Sud Sudan, la difficoltà di essere Stato

Il 9 luglio di quest’anno il mondo ha festeggiato la nascita del 54° stato africano: il Sud Sudan. Si è concluso così, almeno apparentemente, il periodo di transizione iniziato con il trattato di pace del giugno 2005, che concludeva oltre venti anni di guerra fratricida con il Nord arabo del Paese.
Negli anni tra il 2005 ed il 9 luglio 2011 c’è stato un periodo di “autonomia governativa” guidata dal vice presidente sudanese John Garang per i primi mesi e poi, dopo la morte in un dubbio incidente aereo di questi, dall’attuale presidente sudsudanese Salva Kir, allora vicepresidente del Sudan unito.
Dopo il referendum del 9 gennaio 2011, che ha sancito l’indipendenza e la secessione dal Nord, le speranze di un luminoso futuro hanno contrassegnato i discorsi e la vita del popolo sudsudanese.

Purtroppo però ora si cominciano a percepire i primi squilibri nonostante tutte le premesse e le promesse di pace e fratellanza del dittatore Omar-el-Bashir.

I problemi irrisolti tra Nord e Sud sono dovuti in gran parte ad alcuni “signori della guerra” locali e sparpagliati lungo il confine tra i due Stati. Questi piccoli “colonnelli” di mini-eserciti di etnie diverse avevano aiutato l’esercito rivoluzionario del Sud (SPLA) contro il Nord, quasi sicuramente dietro la promessa di avere potere nel futuro Stato indipendente. La differenza di etnia e le richieste elevate di questi signori fanno sì che ora questi rivendichino la loro autonomia locale, nonché posizioni di potere che non hanno nulla a che vedere con uno Stato che nasce in un contesto internazionale e con l’appoggio dei maggiori stati del mondo, USA e Cina.
Questo porta ad una instabilità continua proprio nella zona di confine della regione del “Blue Nile”, del Sud Kordofan, del Sud Darfur e nella zona di Abyei, che apparterrebbe al Sud, ma che è contesa per via della ricchezza di petrolio che vi si trova.

Al momento la situazione è la seguente: giorni fa, uno dei “colonnelli-generali” è stato ucciso e il suo mini-esercito sicuramente perderà la sua energia. Ci sono però ancora “ribelli” che si stanno giocando tutto sul fronte del confine. Fortunatamente sono iniziati nuovi colloqui tra i due Stati, alla presenza del coordinatore dell’Unione Africana, per sistemare e dirimere alcune questioni essenziali, come i diritti sui pozzi petroliferi e la ripartizione dei guadagni derivati.

Immagine di Hannanik ripresa da Flickr rilasciata con licenza Creative Commons 2.0

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Un altro problema serio è quello delle etnie e della divisione dei “pulsanti del potere” tra queste nel nuovo governo (o, meglio, nei governi che da ora in poi si succederanno fino alle prossime elezioni). La popolazione Dinka, maggioritaria e dominante, ha il presidente Salva Kir e molti ministri ma dovrà rassegnarsi, anche in virtù di accordi con le altre etnie, a mollare alcuni posti e alcuni ministeri. Conoscendo il carattere autoritario e piuttosto arrogante di questo popolo è difficile pensare che tutto sarà facile: resta solo che sperare nella guida dell’Unione Africana a un concetto di gestione democratica.

Un buon segno era stato quello del referendum, a cui ha partecipato il 98% degli aventi diritto al voto e le donne in particolare hanno preso parte in modo massiccio alla fase di promozione del referendum. Ancora una volta l’universo femminile, qui assolutamente non emancipato, ha dato un grande esempio di intelligenza politica.

Altra questione aperta riguarda le due condanne applicate dal mondo occidentale: la condanna di Omar-el-Bashir per crimini contro l’umanità, in realtà non applicata visto che continua a viaggiare liberamente nonostante un mandato di cattura internazionale; e l’”embargo” economico posto al Sudan del Nord. Ovviamente questo non facilita la pacificazione ma anzi irrita il Sudan e lo induce a ritorsioni di ogni genere verso il Sud filo-occidentale, appoggiato anche dalla Cina, per chiari vantaggi economici.

L’ultimo problema che si percepisce dall’esterno è proprio quello economico. La situazione, a mio parere, sta precipitando, con ripercussioni che saranno tutte da valutare. Paesi come USA, Cina ed Europa hanno appoggiato la secessione, ma non si capisce come possa svilupparsi un Paese nuovo, nato da una situazione di povertà assoluta e totale, senza la benché minima infrastruttura e attività industriale in nessuna parte del Paese, e magari con soli aiuti economici senza guida tecnica e progettuale.
Peserà anche la decisione del Governo di creare una nuova città capitale, logisticamente più centrale, rispetto a Juba, nella zona di influenza dei Dinka (quindi a dispetto delle integrazioni etniche possibili). Questo comporterà costi enormi e senza possibilità di sviluppo. Non esistono strade degne di questo nome; gli aeroporti sono tutti al di sotto degli standard, uno solo con pista in asfalto; non esistono ferrovie, nonostante che il territorio sarebbe assolutamente adatto, data la pianura sterminata, a questo tipo di trasporto; l’elettricità c’è solo a Juba; la rete telefonica cellulare non ha copertura totale.

Forse una guida tecnico progettuale da parte dei Paesi “avanzati” potrebbe aiutare il Sud Sudan a svilupparsi secondo un modello economico, sociale ed ecologico migliore di quanto siamo stati capaci di ottenere finora nel mondo occidentale. Ma questo è un sogno: che i Paesi capitalisti si convertano a una politica di crescita su modelli eticamente sostenibili sarà difficile finché gli stessi sono gestiti dal capitale di accumulo e non di investimento sociale.

Una proposta per chi andrà ad aiutare in qualsiasi modo il popolo sudsudanese: aiutiamoli a capire che poco lavoro per tutti porta una felicità diversa dal denaro per pochi.

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