[Nota: Traduzione di Giorgio Guzzetta, dell’articolo originale di R. Tousi per openDemocracy.net]
“Sono entrati nei nostri accounts. Perchè non prendersi anche il disturbo di rispondere alle email che ancora non ho aperto?” La reazione di Samira alla notizia di un massiccio attacco digitale contro i netizen iraniani è segno della tensione psicologica e della vera e propria paranoia – che spesso diventa sarcasmo – provocata dal vivere sotto costante sorveglianza.
Sono circa 300000 gli utenti internet (sopratutto iraniani) la cui posta elettronica è stata intercettata in questa occasione, ma il potere subdolo dell’invasività di questo attacco ha fatto sì che tutti si sentissero sorvegliati. I nuovi strumenti di controllo sono fisici, oltre che virtuali. All’inizio del nuovo semestre gli studenti dell’università di Teheran si sono trovati di fronte, nei vari campus, un labirinto di barriere e di controlli elettronici, guardati a vista da una rete di telecamere di sorveglianza.
Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, in passato anche sindaco di Teheran, sembra aver trasformato la vecchia università in una fortezza. Ma è fragile l’autorità che vi esercita. Lo dimostra il fatto che negli ultimi anni ha interrotto una tradizione antica, evitando di partecipare all’inaugurazione dell’anno accademico, il che fa specie, per uno come lui che non rifugge i palchi d’onore.
Le folle che avevano invaso le strade nel giugno 2009, lanciandosi nelle tumultuose proteste che seguirono, sono scomparse. La nuova generazione, tuttavia, è ancora in disaccordo con chi la governa, anche se sembra parlare con maggior circospezione. Le tensioni generazionali, inoltre, vanno al di là delle università e dei raggruppamenti liberali. L’elite religiosa esprime dubbi astrusi riguardo al rapporto con la tradizione. Il potente Ayatollah Mesbah-Yazdi nel settembre 2011 ammonisce i fedeli che un’ “ondata infetta”, incarnata dai “seminaristi che passavano nottate intere su internet”, aveva colpito i circoli religiosi.
Un altro importante ayatollah, Makarem Shirazi, si rammarica del fatto che “nel paese, molti giovani seminaristi non indossano più gli abiti religiosi”. In un paese in cui la legge concede numerosi privilegi a chi indossa i segni delle fede, la riluttanza della maggioranza di giovani chierici a mostrare gli abiti che li caratterizzano è un segnale molto chiaro, seppure indiretto, delle tensioni latenti che a volte esplodono in episodi di violenza. Come nel caso di Abbas Rosmeh, che in ottobre è stato assalito dalla folla dopo un incidente in uno dei quartieri più poveri di Teheran. Alla stampa ha dichiarato che “gli insulti contro la religione, la rivoluzione e lo stato” erano più difficili da sopportare delle botte ricevute. I media hanno insistito, in questo e in casi simili, sulla necessità di “proteggere il popolo contro i malviventi”. Ci sono infatti controlli notturni nelle principali piazze della città, mentre la “polizia morale” continua a pattugliare i centri commerciali e i parchi.
Un dogma traballante
Fuori Teheran la sicurezza ha un sapore tutto particolare. L’ingresso nella città di Tafresh (a circa 200 km a sud-est di Teheran) è un labirinto di strade pattugliate e di incroci sorvegliati. Ho controllato il mio hejab per essere sicura che nessuna empia ciocca di capelli “vietati” uscisse fuori. Questa è una regione, a solo un’ora dalla città santa di Qom, spesso descritta come il cuore rurale e conservatore. Ben presto si incontra un segno che ci ricorda che oggi è una delle date più importanti nel calendario della Repubblica Islamica: l’ultimo venerdì del Ramadan quando ha luogo il “Quds Day”, un raduno di solidarietà con il popolo palestinese, sponsorizzato dallo stato. Accanto alla moschea vicino a Piazza Fam aspettiamo dietro una barricata vicino a un gruppetto di auto e a qualche decina di motorini sgangherati.
Il prolisso sermone dell’imam risuona nelle strade normalmente tranquille. Non riesco a fare a meno di sorridere divertita, mentre lo sento difendere la Palestina e paragonare il presidente americano Barack Obama a un tragico faraone Egiziano. I raduni del giorno del Quds si basano sul dogma della Shi’a riguardante il rapporto tra oppresso e oppressore. L’Ayatollah Khomeini, padre fondatore della Rivoluzione Islamica, ha detto: “Noi siamo dalla parte degli oppressi in qualsiasi situazione. I Palestinesi sono oppressi dagli Israeliani, per cui noi siamo dalla loro parte.”
Però i venti che soffiano dal movimento verde in Iran e dalla primavera araba stanno mettendo sottosopra il mondo in quest’area. Il paesaggio politico sta cambiando radicalmente. L’Iran respinge gli appelli palestinesi all’ONU per uno stato indipendente, schierandosi di fatto con Israele. Inoltre il paese appoggia il criminale regime siriano di Bashar al-Assad’s.
Le autorità di Teheran hanno perso qualsiasi credibilità potevano vantare tra la popolazione araba, prevalentemente Sunnita. E’ difficile per un Iraniano rimanere fedele a una ideologia costantemente cangiante che cerca di giustificare cose che sembrano del tutto indifendibili.
Dietro i cordoni della polizia in Tafresh osservo mentre i partecipanti al corteo – non più di 200 – sfilano ordinatamente. Somiglia stranamente al set di un film. La piccola folla di abitanti del luogo, vestiti con abiti spesso logori, sbirciano il corteo e si allontanano chiacchierando tranquillamente. Alcuni passanti si congratulano ironicamente con un uomo dai capelli grigi per essere finalmente riuscito a sostituire il suo mulo con un motorino.
Una coppia di poliziotti in uniforme passa accanto al gruppo di spettatori salutandoli rispettosamente. Qualcuno chiede “Cosa farebbero i Palestinesi senza il supporto delle migliaia di manifestanti di Tafresh?”. In realtà i 50000 abitanti di questa città sembrano del tutto indifferenti, e perplessi quanto noi visitatori sul perchè tutta la città sia ferma per il raduno. Sono spettatori distratti di un spettacolo organizzato da uno stato autoritario, marginale anche nei quartieri più conservatori di Tafresh.
L’eco di Qajar
Per tre mesi uno spettacolo del tutto diverso ha avvinto il pubblico del teatro Iran-Shahr di Teheran. Il musical Khordeh Khanoum inizia con la proiezione di un famoso film TV della metà degli anni settanta. Il film descrive l’assassinio di Naseredin Shah, della dinastia Qajar (1794-1925). Il folto pubblico si sgola quando il re, noto come “centro dell’universo”, viene ucciso.
La dinastia Qajar è vista come il fumo negli occhi nella memoria collettiva iraniana. Un vecchio proverbio dice: “quello che Alessandro Magno non ha ridotto in cenere e i Mongoli non hanno demolito è stato venduto dai famelici Qajars.”
Il paragone con l’epoca Qajars è molto frequente oggi in Iran. Quando una sitcom intitolata Bitter Coffee, che si svolge in una corte corrotta e servile dell’inizio del diciannovesimo secolo – è stata scartata dalla TV di stato IRIB, il suo produttore Mehran Modiri, molto popolare, ne ha fatto direttamente un DVD. La stampa locale riferisce che nel gennaio 2011 le vendite sono arrivate rapidamente a 14 milioni.
In settembre è stato chiuso il giornale Shahrvand-e-Emrooz. Aveva pubblicato in prima pagina un’immagine di Mahmoud Ahmadinejad e dei membri del suo governo vestiti da cortigiani dell’epoca Qajar.
Il musical sull’era Qajar è meno esplicito ma pieno di allusioni e doppi sensi sulla situazioni politica. Il pubblico ha applaudito quando Mirza, uno dei protagonisti, ha annunciato: “Questo frutteto si è inaridito a causa della nostra indifferenza”. Lo spettacolo finisce con il pubblico in piedi per un calorosissimo applauso mentre l’intero cast canta: “Non c’è altro rimedio per il nostro paese se non unità e resistenza.”
Ho visto lo spettacolo alla fine di Agosto, mentre i ribelli libici celebravano la caduta di Tripoli. Circa 50000 persone sono state uccise in Libia dall’inizio della rivolta contro il regime di Gheddafi. In Siria si dice che i morti sono più di 2000.
La resistenza “cantata” che ho visto quella sera era molto distante dal terremoto che ha sconvolto il medioriente. Gli iraniani hanno un diverso modo di lottare, basato sui successi ottenuti un secolo fa, nel 1905-6, quando i capi tribù e le loro armate hanno rovesciato la dinastia Qajar e instaurato il primo parlamento costituzionale del medio oriente. Oggi non riesco nemmeno a immaginare combattenti armati tra i giovani di questo paese, istruiti e ben educati.
Le vittime tra quelli in prima linea nella lotta per la democrazia – morti o chiusi in carcere – sono sopratutto studenti, attivisti, sindacalisti, giornalisti, scrittori, politici e chierici. L’arma letale in loro possesso è la penna.
La barchetta in mezzo al mare
La ritorsione contro la società civile ha usato armi vere, ed è stata impietosa. Ma questo fatto di per se può causare una tale agitazione interna da creare problemi alle forze di sicurezza. Quando Somayeh Tohidlou, studentessa e attivista politica, è stata convocata in tribunale per ricevere per punizione 50 frustate, nel temuto carcere di Evin nemmeno un impiegato – uomo o donna che fosse – ha voluto farsi carico di somministrare la pena, e ha dovuto farlo il giudice stesso. Ci sono state innumerevoli violazioni di questo tipo con cui si è riusciti a tenere a freno le proteste della piazza.
Tuttavia il regime protesta troppo: ogni giorno qualche rappresentante dello stato dichiara morto il green movement e afferma di rappresentare l’odio popolare per l'”infido” Mir-Hossein Moussavi, che rimane agli arresti domiciliari. Secondo voci non confermate, Moussavi avrebbe detto alla figlia in un recente incontro con lei: “se qualcuno vuol sapere della mia condizione di prigioniero può leggere Notizia di un sequestro di Gabriel Garcia Marquez”. In pochi giorni il libro è diventato un best seller, e non è più possibile trovarlo in nessun negozio.
Oggi Ahmadinejad, che è salito al potere nel 2005 promettendo di combattere la corruzione, è lui stesso coinvolto nel caso di corruzione considerato la più grossa truffa nella storia del paese. Ahmadinejad, da parte sua, accusa i suoi avversari di una corruzione ancora più grande. Nel luglio 2011 ha accusato i suoi potenziali alleati, membri della Guardia Rivoluzionaria Iraniana, di contrabbandare sigarette.
Il 3 ottobre 2011 l’Ayatollah Ali Khamenei, suprema guida del paese, ha chiesto di astenersi dal parlare in pubblico su questi scandali. Ha chiesto ai media di “smettere di collegare le cose tra loro” perché si rischiava che la “gente comune” finisse con lo “scoraggiarsi” a causa degli articoli.
E’ difficile comprendere perchè abbia usato l’espressione “gente comune”, visto che in ultima analisi ci troviamo di fronte a una società in disaccordo con chi la governa. Il già ricordato Ayattolah Mesabh-Yazdi, un chierico anziano alleato di Khamenei, afferma di “avvertire che il pericolo che ci sta di fronte è il più insidioso che il regime si sia mai trovato a fronteggiare”; aggiunge inoltre che “anche alcuni dei più alti funzionari statali non credono nel leader supremo.”
Trentatre anni dopo la rivoluzione del 1978-9, la classe politica iraniana che detiene il potere si è ristretta al punto che tre ex-presidenti – Mir-Hossein Moussavi (1981-89), Akbar-Hashemi Rafsanjani (1989-1997) e Mohammed Khatami (1997-2005), con la loro rete di simpatizzanti – sono diventati addirittura l’opposizione interna.
Il (vero) leader dell’opposizione, Mehdi Kharroubi, ex-presidente del parlamento, lo dice chiaramente: “La nave dello stato oggi non è altro che una barca”. I venti del cambiamento stanno soffiando dentro e fuori l’Iran, ed è questa barchetta che deve governare il mare in tempesta.
R. Tousi è lo pseudonimo di uno scrittore iraniano che collabora con openDemocracy ma per ovvi motivi preferisce non rivelare la sua identità.