Egitto – Turchia: scenari del dopo Primavera Araba

[Nota: l’articolo originale di Eugenio Dacrema è pubblicato su Equilibri.net e coperto da copyright, ripreso dietro autorizzazione].

La “Primavera Araba”, cominciata quasi un anno fa, sembra ancora ben lungi dal potersi dire conclusa. Paesi come lo Yemen e la Siria sono ancora in balia delle proteste popolari o di vere e proprie guerre civili, mentre anche nei Paesi rimasti apparentemente illesi da questo periodo di profondi cambiamenti come le monarchie petrolifere del Golfo, l’Algeria, la Giordania o il Marocco, molti segni indicano la presenza di tensioni sociali sotto la superficie di una apparente tranquillità.  Anche in Tunisia ed Egitto, i cui dittatori sono stati cacciati all’inizio dell’anno, la fase di transizione durerà ancora per parecchio tempo. Gli occhi del mondo sono puntati soprattutto sull’Egitto, il più grande Paese arabo per popolazione, i cui sviluppi politici hanno da sempre determinato gli andamenti dell’intera regione.

Nel frattempo il mondo Occidentale (Stati Uniti ed Europa in primis, un tempo dominatori pressoché assoluti degli equilibri politici del mondo arabo) si dibatte in quella che è forse la più grande crisi economica della sua storia contemporanea, perdendo progressivamente buona parte di quel potere che sul piano internazionale gli aveva permesso di determinare l’andamento politico della regione mediorientale. Il declino dell’influenza occidentale sul Medio Oriente ha aperto nuovi spazi di manovra per altre potenze mondiali in ascesa, quali Russia e Cina, e soprattutto per una delle potenze regionali limitrofe al mondo arabo: la Turchia.

La Turchia di Erdogan: tra Europa e Medio Oriente

“Turkey is sexy now” ha affermato Serdar Sualp, sales manager della Arcelik, la più grande azienda turca di elettrodomestici, commentando il recente viaggio compiuto dal premier turco Erdogan attraverso il mondo arabo. Questa semplice ma efficace definizione in questi mesi non si applica solo all’attrattività economica della Turchia, ma anche alla sua diplomazia. Seguendo la strategia del Ministro degli esteri Ahmet Dovutoglu della “profondità strategica”, la Turchia negli ultimi anni ha cercato di staccarsi progressivamente dal suo ruolo di storico alleato musulmano dell’Occidente, per conquistarsi un ruolo autonomo di leadership all’interno dell’area mediorientale, utilizzando la duplice posizione di Paese democratico aspirante membro dell’Unione Europea e Paese musulmano con forti legami culturali e storici con il mondo arabo e islamico. I risultati sono stati finora certamente notevoli. Il governo turco è infatti riuscito ad inanellare una impressionante catena di successi diplomatici e colpi mediatici che ne hanno aumentato notevolmente l’influenza e il prestigio all’interno delle opinioni pubbliche e dei governi della regione. A partire dalla crisi diplomatica con Israele causata dall’assalto alla Freedom Flottilla, e il sapiente uso mediatico che la diplomazia turca ne ha saputo fare, la Turchia è riuscita a sfruttare la propria crescente popolarità nel mondo arabo-islamico e a incrementarla attraverso gli sviluppi travolgenti dell’ultimo anno.

Mentre infatti le storiche potenze leader della regione durante i moti popolari della Primavera Araba assumevano posizioni sempre più ambigue e deludenti, o per proteggere le proprie alleanze strategiche (l’Iran rispetto alla Siria, gli Stati Uniti rispetto all’Arabia Saudita e il Bahrain), o per timore di essere investiti da quegli stessi moti (Algeria, Arabia Saudita, Monarchie del Golfo, Marocco), la Turchia è riuscita ad esprimere una diplomazia molto più coerente e decisa e a ingraziarsi le opinioni pubbliche di tutta la regione. Il recente viaggio del premier Erdogan attraverso il Nord Africa è servito da passerella per la conseguente consacrazione dell’influenza turca sul mondo arabo e in particolare sulla sponda meridionale del Mediterraneo.

Nelle sue più recenti interviste il Ministro degli esteri turco Davotoglu non ha fatto mistero dell’obiettivo principale di questo grande attivismo diplomatico soprattutto riguardo ai rapporti con l’Europa: la Turchia   vuole riformulare i parametri delle proprie relazioni con la UE e con l’Occidente ripartendo da una base molto più paritaria, non volendo più subire i diktat di Bruxelles rispetto al successo della propria candidatura a membro dell’Unione, ma anzi puntando addirittura ad arrivare ad essere in grado di poter imporre le proprie condizioni.

Osservando la situazione odierna, con l’Europa che si dibatte nella crisi del debito e che addirittura mette in dubbio la sostenibilità della propria moneta unica, l’obiettivo turco non sembra affatto impossibile. E’ però necessario analizzare tutti gli aspetti del momento d’oro che la diplomazia di Ankara sta attraversando. Non sono pochi infatti i timori che l’iperattivismo internazionale del governo Erdogan rischi, sul medio-lungo periodo, di impegnare il Paese su troppi fronti, indebolendolo progressivamente.

Dall’inizio dell’estate, infatti, la Turchia ha riaperto lo scontro diplomatico con Israele, arrivando addirittura ad espellerne l’ambasciatore, mentre alle Nazioni Unite è impegnata in prima linea nella battaglia diplomatica per il riconoscimento dello Stato Palestinese, con crescente irritazione di un altro storico alleato strategico di Ankara, ovvero gli Stati Uniti. Nel frattempo è impegnata, anche in questo caso in prima linea, nel sostegno all’opposizione interna siriana, ospitandone perfino i summit sul proprio territorio e ha recentemente aperto un altro difficile fronte diplomatico con l’Europa e Israele riguardo a Cipro, e allo sfruttamento dei ricchissimi giacimenti di gas al largo della parte greca. Si è inizialmente opposta all’intervento occidentale in Libia, alienandosi gli alleati della NATO, ma ha in seguito accettato di installarne sul proprio territorio il nuovo Radar strategico di difesa.

A questa lista di fronti politico-diplomatici nuovi, vanno inoltre aggiunti alcuni temi “tradizionali” che Ankara non ha mai veramente risolto quali il problema curdo (che potrebbe esacerbarsi nuovamente soprattutto in caso si aggravi la situazione a Nord della Siria), la disputa con l’Armenia riguardo i massacri avvenuti durante la Prima Guerra Mondiale, e la grande disparità economico-sociale tra l’Est e l’Ovest del Paese.

Su tutti questi scenari dagli esiti incerti si impone inoltre il dubbio sulla reale solidità della crescita economica turca. Il PIL del Paese ha infatti fatto registrare sviluppi impressionanti sotto i governi Erdogan, arrivando nel 2010 ad essere l’unico Paese al mondo a registrare un tasso di crescita a due cifre (circa il 10%). Non sono pochi, però, coloro che guardano a questa apparente sfolgorante sviluppo con scetticismo, dovuto soprattutto ai dati relativi alla partita corrente turca, che segna un deficit che quest’anno ha raggiunto la percentuale record del 9% sul PIL. La crescita turca, infatti, si basa soprattutto sugli investimenti esteri mirati all’incremento dei consumi, mentre il tessuto industriale del Paese rimane ancora piuttosto debole nei mercati internazionali. Una situazione, questa, già osservata in altri Paesi come la Grecia e la Spagna, che hanno recentemente pagato un caro prezzo per aver trascurato i propri deficit nella partita corrente dopo alcuni anni di fiorente crescita economica.

Il vero rischio è che la Turchia, che adesso riesce a giostrarsi tra i “due mondi” occidentale e mediorientale con impressionante abilità, possa rimanere schiacciata fra essi dalla sua stessa strategia. Non è infatti improbabile che nei prossimi anni le basi fragili dell’apparente ottimo trend economico del Paese determinino una brusca frenata della crescita, magari in uno scenario a medio-lungo termine in cui l’Europa si trovi finalmente fuori dalla crisi, ribaltando così nuovamente le posizioni di forza. Nel frattempo esistono forti probabilità che molti degli scenari diplomatici in cui il Paese è impegnato subiscano sviluppi indesiderati come ad esempio una possibile guerra civile siriana, che vedrebbe la Turchia, suo malgrado, invischiata nel conflitto sia per il suo ruolo di Paese confinante, sia soprattutto a causa del grande attivismo che Ankara ha profuso finora a favore dei moti popolari in Siria e che potrebbero trascinarla perfino in uno scontro aperto col regime di Assad.

Piazza Tahrir, foto dell'utente Flickr Jonathan Rashad su licenza CC

L’Egitto alla ricerca del proprio ruolo

Nel frattempo, non bisogna trascurare i possibili sviluppi all’interno dello stesso mondo arabo, che al momento la Turchia sembra essere in grado di tenere, almeno in parte, sotto la propria influenza anche grazie alla grave ma momentanea debolezza che caratterizza in questi mesi i suoi tradizionali protagonisti. Potrebbe infatti non essere così lontano il momento in cui i maggiori Paesi arabi usciranno dalla fase più calda e instabile della Primavera Araba che li ha visti concentrati soprattutto sui loro fronti interni, alla ricerca di un nuovo prestigioso riposizionamento sul piano internazionale.

Paesi come l’Arabia Saudita e l’Egitto, che ora si dibattono nell’instabilità politica cercando di trovare delle nuove fondamenta per la propria stabilità e legittimità dopo i profondi cambiamenti che quest’ultimo anno ha portato soprattutto sul piano sociale e della pubblica opinione, in pochi anni potrebbero tornare a riproporsi nell’arena internazionale cercando di riconquistare i ruoli di leadership e prestigio di cui la Primavera Araba li aveva in parte momentaneamente privati .

L’interesse degli analisti e delle diplomazie è rivolto soprattutto verso il potere che un nuovo e democratico Egitto sarebbe in grado di esercitare nella regione, libero dalle briglie che il trentennale regime di Mubarak gli aveva imposto. Se è vero, infatti, che ora tutti guardano alla Turchia come possibile modello per i futuri assetti istituzionali degli stati arabi post-rivoluzionari, è anche vero che questo confronto può reggere fino a un certo punto.

Quello che infatti risulterà importante nei prossimi anni saranno soprattutto le strategie di transizione dal punto di vista sociale, politico ed economico che i Paesi arabi dovranno esprimere per apportare reali cambiamenti rispetto ai lunghi decenni di dittatura. Su questo tema la Turchia non può presentarsi come un modello davvero valido avendo alle spalle dinamiche di democratizzazione molto specifiche e legate ad altri equilibri internazionali e ad altri periodi storici.

Sarà soprattutto l’Egitto,quindi, nella sua veste di più grande Paese arabo e di capofila (subito dopo la Tunisia) delle rivoluzioni di quest’anno, il Paese a cui gli altri guarderanno con maggiore interesse come esempio per la risoluzione delle complesse questioni che la transizione da sistema autoritario a sistema pluralista e democratico ha portato e porterà nei mesi e negli anni a venire.

Il suo futuro ruolo internazionale, già temuto e sorvegliato con sospetto da altri attori come Israele, Europa e Stati Uniti, sarà anche la cartina di tornasole di quanto la lunga e tumultuosa primavera democratica sarà stata in grado di potenziare la forza diplomatica del mondo arabo. Lo storico accordo di riconciliazione firmato tra Fatah e Hamas al Cairo la scorsa primavera con la mediazione egiziana, insieme all’affare dello scambio tra il soldato israeliano Gilad Shalit e i prigionieri palestinesi, avvenuto tra Hamas e Israele sempre grazie all’opera diplomatica del Cairo (mentre ancora il Paese è in parte percorso dalle tensioni del dopo rivoluzione), hanno dato il primo “assaggio” di quello che il nuovo Egitto democratico potrebbe essere in grado di ottenere sulla scena internazionale già nel prossimo futuro.

Conclusioni

Il governo di Erdogan sembra essere consapevole del potenziale egiziano, ed è infatti stato l’Egitto la prima tappa del suo tour trionfale attraverso i Paesi arabi. Durante gli incontri bilaterali del Cairo Erdogan e Davotoglu hanno sottolineato con forza e più volte la necessità di una futura salda alleanza turco-egiziana in grado di determinare gli equilibri del Medio Oriente. A questo scopo il premier turco ha portato con sé una numerosa delegazione di uomini d’affari turchi per la firma di numerosi contratti e accordi che porteranno nei suoi piani a rafforzare sin da subito i già forti legami economico-commerciali fra i due Paesi.

Le possibilità di una alleanza turco-egiziana dal grande potenziale per gli equilibri della regione è tutt’altro che improbabile. La vera questione che si presenterà nei prossimi anni verterà invece su quale dei due Paesi sarà il vero dominatore dell’alleanza e soprattutto su quanto la Turchia riuscirà a piegarla per i suoi scopi rivolti soprattutto all’Europa e all’Occidente.

La storia passata del Medio Oriente ci dimostra come la sua parte araba abbia sempre mal sopportato i tentativi di egemonia da parte delle altre potenze non arabe della regione (il caso dell’Iran è particolarmente indicativo) o esterne ad essa (URSS, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia). Mentre infatti ora la Turchia ed Erdogan vengono guardati con ammirazione e gratitudine e molto inchiostro viene versato per ricordare quanto Turchia e mondo arabo siano legati da grandi rapporti culturali e storici, in pochi anni questo stesso mondo arabo potrebbe ricordarsi di come questi rapporti storici derivano in primo luogo dall’era ottomana e dalla dominazione turca subita dagli arabi per secoli. Un ruolo che certamente le società arabe hanno dimostrato di non voler più recitare.

Non è inoltre da escludere che l’influenza turca possa essere minata soprattutto dalla possibilità che vengano al pettine alcuni nodi irrisolti che riguardano la sua crescita economica e i numerosi scenari internazionali in cui il paese è impegnato.

In questo possibili scenari futuri, il Paese che più degli altri si candida a guadagnare a discapito della Turchia in termini di influenza ed egemonia nella regione è certamente l’Egitto, se sarà davvero in grado di portare la propria transizione democratica a buon fine.

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