[Nota: Traduzione di Paola D’Orazio, con Tamara Nigi, dell’articolo originale di Dana Rubin per openDemocracy.net]
La settimana scorsa ho seguito senza tregua le notizie dell’attacco organizzato da centinaia di egiziani all’ambasciata israeliana de Il Cairo. Si è trattato di un evento caratterizzato da forte risentimento popolare, un attacco che affonda le radici nella lunga storia delle conflittuali relazioni tra Egitto e Israele e nella più recente indignazione per l’omicidio – qualche settimana fa – di cinque soldati con passaporto egiziano da parte delle Forze di Difesa israeliane. Agli occhi del popolo di Piazza Tahir, l’ambasciata israeliana è il simbolo della recente uccisione dei soldati, e anche quello della lunga e brutale occupazione dei Territori Palestinesi. In molti guardano a Israele come a uno Stato che, in un mondo in rapido mutamento dove servono nuove forme di diplomazia e l’adesione a norme di diritto internazionale, si muove invece secondo un modello di stato-nazione coloniale basato su forti principi etnici, ostinandosi a difendere “l’ebraicità” come elemento caratterizzante. Lo Stato di Israele considera qualsiasi obiezione al suo modello una minaccia alla propria esistenza.
Questo post appartiene a un’israeliana preoccupata che si chiede, da un lato cosa lo Stato di Israele rappresenti per il popolo di Piazza Tahir, e, dall’altro, cosa rappresenti Piazza Tahir per gli israeliani. Quest’ultima domanda è fondamentale perché, proprio con il deteriorarsi delle relazioni con l’Egitto sul piano istituzionale, si assiste alla più grande manifestazione popolare che Israele abbia conosciuto. E va anche detto che a ispirare e infiammare la protesta è stata Piazza Tahir.
I governi scompaiono, il popolo resta
Nella notte del 9 settembre 2011 i muri che prima sembravano impossibili da abbattere, sono crollati con semplicità inaudita. In questo periodo di rapidi cambiamenti nella regione mediorientale, l’assalto all’ambasciata israeliana ha dimostrato – ancora una volta – la fragilità dell’ordine costituito. Quei fatti mi hanno ricordato le parole pronunciate un secolo fa da un palestinese di Gerusalemme che sosteneva l’accordo tra gli arabi e i sionisti, Nassif Bey al-Khalidi il quale, rivolgendosi al consiglio sionista di Jaffa, disse: “Siate molto cauti signori sionisti: i governi scompaiono, i cittadini restano.” Tornerò su questo punto più avanti nell’articolo.
Il governo contro i cittadini
Sono in molti a chiedersi se la leadership israeliana stia facendo gli interessi dei suoi cittadini. Consideriamo, ad esempio, le recenti azioni di Lieberman e Netanyahu: quasi nessuno crede più che l’attuale politica estera israeliana segua una logica che sia utile anche al suo popolo. Ne è una prova l’idea di Lieberman di appoggiare il partito curdo, il PKK, in risposta alla rottura dei rapporti diplomatici tra Turchia e Israele. La leadership israeliana si muove sul filo del rasoio, trascinando con sé i suoi cittadini e provocando disastri in lungo e in largo.
La politica interna viene trascurata per contrastare la tanto esaltata “minaccia alla sicurezza”. In tal modo i palestinesi che risiedono nei Territori Occupati (TO) vengono dichiarati fuori legge. E mentre i Palestinesi israeliani vengono discriminati giuridicamente, tanto ai cittadini Arabi quanto a quelli Ebrei si impone il rispetto rigoroso delle leggi dello Stato. Casi come quello della legge anti-boicottaggio evidenziano molto bene dove finisce la libertà di questi ultimi e da che parte devono stare secondo le politiche dello Stato. Allo stesso tempo, le politiche neoliberali hanno indebolito lo stato sociale e cresce il divario tra la ristretta cerchia dell’elite benestante e le classi medie e modeste, sempre più impoverite. Il formidabile benessere nazionale di cui si parla sulla carta, solo in minima parte tocca i cittadini israeliani, per non parlare dei non-cittadini palestinesi. Inoltre, in un Paese in cui manca ancora un’esatta definizione dello status di cittadino e di quello di straniero, le aspirazioni neoliberali, coloniali e razziali mettono in luce molteplici disuguaglianze.
Il 14 luglio e la Primavera (araba) israeliana
Mentre gli egiziani che si sono ritrovati davanti all’ambasciata hanno – con ragione – affermato che lo Stato di Israele è uno dei più grandi ostacoli alla trasformazione della regione, paradossalmente molti israeliani guardano con ammirazione agli egiziani e si sentono ispirati dai successi ottenuti dal movimento di Piazza Tahir e dalla mobilitazione popolare.
Gli israeliani dicono di volere giustizia sociale. Il movimento del 14 luglio (J14) Movement è iniziato sotto forma di protesta contro il caro-affitti e il costo della vita in Israele, ma rapidamente ha abbracciato molte altre richieste provenienti da diversi altri strati sociali. I manifestanti hanno gridato a gran voce per quasi due mesi: “Il popolo vuole giustizia sociale”. Per coloro che hanno meno coscienza politica, tali proteste si inscrivono nel solco di una posizione radicale e politicizzata. Radicale, perché mette in discussione due dei maggiori tabù in Israele: Chi è ‘il popolo’? Cos’è la ‘Giustizia sociale’? Questi interrogativi non trovano risposta nel vuoto “ebreaico-israeliano”, isolato dal suo gemello palestinese e dalla sua famiglia allargata che è il Medio Oriente. Per questo, mentre l’ondata di proteste ha scosso l’intero Paese, la comunità internazionale ha prestato poca attenzione a questi eventi, ritenendo si trattasse di una manifestazione locale e senza importanti conseguenze. Io ritengo invece che se ne trascuriamo l’ importanza, l’enorme potenziale di questo movimento passerà inosservato e, di conseguenza, andrà perso.
In un certo senso la manifestazione del 14 luglio rappresenta l’evento più radicale che la società israeliana abbia conosciuto. Le persone per le strade del Paese gridavano: “Mubarak, Assad, Bibi Netanyahu”. Non è necessario essere un esperto di politica mediorientale per capire che quel che sta nascendo è una nuova mentalità politica. Gli israeliani hanno invaso le strade chiedendo che ai discorsi militari e politici venissero sostituiti quelli civili. Tali richieste non sono certo prive di contraddizioni. Come me, la giovane generazione di ebrei-israeliani è cresciuta in uno Stato ebraico dominato da un costante “stato di emergenza”. Come ho già spiegato, la sicurezza nazionale ha sempre avuto la precedenza sulla politica interna: mettere in dubbio questa necessità equivaleva a manifestare la propria slealtà nei confronti dello Stato ebraico. Un cambiamento di mentalità in questo senso, dunque, è senz’altro necessario. Negli ultimi due mesi, la generazione dei più giovani ha mostrato di essere consapevole che qualcosa non va e ora sta prepotentemente chiedendo un cambiamento.
Per ogni passo avanti, dieci passi indietro
In un momento in cui la mobilitazione israeliana e il suo richiamo alla necessità di cambiare stanno dando prova di forza e resistenza, la classe di governo è più aggressiva che mai, perfino nei confronti dei cittadini ebrei. E, se il movimento del 14 luglio ha fatto un passo avanti, con le sue politiche azzardate il governo israeliano lo fa arretrare di dieci. Come ha affermato Daphni Leef (noto come leader delle proteste) nel corso della più grande manifestazione della storia del Paese: “Malauguratamente questo non sarà un momento di cambiamento, ma un processo“. In questa affermazione risiede la maggiore debolezza del Movimento, perché è evidente che non c’è tempo per un processo di cambiamento: il tempo non è dalla parte di Israele, tantomeno dalla parte degli israeliani. Per il Movimento questo è il momento di scegliere tra il popolo e il governo: se non è in grado di tenere il passo con tutto quello che è avvenuto finora, il Movimento scomparirà nel caos creato dalla leadership del Paese. In queste settimane ricche di avvenimenti, deve prendere una decisione: da che parte vuole stare, prima di tutto nei confronti della Palestina, e poi anche nei confronti della Turchia e dell’Egitto.
Per il Movimento, la dichiarazione di uno Stato Palestinese alle Nazioni Unite (l’autrice si riferisce alla richiesta inoltrata ufficialmente dall’Autorità palestinese alle Nazioni Unite lo scorso 23 settembre per il riconoscimento dello Stato palestinese Ndt.) è una grossa opportunità. (La richiesta è ora all’esame del Consiglio di sicurezza dell’ONU, ma tutto lascia presagire che sarà rigettata Ndt.). Mentre il governo si sta preparando all’avvenimento con le armi – proprio come i suoi coloni-soldato – i manifestanti del 14 luglio possono scegliere di non servire più lo Stato come soldati di questo regime. La controversa dichiarazione [quella che l’autorità palestinese si aspetterebbe dall’ONU] assume un ruolo fondamentale per Israele, innescando il timer per il Paese. E gli Stati confinanti contribuiscono a evidenziare l’urgente necessità di questo timer. Se il Movimento coglierà quest’urgenza e si darà da fare in fretta, potrebbe perdere dei sostenitori per strada, ma potrebbe anche avere l’opportunità di guadagnare più consensi di quanto ogni altro movimento civile israeliano abbia mai immaginato di poter fare. Questo potrebbe accadere nel momento in cui si metterà in evidenza il legame tra il neoliberismo brutale e l’occupazione violenta e si presenterà una realtà civile in cui la “giustizia” non passa in secondo piano rispetto alla sicurezza e all’ebraicità.
Il popolo rimane
Quando gli israeliani decideranno tra il popolo e il governo, si troveranno inevitabilmente a ridefinire il concetto di popolo: un passo che deve condurre a una mutata forma di governo, che sia maggiormente inclusiva, e che rappresenti la nuova definizione di popolo. Si tratta di un’operazione davvero molto difficile, ma è anche l’unico modo a disposizione del Movimento per portare avanti la sua battaglia di giustizia (sociale). Io credo che il Movimento debba comprendere che per riuscire non basta lo “stato sociale”: serve un “nuovo Stato”.
Torniamo adesso alla citazione di Nassif Bey al-Khalidi. Qualche giorno fa c’è stato l’attacco all’ambasciata israeliana al Cairo. Si attende ora la Dichiarazione dell’ONU sullo Stato palestinese. Inoltre, giorno dopo giorno si va modificando la vecchia realtà israelo-palestinese per come noi la conoscevamo. Il timer è stato innescato ben prima del monito lanciato da al-Kalidi, ma oggi vi presta grande attenzione il mondo intero. In questo momento cruciale, il compito fondamentale per il popolo (popoli) di Israele e per quelli che lavorano a un cambiamento concreto nella regione è mettere in discussione la vecchia equazione tra popolo e governo israeliano e capire che non sono un unico organismo, né sono la stessa cosa. E’ questo, ritengo, l’unico modo per far sì che il governo serva i suoi popoli in un nuovo Stato tra il fiume e il mare.
Dana Rubin sta conseguendo il PhD con una ricerca dal titolo ‘Neoliberal Colonialism: Settling Israeli Citizenship in the West Bank‘, al Dipartimento di Politiche e Studi internazionali alla Open University del Regno Unito. Fa parte del progetto Oecumene. Ha la cittadinanza israeliana e vive in Inghilterra.