo di Kenyatta era frequente imbattersi in persone appartenenti alla tribù dei Kikuyu che ricoprivano posizioni di notevole importanza pur essendo meno qualificate rispetto a quelle di altre tribù. Questa situazione provocò contrasti in seno al governo e la cacciata, nonché l’arresto del vice presidente Oginga (del popolo Luo). La frattura tribale si acuì e solidificò quando Tom Mboya, un ministro dei Luo rimasto al governo, venne ucciso e alcune delle personalità più importanti dei Kikuyu vennero accusate di questa morte. Questa azione fu vista come un attacco ai Luo da parte di Kikuyu e da allora la politica keniota si è sviluppata fondamentalmente dal confronto tra queste due tribù, con tentativi, da parte di ciascuna fazione, di portare altri gruppi tribali dalla propria parte.

Le conseguenze del tribalismo

In base a queste premesse, è chiaro che il tribalismo in Kenya rappresenta uno dei maggiori ostacoli sia all’instaurazione di un vero e proprio sistema democratico sia allo sviluppo socio-economico. Rappresenta inoltre un fenomeno persistente dal momento in cui fornisce un canale per la distribuzione di favori da parte di coloro che sono al potere nei confronti dei membri delle loro rispettive tribù di appartenenza. Infatti, la lealtà alla tribù è considerata di gran lunga più importante della lealtà al Paese.

Il tribalismo è inoltre causa di molti mali come sottosviluppo, corruzione, brogli elettorali, violenze e guerra civile. Inoltre non esiste meritocrazia, dato che i cittadini ricoprono posizioni in base alla loro appartenenza tribale, senza considerare i bassi livelli delle qualifiche che detengono: da ciò deriva l’inefficiente impiego delle diverse competenze presenti nel Paese. Anche lo sfruttamento delle risorse naturali assume una connotazione tribale, in quanto le risorse presenti in certe aree vengono del tutto ignorate o sottoutilizzate. Una governance inefficace e la mancanza di accountability è altresì legata al tribalismo perché i cittadini non metteranno mai in discussione le decisioni assunte da un governo presieduto da un membro della loro stessa tribù: anche se dovesse compiere degli errori, essi continueranno a sostenerlo ciecamente e con fermezza. Ed è vero anche il contrario. Ciò significa che, anche se un governo fa bene il suo lavoro, riceverà quotidianamente inutili critiche da parte delle tribù che non fanno parte del partito al governo. Il tribalismo è dunque utilizzato al fine di negare o concedere servizi e risorse in via preferenziale. Ed è per effetto della diffusione del tribalismo che i cittadini si stanno interrogando sul richiamo al messaggio di  Peace, Love and Unity (Pace, Amore, Unità). Essi si chiedono: unità per chi? A vantaggio di chi? Delle tribù rivali?  In Kenya e in altri paesi africani, come il Rwanda, la Nigeria, l’Etiopia, lo Zimbabwe etc., gli scontri e le violenze etniche sono molto frequenti.  C’è ostilità, sfiducia, odio tra le varie tribù, così che anche i matrimoni tra appartenenti a tribù diverse sono fortemente osteggiati dalle generazioni più anziane, fortemente conservatrici, così come dalle popolazioni rurali.

I Luhya, per esempio, hanno un proverbio che dice: “elisimba lifwitsanga mulikobi lya lyasie” il cui significato è che una mangusta muore al posto di un’altra. Se, per esempio, vieni morso da un serpente, ammazzerai qualsiasi altro serpente che incontrerai sulla tua strada, senza stare a guardare a quale esattamente ti ha morso. In un contesto tribale, se un Kikuyu mi fa del male, qualunque Kikuyu che incontrerò in futuro ne dovrà pagare il prezzo: è questo il meccanismo che accresce i conflitti tribali.

Il tribalismo ha ormai pervaso la politica e con l’avvento del multipolarismo sono emersi molti partiti tribali. Ad esempio il FORD K è vicino ai Luhya, il DP ai Kikuyu, il FORD PEOPLE ai Kisiii, lo SPK rappresenta le popolazionidella costa, Il NPD/LPD i Luo, il KANU/UDM i Kalenjin, lo SPD i Kamba e così via. Dato che  ogni tribù è convinta che per lei sia arrivato il turno di “mangiare”, vale a dire il tempo di godere del potere politico e delle risorse pubbliche a disposizione, attualmente il voto in Kenya segue le logiche tribali a prescindere dal sistema, sia esso parlamentare, presidenziale, civico.

Nella sfera politica, quando i leader hanno bisogno di sostegno, si rivolgono al popolo delle loro stesse tribù utilizzando queste ultime anche come fattore di influenza quando si trovano a patteggiare per ottenere una posizione o dei favori in seno al governo. L’incremento del tribalismo nell’intero Paese ha compromesso anche l’istituzione della Chiesa, rendendo la fraternità religiosa incapace di offrire una guida su questioni di rilevanza nazionale: la chiesa non è più ritenuta un arbitro neutrale. Diverse chiese si sono alleate con alcuni partiti, ad esempio la Chiesa presbiteriana (PCEA) ha appoggiato apertamente la candidatura del presidente Kibaki nel 2007, invitando tutti i suoi seguaci a votarlo.

Il tribalismo è senz’altro alla base degli omicidi voluti dal governo, così come di altri omicidi politici, per esempio quello di Tom Mboya, Robert Ouko, Othiambo Mbai e, più di recente, quello di Hon. Melitus  Mugabe Were della comunità del Banyala, ucciso tre settimane dopo aver conquistato un seggio al parlamento Embakasi ( in un’area dominata dai Kikuyu). Il governo precedente sembrava facesse apposta ad accrescere le rivalità tribali. Per per far sì che i residenti sentissero quell’area di loro esclusiva appartenenza, vigeva l’abitudine di creare distretti rurali e denominarli a partire dai nomi delle tribù, così gli estranei dovevano essere allontanati. Il distretto Meru, per esempio, è creato per i Meru, il distretto Kisii per i Kisii, il Teso per i Teso, il Kuria per i Kuria, il Suba per i Suba e il Taita per la tribù Taita. Tale tecnica di divisione e controllo è stata utilizzata durante il periodo elettorale per poter allontanare gli estranei che avessero scelto di votare in modo diverso. I nativi del distretto di Kisii, per esempio, si sarebbero sentiti liberi di cacciare i non appartenenti alla loro tribù Kisii che risiedevano nel loro distretto.

La violenza scoppiata  in Kenya dopo le elezioni del 2007 viene spiegata ricorrendo proprio al particolare fenomeno del tribalismo: le elezioni nel Paese sono sempre più una mera questione di vita o di morte. Raila Odinga (dei Luo), approfittando di questa situazione, raggruppò le altre 41 tribù contro  Mwai Kibaki, il leader del governo dei Kikuyu: mise insieme tutte le forze politiche importanti delle altre tribù e creò l’ODM (Orange Democratic Movement – Movimento Democratico Arancione).

In questa situazione i Kikuyu del PNU (Party of National Unity – partito di unità nazionale), pur essendo la loro tribù la più popolosa del Paese, si trovarono di fronte a un difficile compito. Ma l’ODM era troppo forte. Stando così le cose, le elezioni non si sono svolte sulla base dei programmi, delle ideologie o dei principi; piuttosto, esse sono state un terreno di scontro per mettere fuori gioco i Kikuyu, una resa dei conti tra il PNU dei Kikuyu e la coalizione delle altre tribù keniote riunite sotto l’ombrello del’ODM. In questo contesto, la violenza esplose inevitabilmente quando divenne chiaro che ci sarebbero stati brogli elettorali. Il popolo della tribù del presidente Kibaki  venne perseguitato, attaccato e cacciato dal Paese, e gli altri cittadini del Paese non potevano immaginare che avrebbero vissuto per altri cinque anni al freddo, senza un lavoro e senza una sviluppo infrastrutturale nelle loro rispettive zone di appartenenza.

Aspettative future

Dato che oggi la causa principale della diffusione del tribalismo in Kenya – così come nel resto dell’Africa – è rappresentata dalla competizione e dallo scontro per il potere e il controllo delle risorse, non ha molto senso occuparsi dei mali del Kenya corrotto ignorandone le cause effettive. Dovrebbe esistere una vera e propria formula per la divisione del potere e delle risorse attraverso canali costituzionali: questo assicurerebbe una più equa distribuzione delle risorse dello stato e ogni tribù-comunità sarebbe rappresentata in maniera imparziale. E sarebbe ancora meglio se il potere venisse completamente delegato ai governi regionali: un governo di tipo federale è infatti l’unica via per proteggere le piccole tribù da coloro che vogliono sfruttarle e soggiogarle. L’altra opzione sarebbe quella di discutere un’organizzazione che garantisca la rotazione delle cariche più importanti tra le tribù. Finora, tuttavia, il federalismo rimane l’opzione migliore, considerando anche il fatto che storicamente le tribù keniote hanno sempre vissuto lontano le une dalle altre.

Inoltre, è necessario rafforzare le leggi che regolano le pratiche discriminatorie nell’accesso ai servizi pubblici.

La tolleranza è ovviamente uno dei requisiti più importanti se si vuole che i Kenioti vivano uniti nella diversità imparando ad accettare usi e costumi diversi fra loro. Io per esempio sono un Luhya. Quindi per me è normale amare i Luhya, perché è così che sono stato cresciuto ed [essere Luhya] è la cosa migliore che io possa concepire. Ma nonostante ciò, non manco di rispetto nei confronti di altri gruppi, anche se vedo le cose diversamente da loro e mi piacciono cose diverse. Dio mi ha creato Luhya e tale vuole che resti. Ma per me è importante il rispetto delle altre culture, anche di quelle in cui vige la circoncisione femminile, oppure la pratica di ereditare la moglie dal defunto.

Il tribalismo è una pratica retrograda in quanto alcuni cittadini amano degradarne e sminuirne altri non rispettandoli e prendendosi gioco di culture e usanze diverse dalle loro. Disumanizzare le altre culture o considerarle semplicemente inferiori non è accettabile e può degenerare in una lotta brutale. Alcune delle verdure utilizzate dalla mia tribù (Luhya) come la lisutsa, la lisaka, il murere o il likhubi sono considerate erbacce in altre parti del Paese. Il motto “uniti nella diversità” può essere realizzato solo se viene praticata la tolleranza.

Dobbiamo aiutare i cittadini a imparare, capire e guardare dentro le culture degli altri kenioti: questo, da solo, può aiutare a spazzare via i miti, le generalizzazioni e i pregiudizi, le visioni distorte e le informazioni limitate sulle altre culture e tribù.

Costruire ponti tra le diverse culture è necessario perché se uno rimane nei suoi schemi mentali non vede le possibilità che derivano da altri modi di pensare, di vedere, di comprendere e interpretare il mondo. Inoltre, sarebbe importante che agenzie internazionali come la Banca Mondiale condizionassero gli aiuti allo sviluppo all’esistenza di effettivi cambiamenti nell’assetto costituzionale e ad altre misure che attenuino le violenze tribali. Questo sarebbe un approccio molto importante perché permetterebbe di sradicare il tribalismo per raggiungere uno sviluppo concreto e sostenibile.

Se il tribalismo viene combattuto con successo allora la meritocrazia diventerà una pratica diffusa sia nei servizi pubblici che nel settore privato e verranno prese in considerazione solo le persone più qualificate. Il processo di selezione e reclutamento deve essere trasparente, attraverso colloqui e vanno considerati solo i candidati migliori.

Quando il tema del tribalismo sarà trattato in modo adeguato, emergerà la causa principale dei conflitti e in questo modo sarà facile rendersi conto che la governance deve essere migliorata, la corruzione deve diminuire, i cittadini meritevoli dovranno tornare in patria, gli investimenti devono essere sostenuti, lo sviluppo è necessario e gli standard di vita devono migliorare. E la violenza tribale deve essere letteralmente eradicata dal Paese.

Alan Masakhalia è un esperto di politica. Attualmente lavora presso il Decisions Management Consultants di Nairobi. Oltre che per openDemocracy ha scritto diversi articoli di approfondimento politico riguardanti il Kenya, l’Uganda, il Sudan e la Tanzania per Democracy International.

Paola D'Orazio

Giornalista e blogger, seguo le evoluzioni del giornalismo multilingue e dei citizen media e mi interesso di economia dello sviluppo, cooperazione internazionale e politiche di sviluppo locale.

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