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Ashraf, la resistenza iraniana zittita nel sangue

Da alcuni mesi le cronache mediorientali hanno guadagnato le prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo. E in molti – in Occidente e non solo – esultano per il vento di libertà e cambiamento che soffia sul Nord Africa e il Medio Oriente. Ci sono – però – delle storie di resistenza che durano da decenni e non riescono a raggiungere i riflettori.

È questo il caso del Campo di Ashraf, enclave iraniana nel cuore dell’Iraq. Ashraf si trova a 60 Km a nord di Baghdad e dista 120km dal confine iraniano. Protetti da Saddam Hussein, dal 1986 iniziarono ad arrivare nella città i mujaheddin del popolo iraniano, un’associazione di dissidenti decisi a sovvertire il regime della Repubblica Islamica attraverso la lotta armata. I loro nemici giurati erano il fondamentalismo e l’integralismo islamico, incarnati nella figura dello Shah e dei teocratici di Teheran. Ma quelli erano gli anni della Prima Guerra del Golfo; anni segnati da massacri, scontri, violenze che hanno pesato sul futuro di entrambe le nazioni.

L'ingresso ad Ashraf, enclave iraniana nel cuore dell'Iraq

Una vicenda intricata – dunque – quella della resistenza iraniana che ha contribuito a scrivere pagine importanti della storia mondiale. Dal 2003, quando il regime di Saddam è stato rovesciato dagli USA, molte cose sono cambiate anche per i mujaheddin: i residenti di Ashraf hanno buttato via le armi, dichiarando la loro neutralità e ricevendo in cambio la protezione degli americani, divenuti i responsabili della sicurezza del campo.

Ma, come ci racconta Sharzad Sholeh, presidente dell’Associazione Donne Democratiche Iraniane in Italia, nel 2009 il controllo del campo è passato nelle mani delle Autorità irachene e da quel momento sono iniziati attacchi armati “incondizionati” sugli abitanti della cittadina. Fino al 2009 ad Ashraf si respirava aria di pace e serenità: dopo la deposizione delle armi da parte della resistenza, la città era una vera oasi nel deserto con le sue scuole, la sua università, il suo ospedale, la sua moschea. Con la transizione, invece, le 3500 persone che attualmente risiedono ad Ashraf vivono nella paura quotidiana di attacchi da parte dei militari iracheni.

Gli iraniani di Ashraf temevano questo passaggio di poteri, sostenendo che l’attuale governo iracheno fa il gioco di Teheran: l’ayatollah Ali Khamenei (dal 1989 Guida Suprema della Repubblica Islamica) e il presidente Mahmoud Ahmadinejad stanno tentando in tutti i modi di far chiudere il campo e disperdere i dissidenti, da sempre una spina nel fianco del regime. Sharzad, nel suo racconto puntuale ed emozionato, si erge quasi a portavoce dei residenti di Ashraf e ci tiene a rimarcare le difficoltà quotidiane di queste persone costantemente minacciate dall’esercito iracheno, nel quale è molto probabile che si nascondano infiltrati inviati direttamente da Teheran.

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Ad un primo attacco del 28-29 luglio del 2010, se ne sono succeduti altri il 26 dicembre 2010 e il 7 gennaio 2011. L’ultimo, uno dei più cruenti, risale a circa due mesi fa, l’8 aprile. In quell’occasione sono morte 35 persone e 120 sono rimaste ferite. Sharzad, che con la sua associazione cerca di dare voce anche a questi avvenimenti, lamenta l’impossibilità per i feriti di ricevere le necessarie cure mediche, con il rischio che il numero dei morti salga vertiginosamente. I residenti del campo sono protetti dalla Quarta Convenzione di Ginevra (che protegge da maltrattamenti e violenza i civili che si trovano in mano nemica o in territorio occupato, compresi i membri di forze armate che abbiano deposto le armi e le persone messe fuori combattimento) ma di fatto ad essi vengono negati molti dei diritti fondamentali, primo tra tutti quello alle cure mediche.

Sharzad ci tiene inoltre a rimarcare l’importanza di alcune – legittime – richieste avanzate dai residenti di Ashraf (sostenuti anche dal Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana che ha sede a Parigi) a seguito dell’ultimo attacco inferto dai militari iracheni alla città: il trasferimento immediato dei feriti nella struttura sanitaria americana vicino Ashraf, l’accesso alle cure mediche e alla sepoltura dei morti, vietata ed osteggiata dalle forze irachene, maggiore sicurezza e protezione per ogni membro della comunità.

La comunità Internazionale si sta muovendo – come dimostrano i numerosi appelli e interventi pubblicati anche sul sito dell’Associazione Donne Democratiche Iraniane in Italia – e in molti, dall’Europa agli Stati Uniti, hanno condannato l’azione irachena su Ashraf, arrivando a definirla, come ha recentemente dichiarato l’europarlamentare scozzese Struan Stevenson “una annichilazione in stile Srebrenica dei rifugiati del campo”. (report Struan Stevenson, EP scozzese)

La gravità di quello che è avvenuto – e continua ad avvenire – nei pochi chilometri quadrati della città di Ashraf pare essere uno dei tanti buchi neri della diplomazia mondiale, oltre che un banco di prova per l’Iraq post-Saddam sul tema della garanzia e rispetto dei diritti umani. La resistenza iraniana non è parte della storia come già lo sono i movimenti che hanno dato vita alla primavera araba. Per questo è importante che lo sguardo del mondo si rivolga anche a questa storia dimenticata che ha molto da insegnarci sul rispetto dei diritti umani e della rule of law in un’area del pianeta che da troppo tempo convive con violenza, dolore e paura.

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