Le parole in Rete, le rivoluzioni nelle piazze

Ordine contro caos. Analisi contro improvvisazioni. Riflessioni contro slogan. Dopotutto la Rete – vista dal lato positivo – è anche questo. Una grande, stupefacente opportunità. Così come i Social Network che ci stanno dentro. Occorre ragionarci un po’ e forse più a mente fredda quando anche i clamori delle piazze si saranno spenti e i dibattiti che oggi infuriano avranno maggiori elementi a disposizione. Certo è che Nord Africa e Medio Oriente hanno dato in questi mesi un grande scossone a quest’Occidente tutto imbrigliato nelle sue dinamiche economiche, politiche, accademiche. Invece, laggiù la voce si è fatta urlo e l’urlo si è fatto parola. Frasi brevi il più delle volte. 140 caratteri per Twitter, poco di più per Facebook. Ma che importa, dopotutto le agenzie di stampa non usano i “take” per dare notizie flash su fatti gravi o urgenti?

Ed è qui che, tra i tanti motivi di discussione, nasce il dibattito più acceso. Quello che riguarda il citizen journalism. Valore o impostura? Contributo all’informazione o dilettantismo allo sbaraglio? Gli appuntamenti, gli eventi, i forum su questo argomento in questo periodo sono così tanti che si rischia di perderne il conto. Ma quello che sembra un po’ emergere da tutti quei fili intrecciati che il dibattito in corso cerca di dipanare è, purtroppo, un certo accento sul journalism a discapito del citizen. Eppure l’altra faccia della rivoluzione sta proprio in quello, nell’uso dei media e della Rete come strumento sociale. Come mezzo per riprendersi la parola e farla circolare. Certo è chiaro che in un contenitore aperto come Internet ci sta di tutto, il bello e il brutto, il pulito e lo sporco. Perché tutti possono riempirlo. Ma davanti a una cosa potenzialmente infinita come Internet la consapevolezza del cittadino e della sua funzione diventa un grande strumento per migliorare tale sistema di comunicazione. E usarlo per “fini sociali”.

È un po’ quello che sta accadendo in questi mesi, a partire dalla Tunisia, e poi l’Egitto, la Siria, il Bahrein, lo Yemen, la Libia… E come era accaduto prima in Iran. In tutti questi luoghi il filo conduttore è la parola, breve, del cittadino. È l’immagine, magari “sporca” e sfocata delle foto o delle riprese fatte con i telefonini. È, insomma, il tentativo di comunicare. Senza filtri e senza aspettare che una troupe televisiva venga a filmare il sangue o che un giornalista dall’altra parte del tuo mondo venga a descrivere come si vive lì. Questa “intrusione” nel lavoro del giornalista mainstream ha forse un po’ destabilizzato ma, nello stesso tempo, ha dato la misura di quanto il mondo sia più grande di quello segnalato e raccontato nel format di un giornale o nel breve spazio di un TG. In questi mesi si è scoperto quanto i mainstream riescano ad essere in ritardo e abbiano difficoltà qualche volta a “stare sulla notizia”. Un lettore attento e preparato potrebbe fare un semplice esercizio: controllare ad esempio, i post apparsi su Global Voices Online, piattaforma di oltre 300 blogger sparsi in tutto il mondo, e verificare in che misura e numero i post relativi alle proteste in Siria, Bahrein e Yemen, corrispondano ad articoli giornalistici apparsi sui nostri maggiori quotidiani. Il più delle volte i mainstream hanno trattato le vicende con brevi trafiletti o non seguendole giorno per giorno o, infine, quando il numero dei morti era diventato troppo alto. Con questo non si vuole screditare le testate mainstream, semplicemente fare una riflessione: oggi non bastano più. L’informazione non passa più solo dalle testate tradizionali.

Ma, l’aspetto è anche un altro. L’utilizzo dei social media non consente più di nascondere o minimizzare. E il loro uso ha, in un certo qual modo, “costretto” i mainstream a fissare l’attenzione in maniera diversa. O, anche li ha relegati qualche volta a informatori secondari. Non più fonte principale. La questione non è tanto se su Twitter si faccia la rivoluzione e se i social media possano essere un veicolo per alzare i toni della protesta. La questione è come le persone decidono di usare la Rete. Abbiamo molti esempi di un utilizzo intelligente e condiviso della Rete e delle informazioni. Per restare agli ultimi eventi, c’è chi ha pensato di realizzare una mappatura delle proteste dello scorso anno e dell’anno in corso utilizzando le notizie selezionate e vagliate dai maggiori mainstream. C’è chi invece usando i mezzi offerti da Google, ha creato una mappatura degli accadimenti in Libia, quasi giorno per giorno, a partire dal 5 marzo. Solo un paio di esempi che mostrano che nel caos della Rete si può fare ordine e che chi sa utilizzarla in modo intelligente e creativo può fornire un servizio magari utile per ricerche d’archivio e memorie.

Per tornare al dibattito che va tanto di moda in questo periodo: quanto sono “rivoluzionari” i social media? Per non dilungarci troppo prendiamo due punti di vista. Da una parte c’è chi smantella il sogno dell’attivismo on line e che ritiene che i social media siano un altro strumento per i governi di controllare i cittadini, entrare nei loro profili e perseguirarli se contestatori. Parliamo di Evgeny Morozov che ha appena scritto un libro dal titolo The Net delusion: how not to liberate the world e che ritiene che Internet addirittura stia abolendo la libertà. Qui un’intervista recentemente apparsa su un settimanale nazionale.
Dall’altra c’è chi invece, come Clay Shirky al ruolo dei social media come motore di cambiamento sociale ci crede eccome.

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=c_iN_QubRs0[/youtube]

Ma per tornare al punto di partenza, il ruolo dei cittadini e la loro voglia di “protagonismo attivo”, segnaliamo quest’analisi riguardante l’uso di Facebook nei Paesi del Nord Africa e Medio Oriente protagonisti delle proteste degli ultimi mesi. Le percentuali sono così basse (Egitto 5.49%, Libia 3.48%, Yemen 0.74) che la domanda ovvia è: come potevano milioni di cittadini decidere una rivoluzione on line se non sanno nemeno che cos’è Facebook, o comunque non hanno accesso alla Rete? Poi, per approfondire andrebbero analizzate queste statistiche riguardanti la penetrazione di Internet nei Paesi africani. Anche in questo caso, molto bassa. In realtà, quindi, chi ha fatto circolare le notizie sui social media e le ha amplificate sono stati i blogger, citizen journalist, netizen, attivisti della Rete – come li vogliamo chiamare – che dall’altro lato del mondo l’hanno usata in modo creativo e democratico. Hanno fatto ordine, hanno fatto delle analisi, hanno fatto delle riflessioni.

Ma delle rivoluzioni, delle proteste e dei moti di scontento, tutto ciò che da qui noi raccontiamo, sono protagoniste le persone che sono scese nelle piazze. Con le loro videocamere, se le avevano, e i loro telefonini, per cercare di essere cittadini attivi. Per cercare di riprendersi la parola e farla arrivare, in qualche modo, al resto del mondo.

Antonella Sinopoli

Giornalista professionista. Per anni redattore e responsabile di sede all'AdnKronos. Scrive di Africa anche su Nigrizia, Valigia Blu, Ghanaway, e all'occasione su altre riviste specializzate. Si interessa e scrive di questioni che riguardano il continente africano, di diritti umani, questioni sociali, letteratura e poesia africana. Ha viaggiato molto prima di fermarsi in Ghana e decidere di ripartire da lì. Ma continua ad esplorare, in uno stato di celata, perenne inquietudine. Direttore responsabile di Voci Globali. Fondatrice del progetto AfroWomenPoetry. Co-fondatrice e coordinatrice del progetto OneGlobalVoice, Uniti e Unici nel valore della diversità.

4 thoughts on “Le parole in Rete, le rivoluzioni nelle piazze

  • Riferendomi soprattutto alla componente “citizen”, nella scomposizione adottata all’interno di’citizen journalism’, credo che sia una scelta difficile quella di sottovalutare l’importanza dei social media nella maturazione della coscienza sociale e collettiva nel Nordafrica/Medioriente (sz escludere il resto del mondo), per l’accresciuta consapevolezza che questi strumenti consentono soprattutto rispetto ad ambienti soggetti a forte filtraggio dell’informazione. Sposo quindi tutta la tua attenzione nei confronti del fenomeno, con il giusto equilibrio rispetto a fenomeni celebrativi. Ed è ovvio che le rivolte si fanno nelle piazze.
    Credo tuttavia che l’impatto quantitativo della penetrazione e del ruolo di questi tool tecnologici non possa essere accantonata così rapidamente.
    In un recente working paper del centro di ricerca FIERI (http://fieri.it/download.php?fileID=396&lang=ita) se ne conduce un’ampia ricognizione (a partire da banche dati che includono quelle citate nel tuo post) e vi si legge, tra l’altro, “Il web e i supporti per la navigazione online sono strumenti di larga diffusione in gran parte dei paesi d’area (con la sola eccezione della Libia) e ogni riferimento al digital divide o che tenda a minimizzare la loro diffusione non dice tutta la verità.”.
    Solo per citare l’Egitto (similmente per la Tunisia), il Paese vede un tasso di penetrazione di internet del 25% (20 mln pax), 70% dei cellulari (attenzione all’internet through mobile); c’è da scomporre città e campagna, nelle città le percentuali salgono di molto. Va considerato inoltre il “delta”, intendo l’accelerazione nell’uso di questi strumenti, e la -come sappiamo- giovane età media della popolazione (il 60% degli egiziani ha meno di 30 anni). Va anche considerato che l’informazione (anche derivante dallo scambio con i concittadini in diaspora o con gli “occidentali”) è contagiosa e permea gli altri strati della popolazione. L’analisi esposta nel paper è molto lunga e assai interessante; mi auguro peraltro che con il tempo si arrivi a sedimentare la comprensione di questi fenomeni che segnano il nostro tempo. Se qualcuno ha altri consigli di lettura (“scientifici”) sarei ben contento di venirne a conoscenza.
    Grazie, forse sembro un tecno-ottimista, ma credo che valga la pena di approfondire con la dovuta ponderazione.
    D.

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  • Concordo con te Antonella, quando dici “come potevano decidere una rivoluzione online se non sanno cos’e’ Facebook?” forse solo fra qualche anno sapremo effettivamente se e quale ruolo hanno avuto i media digitali nelle proteste del medio oriente e del nordafrica. Comincio a pensare che l’accoppiata “citizen journalism” sia fuorviante: dopo gli uragani, gli tsunami, i terremoti, gli attentati, le rivoluzioni forse è ora di pensare a termini nuovi, che racchiudano consapevolezza sociale, denuncia e reciproco supporto.

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  • Un articolo che stimola la riflessione intorno alle definizioni. La collocazione ‘citizen journalism’, in fondo, è una ‘rappresentazione’ storicamente specifica. Probabilmente un naturale bisogno di definizione sospinto da una certa fisiologica intolleranza di noi umani verso l’indeterminatezza, l’indeterminatezza degli stati nascenti, o, ancora, una reazione alla narrazione distorta della globalizzazione che ci ha preceduti, e, insieme, un innesto con le vicissitudini proprie del giornalismo occidentale, che le tecnologie internet hanno incrociato per prime e con maggiore forza rispetto ad altri settori.

    Anche la tua segnalazione è interessante, Davide. In primis, per una lettura più puntuale, quel dato sulla netta direzione ‘mobile’ che ha preso internet in certi Paesi, e poi per il ruolo della diaspora e, soprattutto, la propensione allo sharing. Per analogia, fra l’altro, quest’ultimo mi fa tornare in mente l’equilibrio auspicato nel libro dossier ‘La libertà delle Idee’ diffuso in occasione del XIV Meeting sui Diritti Umani di Firenze, fra “competizione e dominio pubblico da un lato e diritti di proprietà dall’altro” con l’accento che vi si poneva sul fatto che più lontano è il focus della tutela dei diritti di proprietà dalle persone fisiche dei creatori più i diritti di privativa diventano strumenti di protezione degli investitori e di potenziali interessi monopolistici. Forse ho forzato un po’ la mano nel paragone, ma è indubbio che la circolazione delle idee non prospera laddove i punti di aggregazione sociale, siano essi terrestri o virtuali ricevono un controllo repressivo da parte di quell’entità – lo Stato – che, detenendo il monopolio della sicurezza, lo esercitasse a esclusiva tutela di elite e potentati.

    Potrebbe essere utile, per un’osservazione meno condizionata dalla prospettiva specifica di ciascuno, liberare una quota dell’energia mentale dall’imperativo categorico di definirsi ‘rispetto al solo giornalismo’ o a qualsiasi altra singola professione pratichi chi usa internet per comunicare e incontrare le opinioni e le esperienze degli altri. E qui credo di riallacciarmi alla consapevolezza sociale cui faceva cenno Eleonora.

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  • …. d’altronde, mi sembra anche abbastanza comune che ciascuno veda prima il mondo attraverso le ‘lenti’ che porta più spesso, quelle che indossa per poter svolgere le attività al centro dei suoi interessi più immediati, spesso del lavoro che si è scelto e a cui ha mediamente deciso di dedicare la parte più cospicua del suo tempo e delle sue energie. Questo in sé non mi pare né buono né cattivo, se non fosse che talvolta impedisce o rallenta la percezione di orizzonti alternativi e non di rado altrettanto utili per sé e per gli altri. D’altro canto, queste lenti rappresentano anche l’ancoraggio che aiuta a contrastare il rischio di restare impigliati senza direzione in un iperpresente. Sto cercando – non senza fatica – di superare la dicotomia ‘valore o impostura?’

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