Multiculturalismo e postmodernità: sfida alla politica

width=[Nota: Traduzione di Giorgio Guzzetta dell’articolo originale di Ger Mennens per openDemocracy.net]

Il multiculturalismo richiede una politica per il riconoscimento. L’identità culturale delle minoranze etniche e nazionali dev’essere riconosciuta, e queste minoranze devono possedere diritti specifici che permettano loro di conservare ed esprimere la loro cultura. Perciò politica e cultura non dovrebbero essere ambiti separati. Nel multiculturalismo, infatti, la politica interferisce direttamente con la cultura. Nella visione liberale, però, cultura e politica sono considerati campi distinti e separati. Il principio liberale della “negligenza benigna” implica che lo Stato dovrebbe avere una posizione neutrale riguardo ai problemi culturali, in quanto la cultura appartiene esclusivamente alla vita privata. Charles Taylor giustamente considera questo principio insostenibile, dal momento che sia lo Stato che la politica sono inseriti in un contesto culturale ben preciso. La politica stessa è un’attività di tipo culturale, in cui norme e valori hanno un ruolo centrale. Perciò la cultura non può appartenere esclusivamente al privato: essa è parte integrante della politica, non c’è distinzione tra politica e cultura. […]

Il postmodernismo rende fluidi e problematici i confini tra mondi tradizionalmente considerati distinti. Prendiamo per esempio la netta distinzione tra scienza e politica. La ricerca scientifica è sempre fatta da individui che hanno valori e norme individuali, e che non possono avere uno sguardo neutro. Le categorie non sono più distinte ma ibride. Max Weber ha sostenuto che quello della politica è un mondo isolato in cui le decisioni sono prese dall’alto in maniera razionale. Si tratta di un processo decisionale usato esclusivamente in campo politico. Attraverso procedimenti legali attuati da una burocrazia efficente ed efficace, le scelte politiche creano dei modelli che vengono poi applicati, bell’e pronti, ad un’altra realtà, quella sociale. Ma questa concezione razionale della burocrazia, e il principio di causa ed effetto su cui è basata, non funziona più. Non è possibile ormai utilizzare modelli astratti imposti dall’alto e centralmente. Oggi come oggi, perchè i modelli, e le loro regole e norme, siano accettati occorrono lunghe negoziazioni con un ampio spettro di gruppi di interesse. Molteplici attori sociali che hanno interessi in un’area specifica vogliano avere voce in capitolo, e un posto al tavolo dei negoziati. Le scelte e decisioni politiche vengono supportate solo se gli attori sociali si convincono di poter influenzare le politiche che li riguardano. Insomma, i modelli oggi non sono imposti dall’alto, ma anche costruiti e negoziati dal basso. Per questa politica, inquadrata in campo medio (ossia nè dall’alto verso il basso, nè dal basso in alto), gli effetti di un modello astratto non sono più fissati rigidamente, ma cambiano nel corso della sua applicazione pratica. I fini politici non si realizzano grazie ad una razionalità modernista, ma attraverso la partecipazione. [..]

Il concetto di postmodernità fa parte di una teoria, di un insieme di norme applicate ad una realtà empirica. L’affermazione di Bruno Latour secondo cui “non siamo mai stati moderni” è tanto descrittiva quanto prescrittiva. Il multiculturalismo può avere successo in Stati che hanno una struttura a rete di tipo postmoderno. Ma fallisce in Stati ancora legati ad una razionalità modernista in cui le decisioni sono imposte dall’alto. Multiculturalismo e postmodernismo sono strettamente legati. Entrambi, sia dal punto di vista pratico-applicativo sia da quello normativo, rifiutano concetti totalizzanti e universali, e invece accettano la differenza e il pluralismo. Entrambi all’assolutezza platonica preferiscono il relativismo.

I concetti illuministici di razionalismo, centralismo e monoculturalismo devono essere sostituiti da nozioni come diffusione, negoziazione e diversità per far funzionare bene il multiculturalismo. Nella visione modernista, l’identità nazionale presuppone il nazionalismo, e viceversa. Il nazionalismo del diciannovesimo secolo, in altre parole, era inscindibilmente legato alla creazione degli Stati nazionali […]. Oggi invece, l’idea di costruzione dell’identità nazionale a partire da un gruppo specifico e culturalmente omogeneo è stata abbandonata e sostituita da nozioni come globalizzazione, individualismo e diffusione. […]

Tenendo presente il fatto che la postmodernità è una condizione necessaria per il multiculturalismo, gli Stati che si affidano soprattutto a democrazie partitiche avranno problemi ad adattarsi alla molteplicità culturale e a promuovere politiche adeguate. Le democrazie partitiche continuano ancora a fare una distinzione netta tra cultura (società) e politica. La politica ha il monopolio delle scelte e delle decisioni, che rimangono nelle mani di coloro che fanno parte dei partiti politici. Gli attori sociali non partecipano alla politica, ne sono esclusi. Il processo decisionale non si realizza attraverso una rete di attori sociali, ma è imposto dall’alto alla società. Un partito politico ne è l’attore principale, se non addirittura l’unico.

Solo una forte e decisa cultura civile può rompere questa divisione tra politica e società. Un livello medio di azione politica è necessario per poter creare un multiculturalismo efficace, in cui minoranze etniche e di altro tipo possano diventare attori sociali che intervengono nel processo decisionale, all’interno di una società civile solida e forte. In questo modo, modelli sociali sono creati con l’appoggio di tutte le componenti della rete, senza che nessun gruppo culturale si trovi del tutto isolato. Le democrazie partitiche, tuttavia, si affidano all’idea che le società possono essere costruite dall’alto verso il basso, senza la partecipazione delle diverse identità sociali e culturali. Gli Stati diventano sempre più diversificati a causa della globalizzazione e dell’immigrazione, ma le democrazie partitiche ancora agiscono sulla base dei principi illuministici di stampo modernista. Il sistema politico va invece riformato, prendendo atto della scomparsa del nazionalismo uniculturale.

L’autonomia territoriale e la decentralizzazione, se congegnati bene, sono sistemi che possono assicurare il coinvolgimento delle minoranze nel processo decisionale. Politiche come queste, opportunamente adattate, possono essere utilizzate in Stati multi-etnici e multi-nazionali in cui le minoranze sono geograficamente localizzate. In mancanza di gruppi territorialmente omogenei, un sistema dovrebbe essere creato sul modello delle “grandi coalizioni”, grazie al quale si possa attuare un processo decisionale in cui tutte le culture e le identità siano rappresentate nel governo.


Ger Mennens è avvocato e sociologo, associato alla Maastricht University, impegnato sui diritti delle minoranze, democrazia e cultura politica. Articolo tradotto per gentile concessione di openDemocracy.

Giorgio Guzzetta

Accademico errante, residente a Roma dopo vari periodi di studio e lavoro all'estero (Stati Uniti, Inghilterra e Sudafrica). Si è occupato di letteratura italiana e comparata, globalizzazione culturale, Internet e nuovi media. Occasionalmente fa traduzioni dall'inglese e dal francese.

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