Un ricordo di Wangari Maathai, Nobel per la Pace

[Il 14 ottobre scorso si è svolta la commemorazione di Wangari Maathai, fondatrice del Green Belt Movement e Premio Nobel per la Pace, scomparsa il 25 settembre 2011. Così la ricorda l’amica e collega Maggie Baxter.
Traduzione di Chiara Orsini, con Tamara Nigi, dell’articolo originale di Maggie Baxter per openDemocracy.net]

Non è da tutti ricevere certi elogi, certi messaggi d’affetto, di speranza e di stima. Sono i messaggi di leader mondiali come il Dalai Lama, Barack Obama, il principe Carlo, il presidente Bakari, il vescovo Desmond Tutu, oltre a quelli dei cittadini kenyani, che possiamo leggere nel sito web del Green Belt Movement, l’amata organizzazione di Wangari Maathai.

La “Prof.” Wangari Maathai era davvero una persona speciale. Attivista e militante coraggiosa, studiosa dall’eloquio semplice, astuta donna politica dalle doti strategiche, collega, Premio Nobel, amica, madre e nonna. Ho incontrato la “Prof.” a un incontro cui partecipavano donne africane per discutere di minacce ambientali, della pratica di piantare alberi, di mobilitazione femminile e dei processi di sviluppo delle loro comunità. Ammetto di essere stata affascinata da lei fin dal primo momento. Le sue parole erano dettate dall’esperienza: inconfutabili e basate sui fatti. All’epoca dirigevo la divisione sovvenzioni di Comic Relief [n.d.t. ente di beneficenza britannico che sviluppa le sue iniziative intorno al concetto di divertimento] e avevo la responsabilità di investimenti milionari in Africa e nel Regno Unito. Il giorno dopo il nostro incontro l’ho presentata a Comic Relief e, senza saperlo, stavo aprendo le porte a risorse che avrebbero sostenuto e fatto crescere il Green Belt Movement nei successivi vent’anni.

L’assegnazione del Premio Nobel per la Pace nel 2004, inaspettata, ha fatto balzare la “Prof.” in un’altra sfera. La formula promossa è diventata allora quella descritta dalla metafora del “tripiede”  – con la necessità, per l’armonia e il progresso del futuro mondiale, di un equilibrio tra conservazione delle risorse, governance efficace e pace. La “Prof.” sarebbe entusiasta di sapere che l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace annunciata la scorsa settimana (il premio andato a Ellen Johnson Sirleaf, Leymah Gbowee e Tawakkul Karman) assicura che a ricevere la sua eredità saranno tre donne determinate e modello per le altre.

Un albero in onore di Wangari Maathai, Nairobi, 7 ottobre 2011. Foto Flickr di ILRI su licenza CC.

Con l’annuncio nel 2004  dell’assegnazione del Premio Nobel, la “Prof.” era diventata una personalità internazionale – tutti volevano qualcosa di suo. E così è stato fino alla fine. Per me è stato un onore essere invitata, insieme ad Ed Posey della Gaia Foundation, a diventare amministratrice fiduciaria del Green Belt Movement International, nato per promuovere questi valori di interesse globale.  Sono seguite settimane intense – in cui è stato necessario trovare un equilibrio fra le richieste provenienti dal mondo, il desiderio di diffondere il più possibile il nostro messaggio e, al tempo stesso, l’esigenza di portare avanti e mantenere il Green Belt Movement in Kenya.

Il Nobel per la Pace ha premiato il lavoro e la missione di un’organizzazione che ha dimostrato di saper costruire e valorizzare le competenze, le specificità, il patrimonio di chi vive in comunità che si trovano a molte miglia di distanza dalle capitali o dai centri di potere. Un’organizzazione che ha promosso l’idea che le risorse del mondo dovrebbero recare vantaggio sia a chi vive nell’indigenza e con un futuro incerto, sia alle comunità che non subiscono una minaccia del genere.

Sono pochi ad avere il coraggio di dire la propria, la forza di rispondere alle critiche e vivere con la paura di ritorsioni o addirittura di minacce di morte, l’altruismo per combattere a favore di chi ha meno accesso al potere, la lucidità e l’integrità per saper riconoscere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato.
La presenza della “Prof.” si faceva sentire ovunque andasse. Ricordo una visita al Womankind in cui si limitò a ringraziare tutti per quello che facevano in nome dei diritti delle donne di tutto il mondo – nessuna lezione, solo pura riconoscenza. La sua presenza conferiva solennità a qualsiasi appuntamento internazionale. Quando frequentava i corsi di formazione con i colleghi, era solidale con loro e li sosteneva. Piccole e grandi cose, locali e mondiali, che mettevano in contatto le élite con il quotidiano, senza perdere mai di vista la ragione per cui era importante farlo. L’appassionava battersi per i diritti umani, la dignità e le pari opportunità di coloro  che troppo spesso sono ignorati.

Nel corso degli anni ci sono  stati molti incontri per gestire situazioni che riguardavano lo status di assegnatario del Nobel per la Pace, ma anche per orientare in modo strategico il futuro di un’organizzazione nazionale ormai diventata internazionale. “Stavo pensando…” è il ricordo indelebile di una sua frase: di solito la “Prof.” la diceva il mattino, dopo aver preso decisioni la sera prima e averci dormito su, e puntualmente portava a un loro stravolgimento. Era diventata la gag di ogni incontro, ma al tempo stesso si tremava all’idea che le decisioni sarebbero state riviste, disfatte e rifatte. Uno dei luoghi di incontro era Parigi. In quella città ci siamo viste tre volte. La prima subito dopo l’assegnazione del Nobel, la seconda in occasione di significativi passi avanti compiuti nel lavorare alla forma e al contenuto di una nuova costituzione, e l’ultima lo scorso luglio. Non immaginavamo che sarebbe stato l’ultimo incontro, sebbene sapessimo che da almeno un anno la “Prof.” era alle prese con problemi di salute.

Di recente, riflettendo su un meeting tenuto a Londra da un’altra organizzazione, nel quale l’avevamo tirata per le lunghe su come influenzare il mondo della politica, ho pensato a ciò che avrebbe detto la “Prof.” in quell’occasione. Ci avrebbe ricordato cosa contava davvero, ci avrebbe reso partecipi della sua visione, si sarebbe pronunciata senza remore e avrebbe indicato la strada da seguire. Non avrebbe cavillato o giustificato l’inazione o la poca azione. Probabilmente avrebbe provocato un po’ di sconcerto, sapendo bene il perché, ma aveva il coraggio, la convinzione e il fascino per far cambiare idea alle persone. Senza pretese, impopolare presso chi pensava che dicesse l’indicibile, coraggiosa nel dire quello che la gente non avrebbe voluto sentirsi dire. Mai dogmatica, sempre culturalmente sensibile, valorizzava incessantemente i piccoli passi avendo un’idea chiara di cosa era necessario raggiungere.

Che cosa ho imparato stando vicino a una persona così speciale? Innanzitutto che non c’è bisogno di essere complicati per comunicare un messaggio importante – si può usare un linguaggio semplice, che è decisamente più potente e compreso da tutti. La seconda cosa è che si deve dire quello che si pensa e sentire profondamente ciò che si dice. Non abbiate paura di dare il vostro contributo e abbiate anche il coraggio di affrontare una caduta. E, terzo, apprezzate le persone finché sono in vita e non vivete con il rimorso di non aver detto quello che volevate dire.

Nel concludere riprendo da dove ho cominciato. Abbiamo perso una persona speciale. Sono stata fortunata ad averla conosciuta, e sono molto triste per averla perduta, ma mi auguro che qualcosa di lei sia rimasto in me.

Maggie Baxter è amministratrice fiduciaria del Green Belt Movement International e fondatrice di ROSA, il primo Fondo inglese per donne e ragazze.

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