[Nota: Traduzione di Simone Tartari, con Tamara Nigi, dell’articolo originale di Shuang Gao per openDemocracy.net]
La cooperazione sino-africana è sempre stata analizzata su basi politico-economiche, ma presenta anche aspetti umani fino ad oggi ignorati, che adesso cominciano a delinearsi.
Jonathan è un bambino di sette anni dello Zambia che vede i suoi genitori e i suoi fratelli raramente. Vive con la nonna in un paesino remoto. La sua famiglia non ha alcun sostegno economico che gli consenta di mandarlo a scuola. Viene escluso perché ha i tratti asiatici con gli occhi a mandorla. Suo padre, un cinese che al lavoro era il capo di sua madre, è tornato in Cina prima che lui nascesse e adesso si trova a migliaia di chilometri di distanza. Jonathan non è l’unico bambino sino-africano abbandonato in Africa. Si criticano spesso la penetrazione economica cinese nel continente e le motivazioni politiche della cooperazione sino-africana, ma il lato umano della storia viene quasi sempre ignorato.
“Non che se ne vedano molti di bambini sino-africani, ma sono casi che cominciano a comparire”, dice Paolo Woods, fotografo documentarista che ha trascorso due anni in Africa ed è stato il primo a raccontare la storia di Jonathan due anni fa: “Siamo noi adesso (Woods stesso e il giornalista Serge Michel) a fornire i mezzi economici per l’istruzione di Jonathan, perché nessun altro voleva farlo”.
Il piano d’aiuti cinese per l’Africa risale alla metà del XX secolo. Nel 1970, quando avevano ancora problemi economici, i cinesi hanno finanziato la Tanzania e lo Zambia per la costruzione della principale linea ferroviaria di collegamento fra i due Paesi. Negli ultimi dieci anni, “yuan fei”(aiutare l’Africa) in Cina è diventato uno slogan molto diffuso.
“Ci sono molti lavoratori cinesi in Africa, forse diverse centinaia di migliaia”, ha dichiarato la professoressa Deborah Brautigam (School of International Service dell’American University), esperta di relazioni sino-africane. “Ma vengono, fanno investimenti, passano a un altro progetto e poi se ne vanno.” Non ci sono statistiche precise sul numero di cinesi che lavorano in Africa. Nel corso degli ultimi 10 anni, però, questa cifra è cresciuta rapidamente.
“E’ il mio ottavo mese qui, e il prossimo avrò le ferie per andare in Cina”, riferisce Xin Ning, un ragazzo cinese di 23 anni che attualmente lavora in Tanzania. Ning ha scelto di lavorare in Africa appena dopo la laurea, cogliendo al volo una “buona opportunità”. L’azienda di Ning è quella che garantisce il segnale televisivo in Tanzania. A ex studenti cinesi come lui possono affidare anche la gestione di un’intera rete cittadina, una posizione molto importante che lui in Cina non avrebbe mai sognato di ricoprire al primo impiego. Inoltre, lo stipendio è più alto. Gli danno circa 1.700 euro al mese, mentre in Cina, con lo stesso lavoro, Ning guadagnerebbe solo un terzo, circa, di quello stipendio. La maggior parte dei lavoratori cinesi cerca lavoro qui con le stesse motivazioni. Si tratta di giovani che vogliono fare esperienza e guadagnare qualcosa.
Questo ha indotto molti osservatori a pensare, erroneamente, che la motivazione principale dei lavoratori cinesi in Africa sia il denaro. Ma non è sempre così. Xueqin Yang, una ragazza cinese che ha trascorso un anno in Camerun come volontaria, ha detto di aver fatto questa scelta per poter vedere il mondo e mostrare la cultura cinese ad altre persone.
A differenza di Yang, Ning con la società per cui lavora ha firmato un contratto triennale e dopo vuole tornare in Cina. Con i soldi che metterà da parte lavorando in Africa, e con l’esperienza che otterrà, è fiducioso di poter trovare un buon lavoro e avere un futuro promettente nel suo Paese. “La maggior parte dei lavoratori cinesi ha contratti di un anno o due soltanto; molti di loro se ne andranno e non torneranno più in Africa”, ha detto Woods. Ciò significa che il piccolo Jonathan potrebbe non essere più in grado di vedere suo padre, a meno che non vada in Cina. Andare nella Repubblica popolare cinese in realtà è diventato il sogno di molti africani e imparare il cinese è una nuova aspirazione molto diffusa. “Quando eravamo in Congo, i corsi di lingua cinese crescevano di anno in anno,” ha detto Woods.
Nel maggio 2009, l’Università di Maroua in Camerun ha dato il via a un nuovo corso di cinese. Xueqin Yang è stata una delle prime insegnanti volontarie provenienti dalla Cina: “In Camerun, agli studenti che vogliono studiare in una università pubblica basta aver terminato il liceo, ma non in questo corso. I candidati sono tenuti a sostenere degli esami per poter entrare, ed è davvero difficile”.
“Nella mente di molti africani, la Cina è il miglior paese del mondo, migliore persino degli Stati Uniti. Andare in Cina per loro è un po’ come il “sogno americano”, vogliono andarci, lavorarci e viverci. “Non tutti finiranno là, ma saper parlare la lingua cinese comunque li avvantaggia nella ricerca di un lavoro più remunerativo”, ha aggiunto.
Il collega di Ning, Ramabhani Hamisi, un tanzaniano che ha studiato in Cina e parla la lingua correntemente, ora lavora per la società come responsabile marketing di area. Ha detto che ci tornerà di sicuro se ce ne sarà l’occasione.
Eppure la maggior parte di quelli che abitano lì non hanno la fortuna di Ramabhani; ottengono solo posti di lavoro umili e salari bassi perché pare abbiano problemi di comunicazione con i datori di lavoro cinesi.
La maggior parte dei lavoratori cinesi in Africa non sa nulla della lingua locale; alcuni di loro non parlano nemmeno bene l’inglese. Accade abbastanza spesso che non abbiano una lingua in comune con i lavoratori africani.
Gli investimenti che la Cina sta facendo in Africa si concentrano soprattutto nelle infrastrutture. I lavoratori più richiesti sono tecnici e non molti di loro conoscono la cultura africana o vi hanno interesse. Ci sono notevoli differenze culturali e incomprensioni.
“Quando ho detto ai miei studenti che non ho alcuna fede religiosa, mi guardavano tutti con un’espressione incredula. Ma la cosa in Cina è molto comune”, ha precisato Yang.
Inevitabilmente, nel corso del tempo, queste differenze culturali avranno il loro influsso sulla popolazione del luogo. I governi africani, però, non sembrano preoccuparsene troppo.
“Naturalmente, imprenditori e politici danno il benvenuto ai cinesi perché sono portatori di denaro e di affari. Ma la gente comune del posto, i lavoratori che patiscono cattive condizioni lavorative e sono poco pagati, non penso che ai Cinesi diano il benvenuto. C’è, in effetti, un crescente sentimento anti-cinese nelle fasce più basse della popolazione,” ha detto Woods.
Una cosa è certa, negli ultimi anni i due governi tutti i problemi sociali che emergono nelle relazioni sino-africane non li hanno affrontati. Non hanno mai pensato a cosa accadrà ai bambini abbandonati come Jonathan.
“In realtà il problema riguarda entrambi i Paesi, e anche la società cinese dovrà cominciare a pensare di assumersi le proprie responsabilità”, ha osservato la professoressa Brautigam. “Ci sono sempre più africani che vanno in Cina. Lavoreranno lì, vivranno lì e magari sposeranno donne cinesi con cui avranno figli. Per loro entrare in quella società sarà molto difficile, perché la Cina non è tanto incline al multiculturalismo ”
Shuang Gao è giornalista indipendente. Ha conseguito il Master in Giornalismo Internazionale all’Università di Cardiff