Libia: la vittoria, la tragedia e il retaggio della guerra

[Nota: Traduzione di Simone Tartari, con Tamara Nigi,  dell’articolo originale di Paul Rogers per openDemocracy.net]

L’alleanza militare occidentale vede il risultato della guerra anti-Gheddafi come una vittoria della propria strategia. Ma se si fa un rendiconto veritiero della campagna Nato  – tenendo conto dei bilanci dei produttori d’armi – emerge una storia ben diversa.

Si sono concluse il 31 ottobre 2011, dopo otto mesi, le operazioni militari Nato in Libia legittimate dalle Nazioni Unite. Con la formula “dichiarazione di vittoria e ritirata“, il segretario generale dell’alleanza atlantica, Anders Fogh Rasmussen,  ha affermato che la missione è stata un evidente successo. La Nato continuerà ad aiutare la Libia a riformare i settori della difesa e della sicurezza – ha dichiarato, ma confida che sia l’Onu a guidare gli aiuti internazionali nell’area.

L’atteggiamento della Nato a conclusione della guerra si è rivelato ottimista, quasi euforico – in netto contrasto con le incertezze e le divisioni di tre mesi prima. In via ufficiosa, è possibile che la leadership Nato nutra perplessità su alcuni settori della missione. Ma la linea ufficiale vuole che l’operazione in Libia sia il trionfo del vasto e serrato impiego di forze aeree per il raggiungimento di un meritorio obiettivo politico: la fine di un regime brutale. A rendere il risultato ancora più soddisfacente, il netto contrasto con quel pantano che è stata l’impresa dell’alleanza [atlantica] in Afghanistan.

La Nato ha condotto 26.320 missioni operative, di cui 9.658 missioni d’attacco che hanno colpito oltre 5.000 obiettivi; nel computo sono comprese ricognizione, vigilanza dei cieli, rifornimento in volo e numerose altre forme di supporto. Il Ministero della difesa britannico fornisce ai media nazionali dati dettagliati sull’operato delle proprie forze;  si parla di 3.000 missioni operative, di cui 2.100 missioni d’attacco, per 640 obiettivi colpiti.

Un’anomalia che balza subito agli occhi nei rapporti resi dalla Nato, come in quelli degli inglesi, è l’assenza di vittime. È come se in più di 9.000 attacchi non fosse morto nessuno.

La cosa si potrebbe spiegare in tre modi:

* I raid aerei sono stati talmente efficaci da non aver provocato la morte di un singolo libico  (pura finzione)

* Non è possibile stimare il numero delle vittime (poco plausibile, dato che i sistemi di valutazione del danno provocato da bombe utilizzano una molteplicità di tecniche di monitoraggio molto specifiche, capaci di vedere se gli obiettivi sono stati distrutti o se occorre colpirli di nuovo)

* Il numero delle vittime è noto, ma è politicamente inopportuno renderle pubbliche (in linea con le precedenti azioni della coalizione, anche in Iraq, dove la parola d’ordine è stata “non si contano perdite”).

Un’amara eredità

Si potrebbe sostenere che poco importa se il numero di civili uccisi è stato esiguo. E se sono stati uccisi soldati libici, beh, questa è la guerra e sono cose che succedono; il conto delle vittime non interessa.

Tra i molteplici problemi, oltre a quelli legati alle politiche belliche e alla posizione che si assume rispetto alle vittime, vi è il retaggio di entrambi. Ogni soldato libico ucciso era una persona con una rete di rapporti familiari e di amicizie, e chiunque sia rimasto vittima di un raid della Nato è stato ucciso, per definizione, da stranieri. Indipendentemente dagli indubbi torti del regime di Gheddafi, chi era vicino alle vittime ha percepito nettamente che la responsabilità di queste morti è da ricondurre a un intervento esterno. All’interno della Nato non sembra esserci alcuna preoccupazione per questo aspetto, né per le implicazioni a lungo termine (vedi “Every casualty: the human face of war”, “Tutte le vittime: il volto umano della guerra”, 15 settembre 2011).

Inoltre, la NATO, in apparenza poco consapevole dei problemi di sicurezza conseguenti alle azioni congiunte dell’alleanza atlantica con i ribelli, sembra nutrire poche preoccupazioni al riguardo.  Esistono già numerose segnalazioni di violazione dei diritti umani da parte di soggetti ribelli, e fra queste si registrano anche le  imponenti rappresaglie contro la città di Tawargha fedele al regime, abbandonata dai suoi 30.000 abitanti proprio a seguito dell’accaduto (vedi La milizia libica terrorizza la città di Tawargha fedele a Gheddafi“, BBC News, 31 ottobre 2011).

Le incertezze sono aggravate dal rifiuto a disarmarsi posto da decine di milizie ribelli. Molti stanno infatti conquistando distretti e in certi casi se ne contendono brutalmente il controllo (vedi David D Kirkpatrick, “In Libia, i combattimenti potrebbero durare più della Rivoluzione”, New York Times, 2 novembre 2011). C’è l’evidente pericolo che si crei un vuoto, in termini di sicurezza, come è accaduto in Afghanistan dopo la prima campagna che rovesciò i talebani verso la fine del 2001. Ma nonostante questa situazione, la missione umanitaria della Nato è finita e l’alleanza se ne va (vedi “la Libia e la guerra di un decennio”, 1 aprile 2011).

Salve, gradite armi

Nel frattempo, fra i maggiori beneficiari della campagna libica vi sono aziende produttrici d’armi, specialmente quelle con sede in Europa occidentale. Le conclusioni del rapporto del ricercatore Andrew Feinstein, intitolato Campaign Against the Arm Trade [Campagna contro il commercio d’armi], rivelano una straordinaria catena di eventi in questo settore.

Tutto è iniziato con il recente ingresso nel giro del regime di Gheddafi, il quale si è poi lanciato in un frenetico acquisto di armi. A un’importante fiera del settore a Tripoli, a fine 2010, c’è stata una cospicua presenza di produttori inglesi.  E fino a pochi giorni prima che iniziassero le operazioni Nato, le aziende francesi e italiane erano ancora impegnate nella modernizzazione delle forze aeree libiche e degli equipaggiamenti militari.

Quando  è cominciata la guerra, nella terza settimana di marzo 2011, la Nato si è messa al lavoro per distruggere armi e  dotazioni militari in Libia, comprese quelle acquistate o potenziate di recente. Nelle operazioni di attacco spesso sono stati impiegati sofisticati e costosi missili aria-terra acquistati presso  – indovinate chi – i produttori europei di armi.

La sola Royal Air Force ha sparato 1.420 munizioni con guida di precisione, tra cui i missili anticarro Brimstone e i cruise Storm shadow. Solo nel primo mese del conflitto sono stati impiegati sessanta Brimstone, al costo di £ 175.000 (€ 203.533) ciascuno. I missili cruise Storm Shadow sono anche più costosi, con una quotazione di £ 790.000 (€ 918.804) ciascuno. Secondo una prima stima del ministero della difesa, serviranno fino a 140 milioni di sterline per rimpiazzare gli armamenti impiegati in guerra.

Da parte sua, nell’intento di ricostituire le forze armate, il nuovo governo libico spenderà grosse cifre per sostituire le migliaia di componenti delle dotazioni distrutte dalla Nato. Presso i funzionari libici si registra chiaramente l’intenzione di favorire le imprese con sede nei Paesi che hanno contribuito all’operazione Nato – in molti casi, le stesse aziende i cui prodotti hanno distrutto le scorte libiche.

Così il cerchio si chiude: Gheddafi compra armi dalle società europee che poi forniscono alla Nato i mezzi per distruggere quelle armi, creando per la Nato e la Libia il bisogno di sostituire le scorte perdute commerciando con quelle stesse aziende. In questo senso la Libia conferma quasi alla perfezione il vecchio detto secondo cui: “i commercianti d’armi più ingegnosi vendono a entrambe le parti, sperando che si annullino a vicenda – e da lì ricominciano a vendere ancora di più (vedi “Every casualty: the human face of war“, 15 September 2011).

Il nuovo imponente studio di Andrew Feinstein sul commercio mondiale di armi – The Shadow World: Inside the global arms trade (Hamish Hamilton, 2011) – traccia una mappa degli acquisti libici prima della guerra del 2011. Nei prossimi mesi si saprà di più sulle ricchezze conseguite dai produttori d’armi dopo la guerra, ma ci saranno pochissime informazioni sulle persone che quelle armi hanno ucciso.

Alla fine la Libia potrebbe riuscire a compiere la sua transizione verso un assetto di stato pacifico, stabile e capace di dimenticare. Se così fosse, sarebbe giustamente accolta con favore. Ma l’eredità oscura di questo breve conflitto potrebbe ancora ostacolare il processo, se non addirittura, continuando ad aleggiare, seppellirlo per sempre.

Paul Rogers è Professore al Dipartimento di Studi per la Pace alla Bradford University. Cura una rubrica settimanale sulla sicurezza globale per openDemocracy dal 28 settembre 2001, e collabora all’Oxford Research Group.

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