Nella Rete della censura, 125 ad oggi i netizen reclusi
[Nota: Pubblicato dall’autrice in esclusiva su L’Indro e qui ripubblicato per gentile concessione]
Sophie Scholl non aveva ancora compiuto 22 anni quando venne giustiziata. A condannarla, dopo quattro giorni di torture da parte degli uomini della Gestapo, fu una Corte nazista. La sua colpa: avere diffuso tramite volantini idee di giustizia e di rifiuto del regime hitleriano. Sophie, insieme al fratello Hans – anch’egli giustiziato – facevano parte della Rosa Bianca, un movimento studentesco che si opponeva in modo non violento al regime della Germania nazista. I loro mezzi erano parole, volantini, opuscoli, ciclostili. Quelli di cui allora potevano disporre. Chissà, oggi avrebbero usato Internet, avrebbero aperto un blog, raggiungendo tante più persone.
Oggi i mezzi per esprimere il proprio dissenso, il proprio rifiuto di certe forme di potere sono cambiati. Ma la censura, quella non è mai finita e i modi di reazione sono più o meno rimasti gli stessi. Secondo i dati forniti da Reporter sans frontrières ad oggi sono 125 i netizen imprigionati. Cittadini consapevoli e attivi che affidano alla Rete commenti, giudizi e informazioni scomode. Questi 125 sono quelli di cui si ha notizia, ma non sempre le notizie sono accessibili. E questo numero potrebbe anche essere più alto.
A guardare la tabella fornita da ’Reporters sans frontières’ si scopre anche che i giornalisti mainstream imprigionati sono 148, non molti di più dei ’net-citoyens’, dunque. E c’è un altro dato di questo ’Barometro della libertà di stampa 2011’ che lascia riflettere: i giornalisti uccisi sono 24. Ma con questa cifra si intendono soltanto i giornalisti ’ufficiali’, i professionisti accreditati. Ma gli altri? Non fanno forse informazione? Non lo fanno in condizioni spesso molto pericolose?
Penso a Vittorio Arrigoni, ucciso per più di una ragione probabilmente, comprese le sue denunce senza filtri sul suo Guerrilla Radio. Penso ai giovani blogger ivoriani che nel periodo più duro delle proteste e degli scontri del dopo elezioni, hanno dovuto rinunciare a postare video o twitter a causa dell’insistenza delle minacce ricevute. Penso anche ad Amira Al Hussaini, giornalista di GlobalVoices Online e blogger che ha rischiato di essere bruciata viva solo per aver usato Twitter.
La paura può essere forte certo, ma più forte è probabilmente la voglia di fare la propria parte. E in ogni parte del mondo. Anche lì dove l’informazione tradizionale arriva poco e ci informa poco. Il Nepal per esempio dove i giovani hanno organizzato la Nepali blogger community.
I Paesi dove gli attivisti della Rete rischiano di più, a considerare il numero di arresti e le condanne, sono la Cina, il Vietnam, l’Iran. E le condanne possono davvero essere sproporzionate rispetto alla ’colpa’. In Cina ci sono persone dimenticate in carcere magari solo per aver creato un blog. Alcuni, come Slim, tunisino, tornano denunciando torture, psicologiche o fisiche.
Un’assurdità di questi giorni è il falso della blogger lesbica siriana, Amina Abdallah, che altri non era se non un quarantenne americano in vena di divertimento. Ci son cascati quasi tutti e tutti lì poi a pontificare sulla famosa questione delle fonti e dell’attendibilità delle stesse. Dimenticando le tante bufale e falsità spacciate sui media ’ufficiali’, spesso mai rettificate. Una sintesi delle reazioni all’incoscienza e stupidità di chi gioca con questioni così grosse è data da questo twitt di @MarietjeD66: non dimentichiamo le migliaia di persone detenute, uccise o messe a tacere di cui non sappiamo nulla.
Questa gente rischia sul serio, altro che i giocherelloni della Rete alla ricerca di notorietà.
A questi ricordiamo le azioni positive, utili e, appunto rischiose, di cittadini che usano Internet per il bene collettivo. Come questa donna che – tanto per tornare al tema della tortura – ha creato un blog per documentare i casi di tortura da parte delle forze dell’ordine in Egitto.
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