Il tema della salute per i cittadini migranti rappresenta uno degli elementi cardine di ogni piano d’azione volto alla realizzazione di un processo di integrazione a tutto tondo.
Tutela della salute come diritto inalienabile per ogni essere umano, in un’ottica di diffusione di informazioni non solo relative ai servizi che il sistema sanitario deve garantire ai nuovi cittadini (o meglio chi aspira a diventarlo) che giungono nel nostro Paese, ma anche di una serie di buone prassi preventive da attuare per vivere una vita qualitativamente migliore.
Un dato preoccupante rilevato nel corso dell’87° Congresso Nazionale SIGO, durante un workshop dal tema “Salute e migrazione: dall’emergenza all’integrazione”, organizzato dalla multinazionale farmaceutica Teva-Theramex, è il crescente aumento delle interruzioni di gravidanza da parte delle donne immigrate.
Stando ai dati Caritas 2010, negli ultimi anni si è assistito a un incremento notevole dell’immigrazione femminile: in Italia le donne immigrate rappresentano il 51,8% del totale degli immigrati presenti nel nostro Paese.
Dalle problematiche analizzate nel corso del simposio di Teva è emerso che le donne immigrate si rivolgono alla Sanità pubblica principalmente per l’assistenza durante la gravidanza, per il parto e l’interruzione di gravidanza. L’ostacolo principale di questa tendenza non è da ricondursi a un problema di matrice culturale o religiosa, ma di natura linguistica: ovvero di scarsa comprensione della lingua.
In particolare, sono le donne di nazionalità cinese e nordafricana a presentare serie difficoltà di interazione con i medici dovute a una scarsa conoscenza della lingua italiana.
A penalizzare le donne straniere, soprattutto quelle di più basso status sociale, nell’accesso ai servizi sanitari Sono dunque problemi di comunicazione. Difficilmente, infatti, si tiene conto delle specificità culturali e sociali della popolazione straniera residente.
Inoltre, secondo i dati diffusi dal ministero della Salute sull’attuazione della “legge contenente le norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza (legge 194/78), la conoscenza della fisiologia della riproduzione e dei metodi per la procreazione responsabile tra le donne immigrate è scarsa: pochissime sono in grado di identificare il periodo fertile e in generale i metodi per la procreazione responsabile sono conosciuti in modo superficiale e utilizzati in modo improprio”.
Da un esame comparativo sulla situazione delle donne in Africa, i dati dell’AMREF, la principale organizzazione privata che da più di 50 anni tutela il diritto alla salute in Africa Orientale, ci dicono che in Africa 1 donna su 16 muore per complicanze legate alla gravidanza, mentre in Europa solo 1 su 30.000: ciò che è scontato per le donne nel mondo sviluppato – un’ostetrica preparata, una sala operatoria, antibiotici e medicine che, in caso di complicazioni, permettono di intervenire rapidamente sulla madre e sul suo bambino – in Africa sono un lusso accessibile a pochi e solo nei grandi centri urbani. Ogni anno in Africa, circa un milione e mezzo di madri e neonati muoiono durante la gravidanza, il parto o i giorni successivi ad esso, per mancanza di assistenza medica appropriata e per l’impossibilità di gestire consapevolmente la propria sessualità e di programmare le proprie gravidanze. Molte opportunità di salvare vite di neonati con i programmi esistenti vengono sprecate: due terzi delle donne in Africa riceve assistenza prima del parto, ma solo il 10% riceve trattamenti preventivi per la malaria, e solo l’1% delle madri sieropositive riceve il trattamento consigliato per prevenire la trasmissione dell’Aids da madre a figlio.
Nell’87° Congresso Nazionale SIGO, l’obiettivo principale è stato l’elaborazione di proposte utili per affrontare il problema della salute delle donne immigrate in tutte le regioni italiane: “La salute delle donne immigrate e in particolare i problemi legati alle interruzioni volontarie di gravidanza – è stato detto – sono un’emergenza che chiede risposte, e queste devono venire dalla società, dalla politica, dai servizi e dagli operatori sanitari che hanno un ruolo strategico in questo processo d’integrazione”.
Ciò che non andrebbe mai dimenticato è la condizione psicologica che queste donne troppo spesso sperimentano, legata alla stessa condizione di “migrante”: una condizione connotata da fattori come instabilità economica e occupazionale, seguìta dalla mancanza di un luogo sicuro dove condurre una vita serena, il che apre uno spaccato – se non addirittura una voragine – sullo scottante problema delle politiche abitative.
Tutto ciò può e deve cambiare. C’è bisogno soprattutto di figure professionali chiave, come quella del mediatore culturale, che supera nettamente la figura del semplice interprete. Tale figura, facendo perno su un particolare tipo di sensibilità empatica unita a competenze proprie dell’ambito socio-sanitario, si trasforma in una sorta di “ponte” tra il medico e la paziente, soffermandosi sulle specificità culturali reciproche e favorendo così la conoscenza autentica e la vera integrazione.
Dal presidente del Parlamento Panafricano, Gertrude Mongella, che sta portando avanti un’azione per la salute di madri, neonati e bambini attraverso l’Unione Africana e il Parlamento Panafricano a Johannesburg, arriva un monito che vogliamo estendere come messaggio anche al nostro Paese in virtù di un senso civico profondo, connotato di un’umanità universale: “Garantire a ogni donna, bambino e neonato le cure essenziali dipenderà da noi tutti, perché tutti abbiamo un ruolo, come responsabili politici nell’assicurare interventi essenziali e uguaglianza.”