[Nota: l’articolo originale di Giuseppe Dentice è pubblicato su Equilibri.net e coperto da copyright. Ripreso dietro autorizzazione].
Ad ormai più di tre mesi dalle dimissioni dell’ex Presidente Ben Alì, fuggito all’estero in seguito ai tumulti popolari della Rivolta dei Gelsomini, il nuovo governo tunisino ad interim retto da Beji Caid Essebsi ha assunto la guida del Paese promettendo riforme epocali, tra le quali una maggiore libertà di espressione e di stampa e riforme economiche che diano maggior slancio internazionale al Paese. Ma la difficile situazione interna dovuta ad una mancanza reale di alternative politiche, spesso compromesse con il precedente regime, l’onnipresenza della polizia segreta nella vita pubblica, la continuità con il passato e la mancanza di riforme economiche strutturali realmente incisive rendono difficile la strada verso la pacificazione e la democratizzazione della Tunisia. Anche le tanto acclamate riforme economiche rischiano di non risolvere la questione della disoccupazione giovanile e la possibilità che la transizione verso la democrazia sfoci, in realtà, nell’autoritarismo potrebbe diventare un’eventualità concreta in un Paese strategico per l’Occidente e l’Africa mediterranea.
Il quadro politico
Dopo ventitrè anni di regime benalista, il 14 gennaio si era insediato alla guida dell’esecutivo Mohammed Ghannouchi, uomo legato al recente passato in quanto aveva già ricoperto la carica di Primo Ministro dal 1999 al 2011. Senza creare una reale rottura con i precedenti vertici politici, la carica di Presidente della Repubblica è stata immediatamente assunta dal portavoce del parlamento tunisino Fouad Mebazaa. Nel tentativo di dare un respiro rinnovatore, Ghannouchi e il “nuovo” governo hanno promesso l’attuazione di una serie di misure economiche e sociali volte a soddisfare, almeno parzialmente, le richieste della popolazione tunisina.
Per prima cosa ha formato un governo di transizione composto, oltre che da persone legate al precedente regime – non solo al partito RGD (Rassemblement Contitutionnel Démocratique) dell’ex Presidente, ma anche a Ben Alì stesso – dai membri di quelle forze non rappresentate in passato, come i partiti di opposizione e le personalità della società civile. In particolare, hanno ricevuto incarichi ministeriali personalità come Ahmed Najib Chebbi del PDP (Partì Democrate Progressiste), che è divenuto Ministro dello Sviluppo regionale e locale. Anche alcuni membri dell’Ettajdid, movimento di opposizione di sinistra, o dell’UGTT (Union générale tunisienne du travail), il sindacato dei lavoratori tunisini, hanno ricevuto importanti incarichi governativi.
Prima delle sue dimissioni del 27 febbraio a causa delle violente proteste popolari che lo accusavano di essere legato al vecchio regime benalista, e prima di essere sostituito con Beji Caid Essebsi – ex Ministro degli Esteri durante la presidenza Bourghiba –, Ghannouchi aveva provato ad avanzare alcune riforme soprattutto di carattere sociale, quali la soppressione della spietata polizia segreta di Ben Alì, una maggiore libertà di stampa e di espressione. Non è un caso che tutte le testate giornalistiche del Paese fossero di proprietà della famiglia Ben Alì e che qualsiasi attacco contro il regime venisse punito con il carcere. Ghannouchi, per cercare anche di accattivarsi la piazza e per dare un segnale distintivo di maggiore libertà, ha deciso di rilasciare il blogger Slim Amamu, arrestato durante le prime proteste per aver criticato il regime. Inoltre, la moderata apertura politica del governo ha permesso il ritorno in Tunisia, dopo 22 anni di esilio a Londra, di Rachid Ghannouchi, leader del movimento islamico al-Nahda (ma i due non hanno alcun legame familiare).
Al di là dei primi segnali positivi che fanno sperare in una transizione avviata, la situazione sembra essere ancora molto caotica e a rischio sono anche le prossime elezioni legislative di luglio a causa della debolezza e della disorganizzazione delle nuove formazioni politiche e a causa della scarsa credibilità presso il popolo tunisino della commissione ad hoc incaricata di redigere la nuova Costituzione. Difatti, la commissione istituita per elaborare la riforma è stata nominata senza che siano state consultate le forze politiche e sociali indipendenti dell’opposizione; anche i suoi membri non sono indipendenti, perché vi fanno parte esperti giuridici notoriamente vicini all’ex regime. La mancanza di una nuova legge elettorale, che fu ideata dallo stesso Ben Ali per assicurare l’egemonia del suo partito, potrebbe permettere ancora la sopravvivenza di personaggi legati al precedente regime.
Pur essendo stato abolito il RGD, molti ex ministri ai tempi di Ben Alì sono rimasti al potere nei reparti chiave del regime, quali della Difesa, degli Esteri, delle Finanze e degli Interni. Nonostante, Ahmed Friaâ e Kamel Morjane, rispettivamente Ministro degli Interni e degli Esteri – accusati come Ghannouchi di essere legati a Ben Alì e sostituiti con Farhat Rajhi e Mouldi Kefi, che hanno linee politiche in rottura con il passato recente – hanno mantenuto all’interno dei rispettivi uffici politici una certa influenza, derivante questa dal precedente sistema di corruzioni e clientele instaurato da Ben Alì.
A causa di tale confusione politica, si è favorita, inoltre, una mancanza di controlli alle frontiere e nelle carceri. Anche l’evasione, nei giorni delle proteste, di numerosi detenuti (il Ministero degli Interni tunisino stima circa 11.000 unità), a cui bisogna aggiungere il persistere di forze dell’ordine legate ancora al passato e il cattivo equipaggiamento dell’esercito – quest’ultimo, tra l’altro, in numero insufficiente per ristabilire l’ordine pubblico –, producono una generale insicurezza che mette a rischio le stesse elezioni legislative. Ad ogni modo, il ripristino della sicurezza in tutto il Paese è una condizione imprescindibile per far sì che le elezioni nei prossimi mesi siano libere e trasparenti.
Il quadro macro-economico
Secondo le rilevazioni del Fondo Monetario Internazionale (IMF), prima della fuga di Ben Alì l’economia tunisina rappresentava una delle più prosperosa nel panorama dell’Africa mediterranea. A partire dal 1986 l’economia tunisina, per lungo tempo soggetta al rigido controllo statale, è stata trasformata in un’economia di libero mercato grazie ad un programma di risanamento strutturale avviato secondo le disposizioni del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale (WB), avente ad oggetto la liberalizzazione dei prezzi, dei tassi di interesse e degli investimenti (soprattutto stranieri), la riforma dei settori a partecipazione statale e della promozione del settore privato. Nonostante uno sviluppo liberista, un tasso di crescita del PIL pari al 5%, un tasso di disoccupazione attorno al 6% ed un deficit pubblico relativamente modesto (circa il 2% del PIL), il problema della disoccupazione, in gran parte giovanile, continua a gravare pesantemente sull’economia nazionale. A dispetto dei dati forniti dal Fondo Monetario Internazionale, le ultime stime, più veritiere, dell’Economist Intelligence Unit attestano la disoccupazione reale intorno al 15,2 %, ma è molto probabile che anche le stime ufficiali del governo e quelle degli enti di controllo siano, comunque, inferiori rispetto a quanto dichiarato.
Ad oggi gli asset ritenuti strategici dal governo tunisino come i servizi (che rappresentavano il 54 % del PIL), l’agricoltura e la pesca, che assorbivano il 22% della forza lavoro, o il settore turistico, che contribuiva per il 6,8% al PIL e impiegava circa 350.000 persone, hanno subìto un notevole calo, con effetti prevedibilmente negativi sulle entrate nazionali e sul mercato del lavoro. In generale, tutte le attività economiche dopo la caduta del regime benalista hanno risentito profondamente delle proteste e del clima di generale caos. Secondo i dati del Ministero degli Interni tunisino, i danni diretti per l’economia causati dalle proteste vengono stimati in 1,6 miliardi di euro. Il governo, nel tentativo di frenare la catastrofe socio-economica generata dalle rivolte dei disoccupati, ha introdotto un sussidio di disoccupazione per i giovani diplomati.
In particolare, la mancanza di una strategia volta a creare nuovi posti di lavoro, soprattutto per i giovani, ha posto il nuovo governo in una difficoltà di credibilità. Anche la forte disparità tra le aree regionali della costa (più ricche) e quelle interne (più disagiate), la corruzione dilagante a tutti i livelli di potere, la necessità di una maggiore diversificazione economica, una minore dipendenza dall’interscambio commerciale con la UE (comunque in diminuzione nell’ultimo anno, come dimostrano il -16.9 % delle importazioni e il -9.9 % delle esportazioni), una scarsa elasticità del mercato del lavoro, una scarsità di investimenti esteri, rendono l’economia tunisina particolarmente vulnerabile.
In un contesto così complesso, forse l’implementazione dell’XI Programma Nazionale di Sviluppo (2007-2011) potrebbe rappresentare un modo per rafforzare le precedenti azioni del governo in materia economica e, allo stesso tempo, offrire una via di uscita da questa crisi politica. Il piano di sviluppo prevedeva il rafforzamento del sistema bancario e finanziario, la crescita della liberalizzazione economica, il miglioramento della produttività e delle infrastrutture, il rafforzamento del settore meccanico ed elettrico, in modo da bilanciare la debolezza crescente di quello tessile.
La crisi finanziaria globale ha portato il governo ad essere più cauto nell’attuare queste riforme, ma è probabile che, al di là delle iniziali difficoltà di attuazione, si potrebbero presentare molteplici opportunità di crescita economica rappresentate dalla privatizzazione nel campo delle imprese pubbliche, nel settore dell’energia, dell’ambiente e delle infrastrutture portuali e aeroportuali. Inoltre, l’ampliamento delle reti commerciali potrebbe essere perseguito attraverso partnership tra imprese straniere e locali, che potrebbero favorire competitività in numerosi settori: componenti per automobili, elettronica, servizi informatici, imballaggio, agroalimentare, tessile.
Conclusioni
Il rischio attuale di questa crisi più politico-sociale che economica è che, mentre si pone l’attenzione sulla transizione politica e sulla necessità di assicurare alla Tunisia una maggiore democrazia, si potrebbero in realtà perdere di vista le priorità economiche, le quali, anche alla luce del quadro interno molto incerto, possono fungere da incentivo verso una normalizzazione della situazione.
Peraltro, un ulteriore aggravamento della situazione socio-economica – accentuata dall’incremento della disoccupazione giovanile – e la mancanza di volontà politica di garantire al popolo tunisino una nuova legge elettorale potrebbero compromettere la transizione del Paese verso la democrazia. Infatti, lo scontento che si potrebbe creare nella popolazione potrebbe aprire una stagione segnata dal forte autoritarismo del governo centrale in risposta al riesplodere di possibili violenze.
Fenomeni come la corruzione o il clientelarismo – che hanno caratterizzato una certa pratica politica ed economica della Tunisia per lungo tempo –, hanno prodotto una oggettiva difficoltà nel garantire il potere reale. Quello che si prospetta è uno scontro fra una struttura politica autoritaria e le istanze emergenti della popolazione. Pertanto, il futuro della transizione tunisina dipenderà dalla capacità di coesione dell’opposizione (che storicamente è stata sempre incapace di unirsi contro il regime benalista) e delle varie componenti della società civile. Tutti questi soggetti dovranno confrontarsi con le resistenze, tuttora forti, dell’establishment che ha governato il Paese per oltre vent’anni e che potrebbe continuare a governarlo.
[Nota: l’articolo originale di Giuseppe Dentice è pubblicato su Equilibri.net e coperto da copyright. Ripreso dietro autorizzazione].