Libia: il primo vero anno zero della primavera araba
Quella libica inaugura una sorta di “seconda generazione” delle rivoluzioni arabe dopo le sollevazioni in Tunisia e Egitto. Quest’ultime, caratterizzate da tempistiche relativamente rapide, limitato uso della violenza e abbattimento solo parziale del sistema statale, hanno lasciato strada a rivoluzioni assai più sanguinose, caratterizzate dallo scontro totale tra l’apparato statale e gli oppositori e da possibili guerre civili. Così è stato per la Libia e simile si preannuncia essere il destino di Yemen e Siria.
Tabula rasa, opportunità e rischi
a) Lo scenario somalo
Questa diversa modalità presenta certamente molti aspetti negativi, primo fra tutti l’enorme spargimento di sangue (un calcolo esatto delle vittime della guerra civile libica non è ancora stato possibile, ma si parla di diverse decine di migliaia). Vi è poi la grande incertezza sugli scenari post-conflitto che ogni guerra civile porta con sé. Nel caso libico risulta per qualunque osservatore lampante la profonda differenza tra la situazione post rivoluzionaria in Libia e quelle di Tunisia ed Egitto. L’espressione che meglio la descrive è “Tabula rasa”.
Tale espressione ha una connotazione certamente negativa, soprattutto se tradotta in un linguaggio politico più consono, ovvero “vuoto di potere”. Non pochi analisti, nei giorni immediatamente successivi alla caduta di Sirte e all’uccisione di Muammar Gheddafi, hanno suggerito un possibile paragone tra l’attuale situazione in Libia e la Somalia del 1991 dopo l’abbattimento di Mohammed Siad Barre. Ora come allora, infatti, il conflitto civile e la caduta della dittatura ha comportato la sostanziale dissoluzione di ogni precedente sistema di potere civile o militare e la presenza di migliaia di persone armate, solitamente raggruppate in piccoli gruppi sostanzialmente indipendenti tra loro e solo teoricamente sottoposti all’autorità del Transitional National Council (NTC). Il timore che tale situazione possa degenerare in una nuova guerra civile tra bande armate come accadde in Somalia è tutt’altro che infondato, anche se rispetto allo scenario che si presentò in Somalia nel 1991 esistono anche alcune importanti differenze.
Prima fra tutte c’è la geografia. L’area che circonda la Libia non è il corno d’Africa e nonostante il periodo politicamente travagliato che stanno attraversando alcuni paesi confinanti come Egitto e Tunisia, la Libia si trova inserita in un contesto geopolitico ben più stabile e strutturato rispetto alla Somalia. In particolare difficilmente altri paesi dell’area Mediterranea come Italia, Francia, Spagna (ma anche Turchia e Israele) potrebbero tollerare la presenza di una situazione simile a quella somala così vicino alle loro coste e ai loro più importanti snodi commerciali marittimi. Senza contare che dopo il successo ottenuto con l’intervento in Libia, la stessa NATO nella sua totalità ha interesse che il paese non degeneri nell’anarchia, quantomeno per motivi di immagine e prestigio.
Il secondo importante fattore che differenzia il paese nordafricano dalla Somalia è certamente il petrolio. E’ nel pieno interesse sia dei paesi importatori, sia degli stessi cittadini libici, che il paese sia in grado di ripristinare al più presto la propria stabilità, fattore assolutamente necessario per poter riprendere quanto prima le esportazioni di petrolio e gas, di gran lunga la maggiore fonte di ricchezza del paese. Anche a livello mondiale, la ripresa delle esportazioni libiche potrebbe contribuire a stabilizzare maggiormente il prezzo degli idrocarburi, caratterizzato in questi mesi da forte volatilità, sia a causa della crisi internazionale, ma soprattutto a causa della fase di incertezza politica che ha colpito il Medio Oriente in seguito alla Primavera Araba.
b) Le opportunità di un vero anno zero
Se da una parte, quindi, il totale abbattimento del regime precedente e il conseguente vuoto di potere presentano numerose incertezze e rischi, dall’altra, se ben gestiti, possono rappresentare anche una grande opportunità per il futuro della Libia. Negli ultimi mesi abbiamo assistito infatti alle numerose difficoltà connesse con la permanenza al potere in Tunisia e (soprattutto) in Egitto di gran parte della classe dirigente che aveva gestito questi due paesi sotto Ben Ali e Mubarak. Numerosi esponenti dei movimenti che hanno guidato le rivolte contro i due dittatori da tempo denunciano come la loro rivoluzione si stia realizzando solo parzialmente perché costretta a scendere a patti con gli interessi di quell’elite politico-economica ancora in grado di esercitare molto potere sulla società in entrambi i paesi e fortemente compromessa con i regimi precedenti e con le loro dinamiche socio-economiche.
Al contrario, la situazione in Libia si presenta assai diversa. La struttura statale del paese lungo gli anni di potere di Muammar Gheddafi non è mai stata sottoposta a nessun tipo di vera costituzione o corpo legislativo (come almeno in parte accadeva in Tunisia e in Egitto) ma, al contrario, è sempre stata una diretta emanazione del dittatore e delle decisioni prese da lui e dal suo ristretto entourage.
Anche l’esercito, soprattutto in seguito alla sconfitta subita nella guerra contro il Ciad nei primi anni ottanta, venne fortemente ridotto e sostituito in gran parte da servizi di sicurezza e truppe paramilitari direttamente fedeli a Gheddafi e alla sua famiglia. La totale assenza di uno stato nel senso più “impersonale” del termine ha quindi comportato, con l’abbattimento della quarantennale dittatura, anche l’abbattimento di ogni struttura di potere che aveva dominato il paese a partire dal rovesciamento della monarchia di Re Idriss nel 1969. Il fatto che l’NTC, formatosi all’inizio della guerra civile, sia composto in parte anche da personaggi in passato fortemente compromessi col regime (gli stessi Jalil e Jibril, rispettivamente capo dello stato a interim e capo dell’esecutivo ad interim furono ministri di Gheddafi), non ha impedito al conflitto di spazzare via la maggior parte di quel che rimaneva della classe dirigente e dell’elite economica connessa al dittatore. Ciò apre grandi possibilità per una profonda e strutturale riforma dell’intero paese che non debba subire i diktat e le pressioni di una elite conservatrice come accade in Egitto.
I problemi principali che dovranno essere affrontati perché questo si realizzi sono soprattutto due: in primo luogo impedire che la società, slegata dai vincoli imposti dalla dittatura si frantumi sia in senso tribale, sia in senso geografico, soprattutto fra Cirenaica (Bengasi) e Tripolitania (Tripoli); in secondo luogo evitare che l’ala più estremista della forte componente religiosa delle forze anti-Gheddafi prenda il sopravvento compromettendo la transizione verso un sistema democratico.
Tra islamismo e laicismo, la lezione tunisina
Lo spettro del fondamentalismo islamico al potere in Libia aleggia sia nei paesi occidentali, sia soprattutto in Algeria, dove la possibilità che membri o simpatizzanti dell’AQIM (Al Qaeda nel Maghreb Islamico, la sigla che raccoglie tutti i gruppi che praticano azioni di terrorismo di stampo qaedista tra la Libia e il Marocco e, primariamente, in Algeria) è vista con estrema preoccupazione.
Tale preoccupazione non è del tutto infondata. L’ala islamista è una componente importante delle forze che hanno combattuto il regime di Gheddafi, e soprattutto è l’ala che ha saputo dare ai ribelli il maggior numero di combattenti. Non è un caso, infatti, che Abdelhakim Belhadji, secondo Algeri ex membro dell’AQIM e noto per le sue posizioni estremiste, sia stato nominato responsabile militare dell’NTC. A lui fanno riferimento gran parte (ma non tutti) dei gruppi armati più o meno grandi e più o meno soggetti all’autorità dell’NTC che hanno composto le forze armate dei ribelli durante il conflitto civile. E’ quindi concreta la possibilità che tali forze facciano pesare le loro armi e il loro contributo di sangue nella guerra a Gheddafi sul tavolo delle trattative sul futuro prossimo della Libia.
D’altra parte è però ben presente all’interno dei leader islamisti libici la consapevolezza di essere tenuti sotto strettissimo controllo da parte dei paesi limitrofi e dei loro (momentanei) alleati della NATO. E’ pertanto difficile che essi cerchino di operare colpi di mano per deviare il sentiero che dovrebbe condurre il paese verso le elezioni e una nuova costituzione democratica, rischiando una nuova guerra civile e un possibile nuovo intervento esterno questa volta diretto contro di loro. E’ probabile, quindi, che le forze islamiste, sia estremiste che moderate, puntino a diventare un forte attore politico della prossima Libia democratica su esempio del successo ottenuto dal partito islamista moderato al-Nahdha in Tunisia.
Non si può infatti nascondere come il fattore religioso sia una componente fondamentale non solo della rivoluzione libica, ma anche delle rivoluzioni che hanno avuto luogo in Egitto e Tunisia. Il forzato estremo laicismo dello stato, ostentato dai dittatori appena deposti per molti anni (soprattutto da Ben Ali, ma anche da Mubarak e Gheddafi che con l’islam e i leader religiosi hanno avuto sempre un rapporto altalenante e tendenzialmente conflittuale), ha reso l’Islam una delle bandiere simboliche delle rivoluzioni. Come, ad esempio, in Irlanda il Cattolicesimo diventò parte integrante dell’identità nazionale in funzione anti-inglese e quindi anti-protestante, la stessa dinamica si è potuta osservare nelle rivoluzioni Nordafricane di quest’anno, dove l’Islam è stato contrapposto al laicismo ostentato delle dittature repressive.
Quanto questa identità religiosa ritrovata sarà in grado di imporre le sua influenza sulle future costituzioni e sui futuri stati democratici del Nord Africa è qualcosa che è difficile prevedere. L’esempio tunisino sembra incoraggiare a credere che nonostante la società abbia ritrovato con piacere la possibilità di poter ostentare maggiormente la propria religiosità dopo l’abbattimento della dittatura, essa non sembra altrettanto disposta a rinunciare ad alcune conquiste laiche introdotte dalla dittatura e soprattutto a quelle che la Primavera Araba ha dato loro la possibilità di ottenere, come lo stato di diritto e le libere elezioni.
Conclusioni
Tabula rasa è quindi l’espressione che meglio descrive la Libia dell’immediato post-guerra civile. Il rischio che nuovi conflitti civili su base religiosa e/o tribale mutino “Tabula Rasa” in “vuoto di potere” è molto concreto, soprattutto a causa della forte presenza di numerosi gruppi ancora armati e solo teoricamente sottoposti ad un Concilio di Transizione poco in grado ancora di far valere pienamente la propria autorità.
D’altra parte però esistono numerosi fattori che sono in grado di far evolvere la situazione Libica evitando uno scenario “somalo” temuto da molti osservatori. In questo caso “Tabula Rasa” potrebbe diventare un’espressione densa di opportunità per la Libia, che si vedrebbe in grado, prima fra gli stati rivoluzionari della Primavera Araba, ancora alle prese con gli strascichi dei passati regimi, di far intraprendere [al] proprio stato e alla propria società un’era totalmente nuova.
[L’articolo a cura di Eugenio Dacrema è stato pubblicato su Equilibri. Coperto da copyright, è ripreso dietro autorizzazione]